Regia – Liam Gavin (2016)
Io amo l’Irish Film Board: come organismo atto al finanziamento di film locali non ha davvero un rivale che sia uno. Gran parte degli horror provenienti dall’Irlanda degli ultimi 20 anni esistono grazie ai fondi raccolti da questa istituzione che, lo dico così tanto per suscitare invidia, è pubblica. Non avremmo gioiellini come Stitches, Grabbers e Dark Touch senza l’Irish Film Board e, uscendo dall’ambito che ci compete, vi siete mai chiesti chi abbia dato i soldi a Lanthimos per girare The Lobster? Esatto, sempre loro, dato che quasi tutte le location del film si trovano in terra irlandese. Ora, a parte il caso di Lanthimos che è un autore internazionale e affermato, gran parte delle opere a cui l’Irish Film Board contribuisce sono di esordienti. Immaginate qui da noi un regista al suo primo film che voglia girare un horror e vada a chiedere finanziamenti statali. Le sentite anche voi le pernacchie sin qui? Ecco, in Irlanda i soldi (pochi, forse pochissimi, ma non è questo che conta) glieli danno, così questi giovani esordienti possono permettersi di realizzare dei prodotti professionali e validi e non delle cose amatoriali da far sanguinare gli occhi come da noi. Capite la differenza sostanziale?
Liam Gavin ha diretto cinque corti prima di riuscire a realizzare A Dark Song, che come tutti i debutti ha di sicuro dei difetti, degli eccessi e delle mancanze, ma ha dalla sua il fatto di essere un film originalissimo non nello scheletro della trama, ma nello svolgimento e di essere un’opera radicale, uno di quei film da prendere o lasciare, senza compromessi. Ora, può succedere benissimo che A Dark Song non vi piaccia per tutta una serie di motivi leciti: è lento in maniera spesso esasperante, può dar l’impressione di una gigantesca supercazzola mistica, presenta due protagonisti non proprio gradevoli e ha un finale che lascerà dubbiosi parecchi spettatori, indecisi se liquidarlo come una pacchianata senza né capo né coda o invece amarlo perché, nonostante sia in effetti una pacchianata , può vantare una potenza emotiva di un certo livello, nonché una coerenza narrativa di ferro e un rigore etico unico.
Detto questo, A Dark Song può essere riassunto in pochissime parole: “due persone chiuse in una vecchia casa cercano di compiere un rito per entrare in comunicazione con entità soprannaturali di varia natura”. Non assisterete ad altro durante l’ora e quaranta di film che vi aspetta.
Andando più nel dettaglio e senza fare spoiler, il film è la storia di Sophia, una donna che ha perso il figlio in circostanze che verranno chiarite soltanto alla fine. Per tornare a comunicare con lui, assume un esperto di occultismo pagandolo profumatamente e, insieme, si sigillano in una casa affittata per l’occasione allo scopo di evocare delle forze che dovranno fare da tramite tra Sophia e il suo bambino.
Niente di nuovo, all’apparenza. Eppure un rito compiuto in questo modo non lo avete mai visto. Prima di tutto, il rituale di Abramelin al centro del film può durare mesi prima che accada davvero qualcosa e quindi Sophia e la sua guida Solomon sono obbligati a condividere lo stesso spazio ristretto (non possono uscire neanche se si verifica un’emergenza) per un lasso di tempo molto lungo; in secondo luogo, più che una semplice evocazione come se ne sono messe in scena tante in svariati horror soprannaturali, il rito di Abramelin è un’ordalia, quasi un esperimento sadico perpetrato da Solomon su Sophie; infine a compierlo sono due personaggi estremamente anomali: Sophie (Catherine Walker, mamma mia quanto sei brava) è una donna dalla determinazione suicida, con sulle spalle un dolore che è davvero difficile da descrivere o razionalizzare, che le segna la postura, il modo di muoversi, le sfigura i lineamenti, le conferisce una durezza feroce e, allo stesso tempo, l’arrendevolezza nel sottoporsi a delle vere e proprie torture, che può avere solo chi non ha niente da perdere. D’altro canto, Solomon (Steve Oram) è quanto di più distante vi possa capitare di vedere dalla rappresentazione classica di esperto di arti occulte. Oltre a essere simpatico come una zanzara nel cuore della notte, fisicamente un po’ ripugnante e con le capacità empatiche di un procione, è molto più simile all’idea che il cinema ci ha consegnato dei nerd e degli sfigati che al fascino macabro di una persona abituata ad avere a che fare con forze che vanno al di là della nostra comprensione. E questo rende il tutto più reale che se avessimo visto un tizio allampanato, pallido, tutto vestito di nero che si esprime con un linguaggio forbito infilando un latinismo dietro l’altro. Solomon è sboccato, volgare, sbrigativo e violento.
