Lui si spostava spesso e si nascondeva. Più per vergogna che per paura. Il popolo degli abissi non uccideva quelli della sua stessa specie, anche se erano traditori e reietti. Spesso lo aggredivano mentre si procurava il cibo, obbligandolo a restare a digiuno per giorni interi. Lo circondavano e lo azzannavano a turno, sempre senza colpire i punti vitali, o fargli male sul serio.
La condanna peggiore era la solitudine. Ma lui ci era abituato e, a parte un richiamo atavico, non c’era molto che lo legasse a loro.
Non voleva ferirli e infatti non reagiva mai.
Passava la maggior parte del tempo raggomitolato in qualche grotta, o in viaggio, per cambiare rifugio.Aveva imparato a modificare i propri ritmi. Adesso cacciava anche di giorno, stando molto attento ai passaggi delle navi. Si era dovuto difendere dagli uomini una sola volta.
Almeno, aveva avuto lo stomaco pieno per un po’.
Tra la fame, la fatica di essere sempre in movimento e il dolore delle ferite, quasi non riusciva a sentire la nostalgia per la sua vecchia vita. Quella con Sara.
Se dei ricordi lo assalivano, brevi frammenti, lampi della durata di un istante, lui li scacciava e tornava a occuparsi delle necessità più impellenti.
Non era mai stato così libero. Era un esemplare giovane, quasi un cucciolo, e non si era mai mosso da quelle acque poco profonde in cui Sara lo aveva trovato. Non aveva mai sperimentato il mare aperto e l’assenza di punti di riferimento.
Vagava in un blu sconfinato, lanciandosi a tutta velocità sempre più a fondo, fino a sfiorare col muso il letto di sabbia dell’oceano, e sollevare sbuffi di polvere bianca che si mescolavano alle correnti e lo accompagnavano nei suoi viaggi. Poi risaliva, schizzando in superficie e colpendo l’acqua con la coda. Le onde si allontanavano chissà dove. La costa era lontana, non c’era più terra.
Incontrava altri nomadi solitari come lui: squali, soprattutto. Quasi sempre si limitavano a scivolargi accanto o sotto, tenendosi a distanza. Qualcuno provava ad attaccarlo e lui lo spezzava a metà con un unico morso.
Era forte, era padrone di tutto quello spazio, era privo di obblighi o legami e mentre i suoi fratelli combattevano e morivano, lui conosceva se stesso e il suo mondo. E gli piaceva.
Sì, provava un vago senso di vergogna quando si imbatteva in altre murene nel corso delle sue scorribande, o quando erano loro a venirlo a cercare, per ricordargli chi era e a chi apparteneva. Ma non poteva farci nulla. Non era uno di loro, non del tutto. E non capiva perché quegli esseri così simili a Sara eppure così diversi dovessero dirgli cosa doveva fare, quando Sara non aveva mai provato ad addomesticarlo.
Se proprio doveva appartenere a qualcuno, apparteneva a lei. E non ne era più così sicuro.
Stava crescendo, ancora. Se emergeva e restava immobile, con la testa infilata tra le spire, poteva essere scambiato per un isolotto. Sapeva distinguere tra le imbarcazioni inoffensive e quelle più pericolose. Non le aggrediva mai di sua iniziativa. Quando lo avvistavano, gli bastava nuotare più radidamente e scendere dove non poteva essere raggiunto.
I suoi fratelli si muovevano compatti, sempre in piccoli gruppi di quattro o cinque individui. Lui, da solo, poteva sgattaiolare quasi senza essere visto. Ma se l’equipaggio di una barca qualsiasi provava a dargli fastidio, lui la affondava in pochi minuti e poi spariva di nuovo.
Stava quasi abituandosi a vivere così, la memoria di Sara andava sbiadendo, sostituita da una coscienza diversa, più istintiva, un rapporto tra lui e le acque in cui nuotava, tra lui e le creature di cui si nutriva o che incrociava per caso, la sensazione di essere un pezzo di un organismo che gli viveva e respirava intorno, come un enorme cuore che batteva e di cui lui era il centro.
Poi, una notte, l’aveva sentita. Dopo tanto tempo. Sara era tornata.
Non era lì insieme a lui, non gli nuotava accanto e non poteva toccarla. Ma c’era. Una vampata rossa nel cervello. Una scarica elettrica di calore lungo la spina dorsale. Sara.
Poteva quasi sentirne l’odore, come una scia luminosa che attraversava la corrente e lo raggiungeva a ondate.
Lui cominciò a nuotare poco sotto la superficie, dove il segnale era più forte. Increspava appena il pelo dell’acqua e procedeva sempre più silenzioso e guardingo. Perché Sara era sulla terra. E la terra era pericolosa.
Non riusciva a capire quanto fosse distante. La scia si accendeva e spegneva a intermittenza. Alcuni istanti sembrava quasi che lei si trovasse tanto vicina da poterla toccare, altri la perdeva e, in preda al panico, si metteva a girare in tondo, alla ricerca della sua presenza così sfuggente, eppure così violenta. Lei era nel moto di ogni onda, in tutti i cristalli di sale dell’oceano, nell’ossigeno che lo teneva in vita. Il suo richiamo rimbalzava sulle rocce e veniva trasmesso attraverso il mantello di alghe verdi dove si nascondevano i pesci, dove si consumavano le piccole tragedie di caccia e morte e marcivano gli scheletri dei granchi e delle stelle marine.
Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara Sara
E poi smise di colpo e lei non ci fu più. Sparita. Era di nuovo solo e di nuovo libero.
La sua testa grande quanto un motoscafo emerse a pelo d’acqua, gli occhi gialli puntati verso la linea dell’orizzonte, appena sporcata dai primi raggi del sole.
Intorno a lui, un’enorme distesa di acqua silenziosa e fredda.
La sua libertà. Tutto quell’oceano a disposizione.
Tutto quel vuoto di cui era il padrone.
Non era ruscito a raggiungerla. Neanche sapeva la reale distanza che li separava.
Ma, da qualche parte, lei esisteva ancora. E ancora lo cercava.
Si inabissò, rifuggendo la luce e trovando conforto nel bozzolo salato della corrente.
Due mante gli volarono accanto per un po’, tracciando evoluzioni ad ali spiegate, saltando fuori dall’acqua e tuffandosi a turno. Sembrava volessero giocare con lui.
Ma lui non ne aveva voglia. Accelerò l’andatura e iniziò a tracciare una rotta precisa, ricostruita da odori e memoria.
Andava verso l’unico luogo che poteva chiamare casa, il posto dove, lo sapeva, prima o poi lei sarebbe tornata.
Bello questo viaggio nella mente e nel cuore del mostro. Questo legame tra la bella e la bestia è molto ben descritto.
Ti ridico brava a ogni capitolo,ma che ci posso fare?
ps:io sono ancora esaltato per Pacific Rim,era da anni che non uscivo dal cinema sentendomi un eroe ^_^
Ovviamente io mi identifico nella bestia 😀
avevo colto ! 🙂
sei una stupenda bestiaccia-accia-accia-come direbbe Homer 🙂
Lui si sente come al centro di un enorme cuore, e quel cuore non può che battere più forte se Sara è al suo fianco…glielo dicono le sensazioni che ha provato nel sentirla di nuovo. Tanto che per un momento senza tempo sei riuscita a far diventar murena anche me 😉
Grazie Giuseppe…
In realtà piacerebbe a me essere una murena gigante 😀
O un qualsiasi altro mostrone gigante degli abissi.
Mi devo accontentare di immaginarlo 😉
Sto leggendo tutto d’un fiato…brividi!
Ma grazie!