Cinema degli Abissi: Airport ’77

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Regia – Jerry Jameson (1977)

Non è la prima volta, in questa stessa rubrica, che parliamo della moda del disaster movie anni ’70. Abbiamo raccontato la storia di uno dei capostipiti, L’Avventura del Poseidon, film fortemente voluto da Irwin Allen, e in cui non credeva nessuno. Ma che fece guadagnare alla Fox cifre astronomiche, tanto da inaugurare una formula di successo.
Ma se la Fox aveva Allen, la Universal non se ne stava di certo a guardare e, addirittura due anni prima del Poseidon diede inizio a una delle saghe disastrose più famose della storia del cinema, la serie di Airport.
All’origine c’è il romanzo di Arthur Hailey (autore da 170 milioni di copie vendute), basato su un aereo con bomba a bordo e su un aeroporto poco funzionante a causa della neve. Il film Airport esce nel 1970 e sbanca i botteghini, dando così inizio a un ciclo produttivo molto fortunato, interrotto solo dopo tre seguiti.
I film catastrofici degli anni ’70 erano rigidamente strutturati e, a prescindere da produttori, sceneggiatori o registi, condividevano una serie di caratteristiche ben precise che ne determinarono il successo.
Erano film corali, prima di tutto. Con un paio di protagonisti carismatici in primo piano e una pletora di personaggi secondari, con le loro sfaccettature e il loro spessore. Questa coralità implicava l’utilizzo di un cast importante. E infatti, in quasi tutti i film, non solo della serie Airport, ma di ogni pellicola catastrofica del periodo, sono presenti grandissimi attori, spesso anche in piccoli ruoli. Si assemblavano facce note, magari di star del passato, per garantire professionalità e per portare il pubblico in sala.
E infatti, in Airport ’77 abbiamo nientemeno che Jack Lemmon a interpretare il pilota dell’aereo. Circondato da gente del calibro di Christopher Lee, Lee Grant, Darren McGavin, Olivia de Havilland e persino James Stewart

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Erano film che di solito costavano un pozzo di soldi, con sequenze elaboratissime e complesse, in un’epoca in cui gli effetti speciali erano tutti artigianali e, per girare un disastro aereo, dovevi usare modellini, set costruiti apposta e chiedere alle star un impegno enorme, fisico e psicologico.
Altri tempi, sicuramente. Oggi, il ruolo del pilota sarebbe affidato a un ventenne dal sorriso smagliante, non a un Lemmon ultracinquantenne, coi baffoni e un po’ di pancetta. E un’idea come quella che fornisce lo spunto ad Airport ’77 forse sarebbe buona giusto per la Asylum, o per qualche altra scalcinata compagnia di cinema di serie B.
I disaster movie erano film serissimi. Non c’era mai un filo di ironia, mai nessuna battutina smargiassa messa in bocca ai protagonisti, mai alcun cedimento all’azione muscolare o all’esibizione dell’effetto speciale fine a se stesso.
C’era la sceneggiatura, in cima alle priorità. Dialoghi e personaggi, in primo luogo. Poi tutto il resto. Caratteri umanissimi messi di fronte al disastro con i loro affetti, le loro paure, un solido background alle spalle e delle interazioni mai scontate.
Questa era la formula e da lì non si scappava.

Airport ’77 era il terzo film della serie Airport: dopo la bomba e la collisione in volo (Airport ’75), ci voleva qualcosa di grosso.
E allora si pensò di conciliare l’incidente aereo con il cinema subacqueo.
Un lussuoso 747 che trasporta non solo passeggeri, ma anche una collezione di opere d’arte dal valore inestimabile, viene dirottato da un gruppo di ladri, in combutta col secondo pilota. Addormentano tutti quelli presenti sull’aereo, scendono di quota per uscire dai radar, escono fuori dalla rotta. Solo che qualcosa va storto e il 747 precipita nell’oceano a qualche decina di metri di profondità. I sopravvissuti dovranno aspettare i soccorsi (ma è difficile che arrivino, dato che nessuno sa dove sia caduto l’aereo) e sperare che la pressione non spiaccichi la fusoliera come una lattina di birra.