L’alchimia tra Solomon e Sophia è il vero perno del film, non perché i due vadano d’accordo, ma proprio per il contrario. Liam Gavin fa percepire allo spettatore la forzatura alla base di questa convivenza: mai nella vita una donna di estrazione sociale evidentemente elevata come Sophia avrebbe guardato neanche per sbaglio uno come Solomon, ma ora ha bisogno di lui per curare la propria disperazione e Solomon lo sa e se ne approfitta. Ma il rapporto tra i due è fatto anche di tanti, sottilissimi spostamenti di potere da uno all’altra, perché – lo abbiamo detto prima – Sophie non è una facile da sottomettere e cercare di sfruttare il suo dolore enorme a proprio vantaggio non è di certo la migliore delle idee. E tuttavia questi due personaggi arriveranno a stipulare una sorta di patto, e riusciranno a conoscersi a un livello profondo e intimo. In questo percorso, arriveremo ad apprezzarli anche noi spettatori, dopo che all’inizio sopportare entrambi è stato davvero complicato. Più che un gioco al massacro a due, A Dark Song è una lenta scoperta della propria fragilità esistenziale. E non si tratta tanto di trovarsi al cospetto con delle forze più grandi di noi, benevole o malevole che siano, quanto piuttosto trovarsi al cospetto di noi stessi: l’isolamento, la chiusura, i ripetuti rituali di purificazione, la rinuncia temporanea alla vita, al sesso, alla compagnia di altri esseri umani, creano un’alterazione della coscienza che permette a Sophie di aprirsi all’Altrove.
O forse va semplicemente così fuori di testa da cominciare ad avere allucinazioni.
Il dubbio, in questo senso, permane fino alla fine, nonostante la deriva misticheggiante degli ultimi minuti, che possono essere anche interpretati come il delirio di una pazza, a seconda delle vostre posizioni in materia di fede e superstizione. Sta di fatto che la scelta di Gavin è di rimanere in una zona ambigua, senza fornire una spiegazione univoca agli eventi, ma l’enfasi emotiva data dal regista all’ultima scena potrebbe far storcere il naso a parecchi di voi.
A Dark Song può vantare un comparto tecnico di tutto rispetto: essendo in fin dei conti un dramma da camera, Gavin può utilizzare i pochi mezzi a disposizione al massimo delle sue possibilità. Molto buono il lavoro scenografico sulla casa che parte come una normalissima, anche se un po’ vecchia, dimora e diventa il prototipo della casa infestata, non perché lo sia veramente, ma perché lo sono le persone che la abitano. Le stanze, i corridoi, il mobilio si trasformano in elementi minacciosi e claustrofobici mentre il tempo passa e sembra quasi che le mura si rimpiccioliscano, stringendosi intorno ai personaggi. Gavin è bravino con la macchina da presa, azzecca parecchie inquadrature interessanti. Forse eccede un po’ troppo coi primi piani, ma è anche voluto, per accentuare appunto la sensazione di essere prigionieri. Le poche scene in esterno sono suggestive quanto basta e, in generale, sia Gavin che il suo direttore della fotografia Cathal Watter, dimostrano di avere un buon occhio e di non usare il cinema come sfoggio di bravura, ma in funzione eminentemente narrativa, il che agli inizi è già un ottimo risultato.
