Ho sempre grandi difficoltà a parlare di film che mi hanno colpita da un punto di vista emotivo. Posso scrivere per ore di qualunque cosa, ma quando si tratta di spiegare un alto grado di coinvolgimento, che spesso va anche al di là dei meriti oggettivi dell’opera in questione, tendo a zoppicare. Ho soprattutto paura di perdere la lucidità, di abbandonare del tutto qualsiasi forma di spirito critico in favore di una serie di sensazioni, più o meno forti, più o meno violente, indotte dal film.
Perché è vero che la predisposizione d’animo con cui ci si siede a guardare una determinata pellicola conta tantissimo. E può succedere di restare coinvolti da prodotti mediocri, solo perché sono capitati al momento giusto. Quindi, perdonatemi in anticipo se il post uscirà fuori un po’ sbilanciato: These Final Hours è un film che mi ha ammazzato.
E sto ancora cercando di capirne il motivo. In fondo, non racconta nulla che non abbiamo già sentito. È solo l’ennesima storia della fine del mondo…Un asteroide si è schiantato da qualche parte nell’Atlantico e, uno dopo l’altro, tutti i continenti vengono spazzati via. A Perth, una piccola città australiana, mancano ancora 12 ore prima che ogni forma di vita sia cancellata.
James (interpretato da una vecchia conoscenza, Nathan Phillips) lascia sola la donna che ama per andare all’ultima grande festa, organizzata da un suo amico, fratello della sua fidanzata “ufficiale”.
Lungo la strada, però, soccorre una bambina, Rose (Angourie Rice) che non trova più il padre ed è determinata a cercarlo dappertutto, per passare insieme a lui e al resto della sua famiglia le poche ore rimaste.
E così James, che voleva soltanto bere e instupidirsi fino agli ultimi minuti, dovrà accollarsi questa ragazzina, aiutarla, accudirla e proteggerla.
A raccontarla così, la trama sembra davvero a rischio di facilissime derive retorico-sentimentalistiche. Invece These Final Hours è un film estremamente asciutto, povero di dialoghi e persino rigoroso nel porre lo spettatore di fronte a una serie di dilemmi etici di un certo peso.
E non è solo, come recita anche la tagline del film, “che cosa fareste voi in una situazione simile?”. È presente, certo la componente what if. Perché Hilditch, anche sceneggiatore, ci mostra tante opzioni diverse, tanti modi di affrontare la certezza matematica della propria morte, e della fine di tutta l’umanità. Si può scegliere di dire addio festeggiando, si può scegliere di cedere ai nostri istinti peggiori, diventare mostri, ché tanto ormai non c’è più niente da salvare, si può voler stare in riva al mare a contemplare il disastro che ti piomba addosso. Si può anticipare quel disastro sparandosi un colpo in fronte o impiccandosi a una trave. Lo spettro delle reazioni, in These Final Hours, è al completo. E sono tutte umane, tutte (anche le peggiori) comprensibili.
Però, ci dice il regista, si può anche scegliere, una volta tanto in questo sputo di esistenza, di tirare fuori la parte migliore di noi. E compiere un gesto del tutto insensato di umanità che ci riscatti. Anche se forse parlare di riscatto non ha più molto senso.
Hilditch ha la fortuna (e la bravura) di avere a disposizione un gruppo di attori davvero in stato di grazia: Philips e la giovanissima e sorprendente Rice compiono un gran lavoro nel fornire spessore ai loro personaggi, un lavoro di gesti ed espressività, data la scarsità dei dialoghi, sempre molto sobri, mai sopra le righe. Non c’è poi tantissimo da dirsi a poche ore dalla fine. E quel poco che ci si dice è quasi casuale, all’apparenza insignificante. Non essendoci più concesso di progettare, mancando una prospettiva futura, le parole sono obbligate a rarefarsi.
Il rapporto che si costruisce tra i due protagonisti è quindi composto di sguardi, piccolissimi gesti, prima di diffidenza, poi di intesa e, infine, di affetto.
Non mira alla facile commozione, These Final Hours. È un film giocato sul silenzio, sull’attesa di un’apocalisse incombente, inevitabile. Un road movie scandito da uno speaker radiofonico che non sa neanche lui più cosa inventarsi e a cui rimane solo l’elenco dei paesi distrutti.