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Quasi tutto il film è ambientato all’interno dello spazio ristretto dell’aereo, dove i nostri protagonisti sono bloccati, mentre diverse tonnellate d’acqua gli premono addosso e cercano un modo per comunicare con l’esterno e segnalare la loro posizione ai soccorsi.
Vedete, i film della serie Airport, nonostante si siano sempre comportanti benissimo al botteghino (tranne l’ultimo del franchise, uscito nel 1980), non sono mai stati molto amati dalla critica. Hanno ricevuto una buona dose di Razzies, e sono stati oggetto di parodie e sberleffi. L’Aereo più pazzo del mondo,per esempio, si prende gioco della loro seriosità un po’ ingessata e della loro pacatezza estrema anche nel pieno di una situazione ad alto rischio.
Eppure a me, di questi film, e di Airport ’77 in particolare, ha sempre colpito un dettaglio: la gestione del ritmo.
Airport ’77 parte pianissimo, con una lunga presentazione dei (tanti) personaggi coinvolti. Il che potrebbe non avere molto senso, per noi abituati al disaster movie moderno. Ma in realtà rappresenta in pieno l’ottica in cui si giravano i grossi film hollywoodiani negli anni ’70, un’ottica adulta, impostata appositamente per un tipo di pubblico generico, ma non decerebrato, a cui interessavano le microstorie di ogni protagonista più del disastro in sé.
Ma, ed è qui che entra in gioco la gestione del ritmo, quando toccava mettere finalmente in scena il disastro, si premeva sull’acceleratore senza alcuna pietà.
La sequenza dello schianto nell’oceano è impressionante. Vedere questo bestione che va a impattare, di notte, contro le onde, le colpisce, prova a risollevarsi in volo e poi viene risucchiato dal mare, crea vero e proprio terrore. E cominciamo a chiederci: che ne sarà della mamma col bambino? E la coppia in crisi? E il pilota con la sua compagna? E quella vecchia signora che ha appena incontrato, dopo tanti anni, la sua vecchia fiamma?
Si creava una connessione con tutti i personaggi e si iniziava a soffrire. Empatia, la chiamavano, un tempo.
Poi il film tornava a rallentare, alternando lunghi dialoghi, computo dei danni subiti, soccorso dei feriti e ogni tanto, un’inquadratura ai finestrini, per far sentire lo spettatore intrappolato e sperduto nel buio dell’oceano.
E ci vuole una buona dose di classe per gestire il ritmo in questo modo.

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Certo, gli attoroni ti danno sempre una mano, anche quando, come Stewart e Lee, appaiono relativamente poco sullo schermo. E tuttavia, anche loro, fanno parte di quel meccanismo di intrattenimento perfetto, dove ogni cosa se ne stava al suo posto, che era la vecchia Hollywood.
Non sono capolavori, tutt’altro. Airport ’77 è uno di quei film che saremo rimasti io e qualche altro matto ad apprezzare e amare. Ciò che me lo fa amare è l’esibizione misurata e mai arrogante del professionismo estremo. Professionismo che si esprime proprio attraverso il senso della misura in tutti gli aspetti.
In questo senso, gli ultimi venti minuti, quelli dedicati alle operazioni di salvataggio, sono da manuale.
Jack Lemmon riesce a tornare in superficie e a mandare ai soccorsi un segnale. Arrivano sul posto navi, elicotteri e sommozzatori. Sott’acqua, i sub legano all’aereo una serie di palloni che dovrebbero portarlo a galla, col rischio molto concreto che si spezzi durante la risalita.
E la risalita… la dovete guardare, perché io non ve la posso raccontare. L’unico aggettivo che mi viene in mente è mastodontico. 

In maniera abbastanza curiosa, Jameson, regista soprattutto televisivo, avrebbe diretto anche un altro film basato su una simile operazione di recupero: Raise the Titanic, del 1980. A differenza di Airport ’77, fu quello che in gergo tecnico si definisce un bagno di sangue. Insieme ad altri devastanti flop commerciali dell’annata ’79-’80 (un paio di titoli a caso, 1941-Allarme a Hollywood e I Cancelli del Cielo), contribuì a segnare la fine di un’epoca. Da allora, i capi degli studios presero saldamente in mano il potere, togliendolo ad autori, sceneggiatori e produttori sul modello di Irwin Allen e dando ufficialmente inizio alla Hollywood moderna.

12 commenti

  1. Visto all’epoca in un cinema all’aperto, è stato il primo della serie Airpost che io abbia visto, e rimane quello che ricordo meglio – sì, nel secondo ch’era Chuck Heston, nel primo c’era Dean Martin, ma in questo c’è il Triangolo delle Bermude (all’epoca un tema popolarissimo – e che i malfattori del film intendono usare come cortina fumogena).
    Ed è vero – è melodrammatico, enfatico e artificioso, ma non è artificiale.
    Bisogna vederlo, e se possibile bisogna vederlo al cinema (la scena dell’ammaraggio, al buio, su grande schermo, col suono stereofonico…)

    E tanto per fare colore locale – Raise the Titanic fu un tale disastro che il produttore osservò che gli sarebbe costato di meno abbassare l’Atlantico anziché sollevare il Titanic.

