È passato qualche giorno da quando sono riuscita a vedere At the devil’s door, opera seconda di un regista, nonché sceneggiatore e musicista, capace come pochi altri di instaurare un discorso personale e tutta una serie di problematiche moderne su degli spunti radicati nella più classica tradizione del cinema dell’orrore: la storia di fantasmi per il suo esordio, The Pact, e la possessione demoniaca per il suo film successivo.
È interessante come, negli ultimi anni, ci sia stato (forse per reazione anche comprensibile all’ondata di torture porn del decennio scorso) un ritorno a un cinema molto più tradizionale e quasi sempre di stampo soprannaturale. Dopo la recente abbuffata di frattaglie, registi e produttori hanno sentito il bisogno di riprendere a raccontare fiabe del terrore. Nel cinema mainstream, questa tendenza è stata molto spesso fonte di una normalizzazione forzata di un genere che ha invece tutte le caratteristiche per colpire duro, anche se non si occupa soltanto di maniaci torturatori con complicati marchingegni. L’onda l’hanno subito cavalcata, avendo capito l’antifona, James Wan e Oren Peli.
Ma, in ambito indipendente, che è poi dove le idee germogliano più spesso, c’era già Ti West che nel 2009 scriveva e dirigeva un film estremamente classico con satanasso protagonista assoluto. E, non pago di ciò, eccolo nel 2011 a cimentarsi con una magione infestata. Poi, vabbè, Ti West lo abbiamo perso, credo per sempre, ma non è questo il punto.
Il punto è che pochi coraggiosi hanno aperto la strada a un ritorno a delle atmosfere e a un modo di fare cinema molto più orientato al narrare, invece che al mostrare i muscoli splatter. Un cinema meno estremo, più controllato e quindi, per forza di cose, teso a riportare in auge alcune figure tipiche della tradizione.
E non si tratta di rifare film del passato, no. Si tratta di prendere gli elementi portanti che hanno reso grande il cinema del passato e impiegarli in un contesto contemporaneo. Con storie originali.
Uno di questi coraggiosi è sicuramente Nicholas McCarthy, il nostro eroe del giorno.
Torniamo per un istante al 2011: McCarthy dirige il suo quarto cortometraggio, The Pact, in cui una giovane donna (Jewel Staite) se la deve vedere con una misteriosa presenza che infesta la sua casa natale, teatro da poco della morte della madre.
Un po’ come avrebbe fatto anche Flanagan con il suo Oculus, l’anno successivo McCarthy riesce a trovare i produttori per realizzare finalmente un lungo e sceglie di ampliare la sceneggiatura di The Pact, una storia che meritava uno sviluppo più complesso e approfondito.
The Pact parla, appunto, di una casa infestata, come nella migliore tradizione del gotico. Parla di legami familiari dolorosi e costellati di traumi e fallimenti. Parla di un passato che torna a torturare i personaggi. E i fantasmi, che pure ci sono, non rappresentano la minaccia principale.
La trama è, all’apparenza, semplicissima: Ann (Caity Lotz) torna a casa per aiutare sua sorella con il funerale della madre. Solo che la sorella sparisce misteriosamente, senza lasciare traccia e, pochi giorni dopo, la stessa sorte tocca anche alla cugina di Ann. Entrambe le donne erano nell’appartamento quando sono scomparse e tutto fa pensare che sia la casa stessa a nascondere qualcosa di sinistro.
McCarthy (autore anche della sceneggiatura) inserisce però un paio di colpi di scena ben assestati e innesta sul tessuto gotico di base tutta una serie di inquietudini e problematiche moderne. Non ha bisogno di far svolgere la sua storia negli anni ’70, come sembra andare molto di moda in questo periodo, o in qualche epoca storica remota per parlarci di spettri, usa molto bene la tecnologia come forma di comunicazione con entità soprannaturali e ambienta il tutto in contesto borghese e provinciale. La casa della madre di Ann è un piccolo e anche un po’ squallido appartamento che non possiede alcun fascino. Eppure è un brutto posto, per i ricordi che si porta dietro, quelli di un’infanzia, raccontata appena tramite un paio di dialoghi e senza flashback, fatta di abusi e maltrattamenti. Un luogo in cui non si vorrebbe mai tornare.
The Pact forse soffre un po’ l’inesperienza del regista, al suo esordio e ha una sotto trama con un agente di polizia protagonista abbastanza pretestuosa. Ma possiede una prerogativa rarissima: costruisce un’atmosfera da incubo e fa paura come pochi altri film in circolazione.