Un film visuale, nel senso più pieno del termine, storia di paesaggi, di luoghi attraversati per l’ultima volta, di facce salutate per sempre, una storia che ti fa guardare in faccia la morte e ti stringe in una morsa di terrore cosmico, come quella buffonata di Melancholia non era riuscito a fare.
Un film che poteva solo essere girato in Australia. Un’ulteriore gioiello da inserire nella collezione di quel cinema così lontano e così potente, un racconto che è intimo e universale, che non ha pretese filosofiche, ma riesce a distinguersi per quell’estetica così viscerale che è tipica delle produzioni di quella terra. I colori caldi, i territori in cui l’essere umano appare sempre sperduto e solo, le strade deserte bruciate dal sole.
Ed è a L’Ultima Onda che va subito il pensiero, assistendo a These Final Hours, anche quella un’opera che si basava tutta sull’attesa dell’evento. Certo, Hilditch non è Weir e non ambisce alle vette del capolavoro del 1977, né vuole costruire un discorso di natura politica ed ecologica. È un piccolo film di genere che però affronta delle questioni importanti, ci dice che, anche a poche ore dalla fine del mondo, abbiamo ancora la possibilità di scegliere e di compiere la giusta scelta, che è poi ciò che ci rende umani, fino all’ultimo istante.
Un film che ha il coraggio di parlare, con delicatezza e pudore, di sentimenti: la riconciliazione tra una madre e un figlio che si vedono per l’ultima volta, che non sono mai andati d’accordo, che non ci provano ad andare d’accordo adesso, ma che comunque, a modo loro, si salutano e si comprendono; una scena di addio che ti spezza il cuore solo con l’inquadratura di una bambina che corre in uno specchietto retrovisore, e la cui immagine si fa sempre più distante fino a sparire dietro a una curva; e quella disperata corsa finale verso la spiaggia, per dare un senso non solo a queste ore finali, ma a una vita intera che su quella spiaggia vuole concludersi.
Sì, These Final Hours mi ha ammazzato. Come sempre mi ammazzano tutte le storie che dall’uomo tirano fuori il meglio in circostanze che pretendono il nostro peggio. Mi ha ammazzato per il sussulto di dignità di un personaggio superficiale e mediocre, per il suo tentativo, magari inutile, di lasciare un’impronta di sé nel vuoto che si sta profilando all’orizzonte, per la forza di amare ancora qualcuno quando il futuro è rappresentato solo da un’ondata di lava che sta per seppellirti.
Perché, in fin dei conti, se non continuiamo a guardare al domani, anche quando il domani non c’è, che cazzo campiamo a fare?
visto con aspettative bassissime, mi ha tutto sommato sorpreso in positivo.
anche se non mi ha “ammazzato” come ha fatto con te 😉
Sembra davvero un altro bel colpaccio aussie, questo… in effetti, al netto dell’inquietante misticismo aborigeno del film di Weir, anche qui – come ne L’Ultima Onda – non c’è scampo. Uscendo dai confini australiani, lo si potrebbe vedere per certi versi come una versione estremamente asciutta, senza eroismi – casomai dignitosi riscatti morali, meno eclatanti, forse, ma non certo meno nobili – né lieto fine (per quanto a prezzo altissimo) di Deep Impact. E il problema principale di Melancholia rispetto a These Final Hours, L’Ultima Onda e Deep Impact secondo me è che (a prescindere da quanto il “linguaggio” cinematografico di Von Trier possa piacere o meno, discontinuo com’è) la catastrofe planetaria imminente in quel caso diventava niente più che un forzoso pretesto sci-fi mal sfruttato per parlare d’altro. Le conflittuali dinamiche umane, messe in quel modo, non avevano poi tutto questo bisogno di un pianeta in rotta di collisione per emergere (a questo punto – non si scandalizzino i VonTrieriani a tutto tondo – era molto più coerente quel vecchio e affascinante episodio di Spazio 1999, “Rotta di collisione” per l’appunto)…
O quello splendido racconto di Matheson, L’ultimo giorno, che mi ha fatto stare malissimo, all’epoca… E mi fa stare ancora male, se solo ci ripenso.
Già, L’Ultimo giorno… Se la piccola Doris prende le mentine, vincerà un dollaro. Le mentine, certo, quelle che ha scoperto non piacerle per niente. Un Matheson fulminante, e dolorosamente indimenticabile.
I brividi, solo al ricordare quelle mentine