1964: Lady in a Cage

23313p Regia – Walter Grauman

Non so bene da dove iniziare per parlare di questo film, una delle pochissime opere per il grande schermo dirette da un regista che ha quasi sempre lavorato in televisione e uno dei primi home invasion a memoria d’uomo. Un punto di partenza interessante potrebbero essere i titoli di testa, così tipicamente anni ’60, con più di un debito nei confronti delle sequenze d’apertura di molti film di Hitchcock, eppure, a loro modo, originali, una vera e propria composizione geometrica dell’inquadratura, con il fotogramma spezzato da linee verticali che rimandano alla gabbia del titolo e una serie di immagini disturbanti che, all’apparenza, non hanno nulla a che vedere con la trama del film, ma che sono efficaci nello stabilire un tono generale di angoscia e abbandono: una bambina che passa il pattino lungo la gamba di legno di un barbone addormentato, una coppia che fa sesso in macchina mentre alla radio un predicatore parla del demonio, il cadavere di un cane riverso sull’asfalto, automobili incolonnate nel traffico in una fastidiosa cacofonia di frenate e clacson.
Ecco, Hitchcock va sempre tenuto in considerazione quando si parla di horror non soprannaturali degli anni ’60. O meglio, è al suo Psycho che è necessario guardare, perché, se esiste un film che ha impresso una virata brusca e assolutamente non prevista alla storia del cinema, quello è Psycho. Soprattutto per noi poveri derelitti che ci occupiamo di cinema di genere, gran parte dei thriller americani degli anni ’60, sia quelli più blasonati che quelli di serie B, possono essere considerati una filiazione diretta del capolavoro di Hitchcock. Senza Psycho, non si comprende l’ingresso della realtà nel cinema dell’orrore, ingresso fondamentale ai fini dei suoi sviluppi non solo nel corso dei ’60, ma anche del decennio successivo, sino ad arrivare al new horror.

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Detto ciò, Lady in a Cage è un film sporco, crudele e spietato che, con un linguaggio da cinema d’autore, ci racconta una storia orribile, all’epoca buona per il circuito dei film da drive-in, proiettati a mezzanotte: Olivia de Havilland è la signora Cornelia Hilyard, una ricca potessa di mezza età che abita in una casa a due piani. Di recente si è rotta un’anca e si è fatta installare un ascensore  perché non può salire le scale. È il fine settimana del quattro luglio, la città si sta svuotando e il figlio della donna sta per partire. Tornerà a casa solo martedì. A causa di un guasto elettrico, l’ascensore resta bloccato tra i due piani della casa. Cornelia suona il campanello di allarme, che però viene sentito soltanto da un senzatetto alcolizzato che, invece di aiutarla, le entra in casa e la deruba, per poi andare a rivendersi l’argenteria in un banco dei pegni. Lì, lo notano tre piccoli delinquenti (capitanati da James Caan al primo, vero ruolo cinematografico della sua carriera) e lo seguono fino a casa della donna. Quello che accade, da quando i tre irrompono nell’abitazione, tenendo in ostaggio non solo Cornelia, ma anche il senza tetto e una ex prostituta sua amica, è una delle lezioni più feroci riguardanti la mancanza di umana pietà mai portate sullo schermo.

Come tendo a ripetere spesso (è l’età, chiedo perdono) l’horror è il genere destinato, da sempre, a portarci cattive notizie. Ed è anche quello che ci mostra il nostro peggio. Le due cose vanno, ovviamente, a braccetto e Lady in a Cage è, nonostante sia più facile da catalogare sotto l’etichetta di thriller, da questo punto di vista, un horror puro. Non c’è molta violenza fisica, com’è lecito aspettarsi da un prodotto dell’epoca, e quel poco che c’è è quasi sempre tenuto fuori campo. Eppure il carico di violenza psicologica è così elevato da far impallidire molti home invasion contemporanei che da Lady in a Cage hanno mutuato dinamiche simili, ma si sono poi concentrati su un’esasperazione nel settore torture e affini che, alla lunga, può anche stancare.
In Lady in a Cage, le cose vanno fuori controllo non appena i tre giovani delinquenti irrompono sulla scena, perché sono, tutti e tre, dipinti come poco più che bestie. Ma non si tratta solo di loro: è una intera società a mancare di empatia nei confronti del prossimo e la signora Hilyard, fino a quel momento vissuta in un limbo di agiatezza tra le quattro mura della sua casa, dovrà trovare da sola la forza di liberarsi e cercare di sopravvivere, perché non c’è nessuno disposto ad aiutarla. Chiunque entri in casa, non si pone neanche il problema della donna bloccata in ascensore. Pensa soltanto a portare via più oggetti possibile, come se Cornelia non fosse neanche lì.

