Leone Guillermo

Ho dovuto lasciar passare un po’ di tempo e, insieme a esso, le lacrime di gioia, lo sgomento e l’incredulità; ho voluto aspettare di essere in grado di articolare parole ragionate, che non fossero insulti ai detrattori e scomposte manifestazioni di giubilo dedicate a lui, il “regista di robottoni” che ha vinto il Leone d’Oro alla Settantaquattresima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Ora che l’entusiasmo iniziale è un po’ scemato, o almeno è rientrato nei limiti del mio essere una persona civile, vorrei cercare di analizzarla, questa vittoria, di provare a trovarle un significato che riesca ad andare al di là di un generico “abbiamo vinto”. Anche perché, chi mai avrebbe vinto? I cosiddetti nerd, che al massimo di del Toro conoscono Pacific Rim (intendiamoci, è un film che io adoro) e, se fai poco di metterli di fronte a Cronos, si addormentano?
Non siamo allo stadio, non ha “vinto” nessuno, non nel senso di aver sconfitto qualcun altro. The Shape of Water ha vinto forse il premio più prestigioso al mondo e The Shape of Water è un film fantastico, che parla della storia d’amore tra una giovane donna e una creatura simile al Gill Man negli Stati Uniti degli anni ’60. Insomma, The Shape of Water è un film di mostri, un fantasy in costume, con parecchi elementi fantascientifici. In poche parole, cinema d’immaginazione. Ed è la prima volta nella storia del Festival che una cosa simile accade. Non aveva MAI vinto il Leone d’Oro un film che avesse queste caratteristiche. Non è mai accaduto neanche a Cannes, se è per questo. Con altri generi è successo, qualche volta, soprattutto a Cannes, ma in nessuna occasione, un’opera su cui fosse impresso uno dei tre marchi d’infamia maggiori, fantasy, fantascienza, horror, ha mai potuto lontanamente sperare di portarsi a casa poco più di un contentino. E basta pensare ai mugugni, l’anno scorso, per la proiezione in concorso di Brimstone, o ai mal di pancia e alle reazioni scomposte quando The Bad Batch ha vinto il Gran Premio della Giuria.

Chiamarla rivoluzione forse è un po’ troppo, ma di sicuro questo premio è una prima spallata, anche piuttosto violenta, alla dittatura incontrastata del realismo nel cosiddetto cinema che conta. E se qualcuno dovesse obiettare che il cinema che conta è quello che incassa, commetterebbe un gigantesco errore di valutazione: gli incassi sono una faccenda transitoria e, per quanto mi faccia sempre molto piacere quando un buon film riesce anche a incassare, non sempre questo accade e l’assioma secondo cui la bontà di un film sarebbe direttamente proporzionale ai soldi fatti guadagnare al suo produttore eliminerebbe dall’equazione un buon 90% della filmografia di (un nome a caso) Carpenter. Quindi fate meglio i vostri calcoli.
È però vero anche il contrario: non è un premio e non è il favore della critica a stabilire la bontà di un film. Anche quelli sono valori transitori e fa testo, anche in questa circostanza specifica, l’esempio precedente, ovvero Carpenter.
In poche parole, non ci serve un Leone d’Oro per stabilire che del Toro è un grande regista (autore? Ma sì, autore). Non abbiamo bisogno della legittimazione di qualsivoglia giuria. Lo sapevamo prima e semmai il premio è una conferma di un fatto già noto. Però è tutto qui il problema: era un fatto noto a noi che del Toro lo seguiamo dagli esordi, e vedrete come cominceranno a fioccare distinguo e giustificazioni di varia natura sul fatto che i film di del Toro appartengono solo in maniera parziale al cinema fantastico e di intrattenimento. Un po’ come quando hanno cominciato a rivalutare Romero usando la lente della politica. Anche qui, sappiamo come stanno le cose. Del Toro ha diretto tre film tratti da fumetti, due storie di fantasmi, un film di robottoni, una vicenda di vampiri e tre film di mostri. Tutti interpretabili in svariati modi e suscettibili di letture a diversi livelli, ma di questo si tratta. È cinema fantastico, né più né meno di questo.

