1966: Un Angelo per Satana

 Regia – Camillo Mastrocinque

“Temo che sia stato uno sbaglio ripescarla. La gente di qui la odia, però è davvero molto bella. Lo sai che mi hanno chiamato strega?”

Avvertenza: anche se si tratta di un film di sessant’anni fa, io ve lo dico che ci sono SPOILER

Il film che chiude idealmente la stagione del gotico all’italiana, aperta 9 anni prima da I Vampiri di Freda e Bava, è un sulfureo gioiello pieno di fascino che ha come protagonista la regina indiscussa di questo particolare sotto-genere: Barbara Steele. È il nono, nonché ultimo gotico italiano a cui l’attrice ha partecipato ed è anche il meno conosciuto.
Mastrocinque non era alla sua prima esperienza in campo horror: famoso per ben altri tipi di film, aveva comunque diretto Christopher Lee ne La Cripta e L’Incubo, una delle innumerevoli trasposizioni di Carmilla, seppure con lo pseudonimo anglofono di Thomas Miller. Ecco, La Cripta e L’Incubo non è proprio un film memorabile, ma con il secondo tentativo, Mastrocinque sembra trovarsi a suo agio, forse a causa di un’ambientazione, quella di un minuscolo e non specificato villaggio italiano, a lui più congeniale, e di una trama che concede alla regia una grande libertà d’azione, dato che non accade poi moltissimo e tutto è lasciato alla costruzione dell’atmosfera e alle numerosi allusioni erotiche disseminate lungo tutto l’arco del film.

Un Angelo per Satana è una strana creatura, difficile da inquadrare. Come tutte le grandi storie gotiche, parla di un passato che ancora esercita il suo influsso funesto sul presente, di morti che non ci pensano proprio a lasciare in pace i vivi e di antiche maledizioni. Ma ha anche dei risvolti  da Giallo (inaugurato ufficialmente da Bava tre anni prima) e una vena realista nel rappresentare, quasi come in un bozzetto, gli abitanti del piccolo borgo dove la storia ha luogo, in tutte le loro superstizione, grettezza e forza vitale contrapposta alla decadente abulia dei ricchi e nobili protagonisti.
Pieno di suggestioni letterarie, che vanno da Fogazzaro a La Venere d’Ille, il film parla di una statua emersa dalle acque di un lago. La gente del posto è convinta che porti il malocchio, perché è legata a una tragica vicenda di due secoli prima che coinvolge la famiglia più in vista del paese. Barbara Steele è Harriet, ultima discendente della casata a cui la statua appartiene. La giovane donna ha studiato in Inghilterra ed è da poco tornata in Italia per prendere possesso dei suoi beni, fino a quel momento curati dal suo tutore. Apparentemente è Harriet che commissiona a uno scultore il restauro della statua. E il film comincia proprio con l’arrivo dello scultore nel paesino, in un’inquadratura da fiaba sulle acque del lago che ricorda addirittura il Vampyr di Dreyer.

Le fattezze della statua sono identiche a quelle di Harriet: la scultura era stata infatti creata a immagine e somiglianza di una sua antenata, Maddalena, ed era finita nel lago quando Belinda, la cugina brutta e invidiosa di Maddalena, per distruggerla, era caduta in acqua con essa, trovando così la morte. Mentre il restauro procede, Harriet comincia a cambiare e sembra essere posseduta dallo spirito vendicativo di Belinda. Va in giro a sedurre tutti gli uomini del paese, portandoli alla follia e all’autodistruzione; manda in frantumi famiglie, rompe fidanzamenti, diventa la causa di stupri e omicidi e, ovviamente, attira su di sé l’odio della piccola comunità, dove sono tutti convinti che sia una strega.
L’unico a mantenere un atteggiamento razionale è lo scultore (Anthony Steffen) e sarà proprio lui a risolvere il mistero, che si rivelerà molto più prosaico e terreno di quanto le premesse soprannaturali facciano presagire.

Ci sono le persone normali e poi ci sono le divinità. Barbara Steele appartiene alla seconda categoria. La sua sola presenza sullo schermo è sufficiente a illuminarlo. Sullo spettatore l’attrice esercita una sorta di ipnosi. Si cade in trance, quando si guardano gli occhi della Steele. I lineamenti del suo viso sono la quintessenza stessa del gotico. Nessuna, meglio di lei, è mai riuscita a incarnare il fascino malsano e sensuale dell’eroina gotica. Angelo e demone allo stesso tempo, Barbara Steele sembra nata per interpretare personaggi doppi, per come passa dall’innocenza assoluta all’assoluta malizia nello spazio di una frazione di secondo, per come riesce a sedurti con un’alzata di sopracciglia, un gesto, uno sguardo obliquo, per l’erotismo che traspare da ogni suo movimento. Se pensate che io stia esagerando è perché non l’avete mai vista recitare. Mario Bava, a cui va il merito di averla portata alla ribalta, le diede appunto un ruolo doppio ne La Maschera del Demonio e così ha fatto Mastrocinque in questo film: tanto è dolce, remissiva e delicata Harriet, così è perfida, violenta e insaziabile Belinda.