Non può piacere a tutti, A Dark Song, ma se siete alla ricerca di una prospettiva un po’ diversa su tutto l’armamentario di sedute spiritiche ed evocazioni, un punto di vista più quotidiano, prosaico e “sporco”, forse vi lascerete conquistare.
A me è piaciuto tantissimo e nonostante quel finale che in altre circostanze avrei chiuso il pc al contrario ma stavolta invece no. Ho apprezzato il rigore da incubo del rituale e i due attori, due persone danneggiate che si attraggono come calamite. Per me nella top 10 dell’anno insieme a Get Out.
ps: la sequenza finale in cui le forze del male (o della psiche) si scatenano mi ha ricordato tantissimo il finale di Sentinel (film che adoro, ma lì erano ben altri cazzi)
Sì, io anche ho apprezzato tantissimo tutta l’impostazione del film, anche perché è davvero originale, ma non originale tanto per fare il figo, è davvero sentito, mi è sembrato un film di una sincerità straziante.
Per Get Out, sto aspettando l’uscita in sala la prossima settimana!
Get Out è proprio figo, sembra quasi una satira crudele raccontata da Mark Twain 🙂
Interessante lo voglio vedere, è possibile trovarlo in giro per il web? 🙂
Un altro film molto azzeccato. Lento e faticoso ma ne vale assolutamente la pena. Tra l’altro mi pare che pur senza volerlo sia riuscito a creare una specie di John Constantine molto più azzeccato e realistico di quello del film a lui dedicato.
Riguardo al finale io l’ho apprezzato così com’è. Credo che storcere il naso davanti a esso, come dici tu, equivarrebbe a un rifiuto infantile del fatto che sia possibile aspirare a un diverso tipo di spiritualità, non necessariamente negativa o “esotico/esoterica”. Credo che rifiutarne la possibilità sia da bambino viziato che si tappa le orecchie per non sentire, o da adolescente che trova “fico” solo il demonio.
Per quanto mi riguarda riuscire ad arrivare “da quelle parti” proprio con un horror invece serve perfettamente a ricordarmi quanto vitale e pieno di possibilità è questo genere.
In effetti a Constantine ci ho pensato, perché l’occultista raggiunge i suoi stessi picchi di insopportabile sgradevolezza, ma alla fine riesci lo stesso a volergli bene.
E poi sì, ci sono le varie dipendenze che caratterizzano il personaggio. In realtà, questo è un film su cui ci sarebbe davvero una tonnellata di roba da dire e io mi sono anche troppo contenuta, ma è vero: mostra tutte le enormi potenzialità dell’horror se affrontato con un piglio personale.
Quanto ci manca qui un equivalente dell’Irish Film Board, e quanto ancora continuerà a mancarci, mi sa 😦
Interessante la scelta del rituale di Abramelin che, già di per sé, giustifica quella lentezza necessaria a creare un faticoso rapporto simil-empatico fra i due protagonisti e l’attesa crescente di quello che sarà il risultato del rito…
Più che un rituale è un’ordalia 😀
Però sì, proprio per questo funziona molto bene.
Il finale è ciò che rende vivo questo film.
Storcere il naso sarebbe strano, all’inizio è avvisato che si vuole evocare l’angelo guardiano, non un demone. E se credi ed evochi demoni e diavoli, allora non puoi negare angeli e affini (dico come coerenza in una realtà inventata).
La richiesta finale è stupenda. Arriva dopo tutto quello che quella donna ha passato, e tutto quello che ha passato non basta a farla cambiare, ma -solo- a farle aprire gli occhi. In extremis.
A vedere dove sta il vero problema. …Dell’umanità in generale direi.
E il sorriso dell’angelo, prima incatenato da un sacrilego rituale, vale un po’ d’emozione no? Lungi da noi il cinismo. È cinema dopotutto.
Io non sono molto lucida: sono sensibile all’argomento senso di colpa/perdono e piango anche con degli spot pubblicitari particolarmente efficaci.
Però sì, mi sono emozionata tantissimo con il sorriso dell’angelo.