Il Leone d’Oro è un’ammissione che il cinema fantastico, usando un linguaggio di genere, può raccontare storie profonde e universali e può far parte di quel grande calderone che è il cinema d’autore. E ancora, che il cinema d’autore non è sinonimo di film persiani sottotitolati in cecoslovacco fruibili solo una ristrettissima cerchia di addetti ai lavori, non esclude la partecipazione del pubblico a priori. Questa cesura, che non ha mai avuto senso e mi domando tutti i santi giorni chi l’abbia escogitata, è una gigantesca, enorme, sesquipedale idiozia, e lo è per chiunque se ne faccia alfiere, siano essi i critici, i cinefili, o il pubblico di massa che cerca un appiglio alla propria pigrizia intellettuale.
Io lo so che sto continuando a ribadire l’ovvio, però pare che tanto ovvio non sia. Sono tuttavia felice che sia stato un festival importante come quello di Venezia a dare i primi colpi di piccone a questo muro che separa il cinema “impegnato” e quindi realista, da quello “disimpegnato” e quindi fantastico, un muro che comunque non credo esista da più di mezzo secolo, perché in precedenza le distinzioni erano molto più sfumate, ma è stato eretto in fretta, è solido e ci vorrà molto più di mezzo secolo perché venga definitivamente abbattuto.

In questo senso, il premio a The Shape of Water è un passo in avanti di cui ci dobbiamo accontentare, perché il cambiamento di cui è foriero è tangibile, per quanto piccolo sia e per quanto siano al contrario grandi le resistenze che incontrerà in futuro.
È arrivato infatti il momento di riavvicinare cinema e pubblico, due entità che si stanno facendo sempre più distanti, con il cinema (se si escludono i cinecomics e, ma tu guarda, alcuni horror) che se ne sta in disparte, ad ammuffire tra festival e sale deserte, e il pubblico che diventa ogni giorno più televisivo e muove il culo dal divano solo in prossimità di un grande evento cinematografico (i casi, diversissimi tra loro, di Dunkirk da un lato e di IT dall’altro sono emblematici). Premiare un’opera capace di avere anche un certo richiamo nei confronti degli spettatori è sintomatico della volontà di un riavvicinamento. Il che non significa che i film di nicchia, solitamente trionfatori in certe manifestazioni, non vadano premiati. Un premio, per molti di quei film, significa spesso la vita stessa, ed è fondamentale che un cinema ostico, complicato e non di subitanea presa non solo esista, ma prosperi anche.
Ma è altrettanto fondamentale che questo cinema ostico, complicato e non di subitanea presa si incontri con il pubblico, ripensando per esempio i meccanismi di distribuzione (lo streaming snobbato a Cannes, a Venezia è stato invece accolto), ma non solo: cominciando a riavvicinarsi agli spettatori per gradi.
Del Toro, per questa missione, è l’uomo giusto al momento giusto. Non è mai stato un regista di blockbuster, tanto che neppure Pacific Rim, il suo film più commerciale, può essere definito un blockbuster, e non è neanche, a tutti gli effetti, un regista “commerciale”; al contrario, alcuni dei suoi film migliori sono ostici e percepiti con diffidenza dal grande pubblico, che il più delle volte non li premia a botteghino. Come dice Fausto Vernazzani di CineFatti: “Senza più alcuno strumento non si riconosce il cinema se non nella invecchiata dicotomia commerciale/artistico, dimenticando quanto siano categorie dipendenti l’una dall’altra se non in rari casi. Quando un anno fa Lav Diaz vinse il Leone non ci augurammo tutti che uscisse in sala? Non avevamo forse il desiderio che avesse successo?”
La giuria del Festival di Venezia, e ancora prima di essa, il suo direttore Barbera, ha reso evidente quello che quasi tutta la critica (e una buona fetta di pubblico) rifiuta di vedere: il cinema è cambiato, è cambiata la sua fruizione, sono cambiate le sue dinamiche produttive, e con esse, bisogna cambiare anche il modo di giudicarlo; rimanere ancorati a vecchie e stantie distinzioni fa male per prima cosa al cinema stesso.
Se c’è una lezione importante che la vittoria di del Toro ci impartisce è proprio questa. E speriamo che sia l’inizio di una nuova era.