Con la sua opera seconda, McCarthy prosegue con il discorso appena abbozzato in The Pact: ossatura classica e soprannaturale, trama che sembra lineare per poi colpire con delle svolte impreviste e riuscitissime, personaggi femminili al centro della scena, insistenza sui legami familiari e, cosa invece piuttosto nuova rispetto al suo esordio, un sottotesto politico che viene prepotentemente alla ribalta. Forse anche troppo, più che altro perché McCarthy ce lo urla in faccia per un’ora e mezza, ma bisogna ammettere che è molto funzionale alla storia e, soprattutto veicola un’intuizione favolosa sulla possessione demoniaca nel ventunesimo secolo che potrebbe davvero aprire qualche strada inedita per narrazioni di questo tipo.
Come in The Pact, anche in At the Devil’s Door (titolo alternativo, Home), ci sono due sorelle protagoniste, con un rapporto tutt’altro che risolto o semplice. Leigh (Catalina Sandino Moreno) fa l’agente immobiliare e si occupa in particolare di case pignorate a causa della crisi. Sua sorella Vera (Naya Rivera) è invece un’artista con uno stile di vita del tutto opposto.
A unire le due sorelle così distanti ci penserà la vicenda di una ragazzina che, per far contento il suo fidanzato e guadagnare 500 dollari, è andata a dire il suo nome ad alta voce a un incrocio. E sappiamo tutti chi ama manifestarsi dove le strade si biforcano.
Dire anche un’altra parola sulla trama di questo film equivarrebbe a rovinarvi in maniera disastrosa l’esperienza. Eppure, per parlarne, sono obbligata a fare qualche spoiler. Se non avete visto il film, non proseguite. O fatelo a vostro rischio e pericolo.
Satanasso è parecchio sulla cresta dell’onda. A fare un elenco degli horror con incassi più alti dell’ultimo paio di stagioni, si può notare che lo zampino del diavolo c’è quasi sempre. Partendo dai vari Insidious o The Conjuring, passando per i recenti As Above so Below e Liberaci dal Male, fino ad arrivare al fiasco di Annabelle, si registra un’ondata di possessioni demoniache di ogni tipo, forma e maniera.
Solo che la possessione che McCarthy mette in scena è molto diversa rispetto a quelle a cui il cinema ci ha recentemente abituati.
Intendiamoci: è tutto il post che ripeto in modo ossessivo che McCarthy è un regista classico. Lo è nel modo di girare che rifugge in modo voluto e programmatico gran parte delle tendenze dell’horror contemporaneo: non viene quasi mai usata la macchina a mano, il ritmo è quasi sempre trattenuto, quasi sonnacchioso e il montaggio segue a ruota questa dilatazione dei tempi. Pochi stacchi, grande spazio ai campi lunghi, movimenti morbidi.
Inoltre, McCarthy usa tutti, e dico tutti, gli espedienti dell’orrore soprannaturale. Apparizioni improvvise (ma messe al punto giusto, dove fanno paura sul serio), gente che lievita, bambinette inquietanti e chi più ne ha, più ne metta.
Anche la storia, o meglio, il suo scheletro, segue lo schema consolidato per cui alla possessione segue una gravidanza indesiderata.
E tuttavia è la valenza molto neutra data alla figura demoniaca in questo film a rappresentare una grande innovazione, seppure portata avanti in modo tradizionale.
E non si tratta di dare al diavolo (o chi per lui, dato che l’entità in questione non ha un nome) una valenza positiva.
Se il film, usando come spunto il mestiere di una delle due protagoniste, si concentra sulla crisi economica non è per porre l’accento, come hanno fatto e faranno tanti horror prima di lui, sul fatto che il Male attecchisca più facilmente in una società allo sbando, o su personaggi con seri problemi di sopravvivenza.
At the Devil’s Door sembra quasi proporre un’alternativa.
E il finale, oltre a un paio di scene molto significative (tra cui un bellissimo dialogo tra Vera e una vicina di casa della ragazzina posseduta all’incrocio), sembra proprio suggerire una cosa del genere, oltre a proporre, come faceva anche The Pact, un modello di “famiglia” piuttosto anomalo.
Il più delle volte, l’orrore demoniaco presenta due tipi di soluzione: o si torna a uno stato precedente la possessione, o il Male vince e la sua affermazione rappresenta una sconfitta dei protagonisti. In mezzo ci sono almeno un milione di gradazioni di ambiguità, come per esempio il finale di Rosemary’s Baby che può essere accostato a questo solo in modo superficiale.
Perché in At the Devil’s Door non assistiamo ad alcuna sconfitta. Ma a una scelta ben precisa.