Il tema del doppio era anche al centro del precedente film gotico di Mastrocinque, con Carmilla come immagine speculare della protagonista. Qui vediamo la Steele quasi sempre riflessa in uno specchio, occupata a contemplare la sua bellezza in una spirale narcisista che sconfina, anche con una certa audacia, nell’autoerotismo prima e in una omosessualità neanche troppo latente poi. Infatti, l’unico corpo per cui sembra provare interesse, una volta “posseduta” dallo spirito di Belinda, è un altro corpo femminile, un altro doppio, quello della sua cameriera. Se Belinda vuole distruggere gli uomini, colpevoli di non averla desiderata quando era in vita, desidera però un’altra donna.
È quasi un peccato che, alla fine, la soluzione sia del tutto spiegabile, ma il duplice colpo di scena che chiude il film è orchestrato alla perfezione. La parte, chiamiamola così, investigativa di Un Angelo per Satana accresce anche l’importanza storica dell’opera, perché la configura come un fondamentale snodo di transizione tra il gotico classico e il Giallo che, dalla fine degli anni ’60 in poi, sarebbe diventato la punta di diamante della produzione di genere italiana.

Da un punto di vista estetico, il film è realizzato con una grande cura per i dettagli; a uno spettatore odierno potrà dare una certa impressione di immobilismo e staticità, ma Mastrocinque costruisce un’atmosfera perturbante e ambigua con tanti, piccoli tocchi di classe eccelsa. Non è un film moderno, se non per il coraggio di certi temi che comunque erano parte integrante del gotico italiano e della cosiddetta “morbosità europea”, e appartiene a una dimensione congelata nel tempo.
Un Angelo per Satana sembra spostarsi a rallentatore verso una tragedia ineluttabile. Si assiste al degrado e alla distruzione sistematica di un’intera comunità per mano di una sola persona e, sapendo a posteriori che non c’è nulla di soprannaturale, il tutto acquista una luce ancora più sinistra: il personaggio interpretato da Mario Brega (sì, quel Mario Brega) che arriva, sotto l’influenza di Harriet/Belinda, a dare fuoco alla propria casa con moglie e figli dentro, o quello dello “scemo del villaggio” trasformato in un assassino e stupratore seriale, spogliati dall’aura della maledizione dall’oltretomba, si rivelano in tutto il loro umano squallore.
Se Belinda non esiste, se non c’è una scusa per commettere quelle azioni così turpi, allora ci troviamo più dalle parti dello sguardo politico e antropologico di un Fulci in Non si Sevizia un Paperino che in un ambito prettamente gotico e fantastico. Per questo la svolta finale è così potente. E per questo Un Angelo per Satana può fungere da ponte per gli sviluppi futuri dell’horror di casa nostra, che avrebbe forse abbandonato le ambientazioni ottocentesche per presentare personaggi calati in contesti contemporanei, ma non avrebbe mai perso quello sguardo impietoso e distaccato sulle pieghe più oscure dell’animo umano.

Il 1976 è un anno pazzesco. Ho persino dovuto fare una cernita perché gli horror sono decisamente troppi. Ci sono un paio di esclusioni eccellenti, ma cercate anche di capirmi: non posso parlare solo di film ultrafamosi di cui hanno già, bene o male, parlato molti altri. È inutile scrivere un articolo su Il Presagio o su Carrie, per carità.  Concentriamoci invece su qualcosa di meno noto e meno discusso.
I film del sondaggio sono: Ballata Macabra di Dan Curtis, Quel Motel Vicino alla Palude, di Tobe Hooper, God Told Me To, di Larry Cohen e, unica concessione a un film di cui avrete sentito parlare fino alla nausea, ma se non lo inserisco mi mettete al rogo perché siete dei campanilisti di un certo livello, La Casa dalle Finestre che Ridono, di Pupi Avati.

9 commenti

  1. valeria · ·

    questo ancora mi manca – ovviamente é stato inserito in lista – ma concordo in pieno con quanto hai scritto sulla steele: ho visto da poco “il pozzo e il pendolo” di corman, e nonostante in quel film appaia solo pochi minuti, sono già più che sufficienti. un carisma eccezionale, direi da brivido, per restare in tema 😉

    1. Sì, Barbara Steele è davvero un’icona. Anche oggi, che ha quasi 80 anni, ha comunque un fascino incredibile. Ed è l’unico motivo per vedere The River, in cui appare una manciata di minuti.

  2. Ottima recensione, voto per Ballata Macabra

    1. Faccio il tifo per Ballata Macabra 😀

  3. Giuseppe · ·

    Il soprannaturale, nel film di Mastrocinque, a modo suo c’è. Ed è il carisma di Barbara Steele (irresistibile oggi come ieri) 😉
    Ah, ho già votato Ballata Macabra ancora prima di finire il commento 😀

    1. Infatti la Steele è al di là delle bassezze di questo mondo 😉

  4. Beh ti facevo più spiritosa, comunque anche se hai eliminato il commento, gli anni restano cinquanta e non sessanta Buonanotte

    1. Sono spiritosa, ma non mi piace quando un commentatore si presenta in maniera ineducata e l’unica cosa che è in grado di fare è sottolineare un refuso.
      Lo trovo estremamente cafone e sì, molto poco spiritoso.

  5. C’era una faccina nel commento cancellato, a casa mia fa una certa differenza…comunque amen, discorso chiuso

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