11 commenti

  1. Il fantastico (non solo al cinema, ma tout court) sta subendo una progressiva polarizzazione in due campi, soprattutto nel nostro paese.
    Ad un estremo, abbiamo i “non solo ma anche” – coloro che di fondo si vergognano profondamente di essere fruitori del genere, e quindi devono contrabbandarlo per qualcosa di meglio, qualcosa di più: sì, è un film coi mostri, e tuttavia non è solo un film fantastico, ma anche una profonda meditazione sul valore dei sentimenti in una società conformista e paternalista che sblinda come se foss’antani col Vicesindaco.”
    Questi sono quelli che si aggrapperanno al Leone d’Oro come naufraghi del Titanic.
    All’altro estremo ci sono quelli che, nelle immortali parole di Ian McShane, pensano solo a “Tits & Dragons”, gli adolescenti un po’ minchioni di tutte le età, quelli che vogliono il fentesi di menare, la “fantascienza ignorante” e “ma poi ciulano? eh? eh?”, che schiferanno il film di Del Toro definendolo noioso e pretenzioso e che invece la Asylum fa dei capolavori che levati.
    Cercare di schardinare questa polarizzazione non sarà facile.
    (sì, oggi mi sonosvegliato male 😛 )

    1. Basta pensare alla bagarre legata a Game of Thrones o ai romanzi che sono venduti da certe case editrici in tutti i modi possibili per non far capire che sono di fantascienza… 😀

      1. Esattamente.
        Per cui parlare di vittoria del genere forse è un po’ semplicistico (questo al di là del tuo post, ovviamente).

        1. Io infatti non ho parlato di vittoria del genere, ma di un passo avanti in una certa direzione.

          1. Giuseppe · ·

            Verissimo… poi, che per ottenere un sacrosanto passo avanti in quella difficile direzione non si potesse proprio fare a meno dell’avallo ufficiale da parte dei “soliti” ambienti che contano (dove con indefessa coglionaggine qualità e fantastico sono praticamente sempre stati considerati agli antipodi, appunto) è cosa che ragionevolmente agli appassionati può far girare le palle, conoscendo nello specifico il valore di Del Toro da anni e non avendo bisogno -come giustamente scrivi- di legittimazioni “giurate” a riguardo. Ma siamo in Italia, e da noi evidentemente serviva un (meritatissimo, ovvio) Leone per darci una mossa… quindi, ben venga il Leone 😉

  2. Davide Locatelli · ·

    Io mi limito a dire che sono felicissimo. Per 20 anni ho lavorato in una comunità minorile e a questi adolescenti ho fatto vedere di tutto ma gli effetti che hanno lasciato addosso La spina del diavolo , e Il labirinto del fauno non li ha lasciati nessun altro film.

    1. Del Toro infatti è un regista in grado di comunicare emozioni profonde come pochi altri della sua generazione.
      Se lo meritava tutto, questo riconoscimento.

  3. Il sito pare non voglia pubblicare assolutamente il mio commento. Ci avrò provato cinque volte… Boh.

    Comunque niente, esultav per Guillermone. Bravo, coraggio e sfornaci altri filmoni fantastici.

    1. Mi sa che WP ha qualche problemino in questi giorni. Non so che dire 😀
      L’importante è che alla fine, sia riuscito a pubblicare la tua esultanza!

  4. Condivido ogni parola del tuo articolo ❤

  5. The Butcher · ·

    Questo è stato un evento della più grande importanza. Come hai detto tu non è una rivoluzione, ma la vittoria di un film di questo tipo a sicuramente smosso le acque e forse qualcosa potrebbe cambiare pian piano.
    Guillermo è uno dei miei registi preferiti e il primo film che vidi del regista è stato Hellboy (a un’orario indecente, ma ne è valsa la pena). Da lì ho recuperato la sua filmografia riuscendo ad amare Il labirinto del fauno, sorprendermi per Cronos e divertirmi con Pacific Rim (purtroppo Mimic è il suo unico film che un po’ inciampa ma non è stata neanche colpa sua e questo lo hai spiegato benissimo nell’articolo dedicata alla pellicola).
    Ci sono rimasto invece malissimo per l’insuccesso di Crimson Peak. Una pellicola gotica meravigliosa che è stata snobbata da molti perché non sanno cosa sia il gotico.
    Questo Shape of Water è stata una sua vittoria personale e chissà che grazie a ciò non riesa finalmente a portare avanti qualche suo progetto tipo (nome a caso) Le montagne della follia?

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