Raccontare sempre la solita, vecchia storia, ma raccontarla meglio di altri. Con più passione, più rispetto per il genere, più libertà creativa. E con un occhio di riguardo alle trasformazioni, economiche e sociali, che stiamo vivendo e di cui l’horror è sempre stato un termometro.
E se fosse questo il futuro del genere?
Vi linko un paio di recensioni di At the Devil’s Door:
Malpertuis
Midian
Catalina Moreno non faceva in bel film il mulo che porta la droga tra Messico e Stati Uniti?
Sì, Maria full of Grace, mi sembra
Grazie!!!!!
The Pact l’ho considerato un esordio incolore con un gusto feticista per l’attrice protagonista e il suo lato B, alcuni momenti riuscitissimi ma, in linea di massima, un film abbastanza mediocre (lo so che molti la pensano diversamente da me). At the Devil’s Door, al contrario, è un film molto più riuscito, con alcuni momenti veramente terrorizzanti e la capacità di disturbare lo spettatore. Però non perdono a McCarthy alcune scelte abbastanza superficiali (l’ecografia su tutte) e un finale che mi è sembrato un po’ campato per aria, poco approfondito nonostante l’impatto. C’è da dire che la crescita è innegabile e sono curioso di sapere cosa tirerà fuori dal cilindro la prossima volta.
Sì, in effetti il ritorno a trame soprannaturali – rispetto ai precedenti anni segnati da molto più “materiali” torture porn – può ben essere visto anche come valvola di decompressione…e, inteso come possibile futuro del genere, non mi dispiacerebbe proprio per niente. Fermo restando che a tracciare il solco di questo futuro siano quelli in grado di farlo, fra i quali -per i motivi ben descritti nella tua rece- McCarthy…assieme a Flanagan, Wan (quando è completamente padrone della baracca, beninteso) e -non ho ancora smesso di sperarci- West. Vorrei che Ti tornasse ancora a parlarci di fantasmi, invece di ridursi al semplice fantasma di sé stesso 😦
Oops…ho spedito un doppione.
anche se non ho ancora visto questo film (il cui trailer però mi ha fatto venire l’acquolina in bocca) concordo totalmente con la prima parte del post. C’è stata un “arida stagione bianca” dove ciò che dove va far paura era l’effetto scenico (il gatto che attraversa la strada all’improvviso) oppure interiora di vitello lanciate alla camera in odiosissimi quanto insipidi torture porn come Hostel XXIII. La violenza è parte integrante di un horror ma non deve essere puro esercizio stilistico pieno di “anabolizzanti” che oggi la tecnica mette a disposizione anche al più imbranato regista. Ecco allora ad un sano ritorno alla “Storia” per narrare il terrore, ad usare tutte le corde perchè un film funzioni (sceneggiatura, regia, fotografia, ecc); perchè è quello l’horror che funziona, che ti fa andare a dormire con quel brividino che devi razionalizzare per poter prendere sonno. Allora si torna agli impianti di Carpenter e si torna a pescare ad un mondo oscuro ed antico di lovercraftiana memoria. Mi sembra un grande ritorno ad uno stile che però si è saputo rinnovare e quindi costituisce un “ricircolo storico” più che un revival.
Questa maturità permette poi delle contaminazioni feconde anche ad altri generi; come un True Detective dove la storia si svolge ad un doppio livello ben bilanciato: una thriller-investigativo con un sottofondo soprannaturale del culto del Re giallo e della città di Carcosa che facevano assumere ad un “Semplice” serial-killer i tratti di un male metafisico (lo stesso che accadde a Michael Myers in Halloweeen di J. Carpenter … e non di R. Zombie)
Io continuo a pensare che The Pact fosse un gradino superiore, c’era un controllo migliore in ogni aspetto e nella sua completezza, le scene da paura era agghiaccianti e il finale era da applausi. Però avercene di film come At the Devil’s Door, spero davvero che McCarthy contunui su questa strada. 🙂
Non so, a me questo secondo film è parso più compatto, magari meno meccanismo puro di paura, ma più profondo.
Comunque sì, speriamo tutti che faccia tanti altri film 🙂
The Pact anche a me non ha convinto al 100%.
McCarthy mi è sembrato più a suo agio nella cosa forse più complicata di tutte, la creazione di una atmosfera dimessa, cupa nel senso di malinconico più che di sinistro, grazie anche all’eccellente utilizzo di colori assai spenti in interni e di giornate perennemente senza sole in esterni.
In sede di composizione e sviluppo della trama, invece, pare meno concentrato, forse addirittura meno motivato, come se la storia gli interessasse meno del discorso ambientale.