    1. Purtroppo il film è un anno più vecchio di me e non l’ho mai potuto vedere su grande schermo. Però mi ricordo che da bambina era un appuntamento televisivo fisso, per me.
      E sì, avevo anche registrato il vhs, ma mi mancava sempre la parte iniziale.
      Raise the Titanic è un film strano, mentre lo guardi non riesci a fare a meno di pensare a quanto abbiano speso per realizzarlo e come siano riusciti a fare un film lento, legnoso, quasi insopportabile.
      E sì, al fatto che dei soldi spesi, sullo schermo se ne intravede un quindicesimo.

  2. Giuseppe · ·

    No, nonostante l’autentico e ferreo professionismo sparso a piene mani non erano dei capolavori, è vero. E nemmeno c’è da credere che ci tenessero a diventarlo, in fondo: come ogni disaster movie d’epoca che si rispetti, miravano più che altro a essere grandiosi, senza chissà quali alte velleità artistiche. Ma quando li danno in tv magari te li rivedi ancora, per l’ennesima volta, e non riescono ancora ad annoiarti (come, del resto, non annoia mai la parodia della ditta Zucker/Abrahams)… Per quanto riguarda il catastrofico (certo non nel senso che si sperava) Raise the Titanic, il tempo ha dimostrato che queste faccende, più che a Jameson, era meglio lasciarle fare a James Cameron. Che, tornando ad Airport 77, quella – mastodontica, davvero – risalita finale credo l’avrebbe apprezzata parecchio…

    1. Il problema è che in tv non li ripassano più da non so quanto tempo, questi film. Come tutti i film catastrofici degli anni ’70. Ogni tanto, qualche canale di Sky passa ancora il primo Airport. Ma questo (o il Poseidon) sono stati dimenticati da tutti.

      1. Giuseppe · ·

        Forse, grazie all’incasinatissimo concorrente digitale terrestre, è possibile riuscire a beccarli ancora di tanto in tanto. Non vorrei sbagliarmi, ma l’ultima volta che ho visto Airport ’77 dev’essere stato proprio su uno di quei canali (solo, adesso non ricordo se facesse parte del circuito rai, mediaset o altro)…parlo di parecchi mesi fa, comunque, se non un già un anno intero.

  3. Ricordo che lo vedevo da bambino ma ormai sono eoni che non gli do una ripassata, ammetto di non ricordarlo granché.
    Leggendo, a proposito dei cast super corposi in questo genere di film, mi è venuto in mente Inferno di cristallo che vanta una schiera di attoroni che manco Wes Anderson in G.B.H.

    ps: l’avventura del Poseidon è uno dei primi film di cui ho memoria, me lo faceva vedere sempre mia madre. Tra l’altro l’ho rivisto da poco e tiene ancora botta alla grande

    1. E pure Terremoto non scherzava, con il cast. Erano tutti così, questi film. Un assembramento impressionante di facce note 😀
      L’Avventura del Poseidon è tra i film del mio cuore. Indimenticabile.

  4. Ho sempre adorato i film catastrofici americani di quegli anni. Io sono del ’70, e i primi dieci anni della mia vita sono stati fondamentali per la scoperta della bellezza del cinema come puro intrattenimento. Il mio amore per l’horror, la fantascienza e le catastrofi è nato in quel periodo. Questi cenni autobiografici di interesse nullo solo per dire grande scelta e grande articolo, come al solito.

    1. No, invece sono interessanti, perché vedo che chi ha avuto la fortuna di vedere questi film al cinema non li ha più dimenticati.
      Io ho mio padre che adora i catastrofici e quindi, ogni passaggio tv era una festa 😀
      Ed era davvero intrattenimento di classe
      Grazie 😉

  5. “per un tipo di pubblico generico, ma non decerebrato”… ecco, appunto.
    Questo tra gli Airport è quello che ricordo di più. Mio padre – colui che mi ha fatto amare il cinema e la musica – adorava questi film (e anche fantascienza e horror) ed insieme li abbiamo guardati spesso.
    Non saranno capolavori, ma io li adoro. Per gli attori, perché non ci sono solo giovani come protagonisti (come invece oggi capita il 99% delle volte), sono credibili, sono girati bene, ed oggi per noi hanno quel sapore vintage che non guasta,
    Ho trovato un negozio a Torino che vende tutti questi film diversamente moderni e piano piano li sto comprando 🙂

    1. Devo farmi anche io una videoteca vintage, soprattutto per questa roba anni ’70.
      Sono film che invecchiano sorprendentemente bene 😉

      1. Mi piace tenerli, poi ci sono attori come James Stewart che io adoro. Era un altro modo di recitare, con meno fronzoli e meno spacconate e più professionalità.
        Poi capitava spesso di veder recitare insieme grandi cast, e mi intrigano anche le storie dietro il film, i dettagli sulla produzione.
        Resto sempre affascinata di come ci si industriava artigianalmente ed in modo spesso certosino per creare effetti speciali “fatti a mano” assolutamente credibili.
        Ho nostalgia di quel cinema.

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