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In questa atmosfera di indifferenza generalizzata, i tre ragazzi portano il caos, la crudeltà, la furia belluina di mostri che hanno perso (seppure l’hanno mai avuta) qualunque caratteristica umana. I pochi dialoghi tra Cornelia e i suoi assalitori sono indicativi di una totale impossibilità di stabilire una, seppur minima, forma di comunicazione. Sembra quasi che la donna sia l’unico essere umano rimasto sulla terra. E, infatti, in una delle sequenze più forti del film, Cornelia  si convince che sia caduta la bomba (nel film è molto presente l’eco della guerra fredda) e che tutta la violenza a cui assiste sia causa dell’apocalisse atomica, perché altrimenti sarebbe inspiegabile.
E invece no. Non c’è stato alcun attacco nucleare e quelli sono solo tre piccoli delinquenti che volevano rubare qualche pezzo pregiato di argenteria, ma a cui poi il senso di potere derivante dall’avere di fronte a loro un essere umano in condizione di assoluta inferiorità, ha dato alla testa.
E la povera Cornelia, prigioniera nella sua stessa casa, può solo subire, fino ai minuti conclusivi, fino a quando una rivelazione riguardante suo figlio, non le darà la spinta per reagire.

Lady in a Cage funziona come puro meccanismo di tensione e terrore: la sola idea di trovarsi nella stessa situazione di Cornelia è ripugnante, claustrofobica, amplificata poi da un’ambientazione in piena estate, con un caldo torrido che la regia di Grauman ci fa quasi percepire sulla nostra pelle. Ma è la scrittura a renderlo un piccolo gioiello. Ci sono sottigliezze che, in un prodotto di serie B, raramente si possono riscontrare. C’è un crescendo emotivo, costruito a partire dal rapporto di Cornelia con suo figlio, niente affatto banale e un colpo di scena (sebbene annunciato proprio all’inizio) che, in un certo senso, dona un significato diverso al personaggio della protagonista, ce la fa considerare sotto una luce nuova, come se neanche lei fosse esente dallo sfacelo che colpisce tutti gli altri.
E il finale, dopo quel colpo basso inferto allo spettatore, non è liberatorio, non ci permette di rilassarci. Al contrario, è ambiguo, sceglie di non darci una risposta di fondamentale importanza, quella su cui potrebbe poggiare la sopravvivenza stessa di Cornelia, e chiude il film su una nota disperazione, sottolineata dal primo piano esausto di Olivia de Havilland.

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Tre film per il 1974, che è un anno complicato, dato che, in passato, abbiamo già affrontato sul blog molti horror fondamentali del periodo.
Cominciamo con l’esordio di Peter Weir, una stramberia dal titolo Le Macchine che Distrussero Parigi, proseguiamo poi con Phase IV, formiche cattivissime dirette da Saul Bass e concludiamo con La Morte dietro la Porta, di Bob Clark.

7 commenti

  1. valeria · ·

    é la seconda volta in due giorni che sento parlare di questo titolo: oggi nella tua (sempre magnifica!) recensione e ieri mentre leggevo danse macabre XD direi che so cosa guardare stasera 😉

    1. Vero, King ne parla molto bene in Danse Macabre!
      Fammi sapere che ne pensi 😉

  2. dinogargano · ·

    Visto tanti anni addietro , e non mi ricordo il finale … sarà l’età , appunto …

    1. Ottima occasione per rivederlo, allora 🙂

  3. Giuseppe · ·

    Drammatico horror psicologico (molto più che fisico) di gran classe, portatrice di pessimismo e disumanità molto contemporanei: si sta MALE davvero in quell’ascensore, e a nessuno frega un cazzo di niente.
    P.S. Per il voto punto sull’esordio di Weir, l’unico nella tripletta che credo proprio di non aver mai visto nemmeno per sbaglio…

    1. Io ogni volta che lo rivedo, poi non entro in un ascensore per mesi. E per fortuna che abito al pianterreno!

      1. Giuseppe · ·

        Ecco, a me invece dà una ragione in più per fare le scale! 😉

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