My Little Moray Eel – 19

Copertina MorayLITTLE GIRL

La prima volta, i suoi genitori erano andati a recuperarla alla stazione. L’avevano trovata davanti alla biglietteria, mentre cercava di spiegare al commesso dall’altra parte del vetro che voleva davvero un biglietto per Orbetello e che no, non era uno scherzo.
“Non partono più i treni per quella destinazione” le aveva risposto.
Sara aveva sbuffato.
“Neanche passando per Civitavecchia?”
“Civitavecchia?” l’uomo si era messo a ridere “Ma sentila, vuole andare a Civitavecchia!”
Dietro di lei, la gente in fila cominciava a spazientirsi.
“Fai passare, dai, levati di torno! E quella bici ingombra!”
Sara stava per replicare, quando aveva sentito una mano che le si posava sulla spalla. Si era girata. Suo padre.
“Smonta la ruota alla bici e sali in macchina.”
Più tardi c’era stata una brutta discussione, perché non era possibile che a diciannove anni dovessero ancora tenerla sotto controllo come se ne avesse dieci. E avrebbe dovuto capire da sola che non era il caso di aggiungere ulteriori problemi in una situazione dove già nessuno ci stava capendo niente. Per un capriccio.
“Non è un capriccio.”
“No? E allora cos’è?”
“Niente. Non è niente.”
E si era chiusa in camera.

La seconda volta, aveva preso le chiavi della macchina della madre di nascosto e, quando i suoi erano andati a dormire, l’aveva tirata fuori dal garage e aveva raggiunto il raccordo. Direzione Aurelia.
Sara non era brava a guidare. Aveva preso la patente da poco e portare la macchina non le piaceva e le faceva venire l’ansia. Odiava sentirsi imbranata. Ilio la prendeva in giro quando la vedeva seduta al posto di guida, con la punta del naso che quasi sfiorava il volante, così concentrata che era quasi impossibile rivolgerle la parola. Fosse stato per lei, avrebbe girato solo in bicicletta. Ma il fatto di dover dipendere da qualcuno le dava ancora più fastidio che sentirsi imbranata. E in certi casi, la macchina poteva tornare utile.
Non aveva pensato molto alla possibile reazione dei genitori. Li avrebbe chiamati non appena arrivata a Orbetello. Una volta lì, in un modo o nell’altro avrebbe raggiunto l’acqua. E avrebbe visto Lui. 

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Molte autostrade che costeggiavano il mare erano state chiuse. Lo avevano detto in TV. Sara aveva escluso a priori la Roma – Civitavecchia. Sperava che l’Aurelia fosse ancora aperta, anche se il percorso era molto più lungo. E sperava non ci fossero posti di blocco.
Non era solo Lui il problema. L’arida fornace romana la stava uccidendo. Respirava male, non dormiva più, passava le giornate sdraiata sul letto con le persiane abbassate. A volte riempiva la vasca d’acqua gelata, metteva la testa sotto trattenendo il fiato fino a scoppiare e immaginava lunghe discese a centinaia di metri. Con gli occhi chiusi le era quasi possibile fingere di essere circondata da pesci che le facevano il solletico sulla pelle, di sentire la corrente che le spostava i capelli e di non avvertire il peso del suo stesso corpo che la schiacciava al suolo.
A volte credeva di essere nata nel luogo sbagliato. Non apparteneva alla terra, ma non era nemmeno una di loro, una degli abissi. Quelle creature pallide e trasparenti forse non l’avrebbero mai attaccata o ferita. Forse l’avrebbero addirittura accettata.
Ma c’era quella grossa seccatura dell’aver bisogno di respirare, come se fosse stata appena abbozzata, non finita, costruita a metà e poi gettata nel mondo e condannata a restare sulla riva.
Dire che il mare le mancava non era abbastanza. Avvertiva gli effetti fisici di questa mancanza. Un malessere diffuso in ogni parte del corpo, una smania, un impulso a muoversi e a fuggire. A volte le si sdoppiava la vista, le girava la testa e sveniva; altre le mancavano le forze e a stento riusciva a muoversi.
Un paio di giorni prima di prendere la macchina e partire, si era guardata allo specchio e le era sembrato che le si stesse squamando la pelle.
E perdeva i capelli. A ciuffi.
Tutto questo perché era stata lontana dal mare quanto tempo? Due mesi? Cercava di ricordare se era già successo altre volte. Le sembrava di no. Non era entrata in acqua per periodi più lunghi. Ma aveva sempre fatto in modo di trovarsi nelle vicinanze.
O forse stava solo impazzendo. I suoi erano convinti che stesse dando i numeri. Le avevano anche proposto di portarla in analisi.
“Tu somatizzi.”
“Somatizzo un cazzo” aveva risposto.
Poco prima dell’uscita per Fregene, Sara vide i lampeggianti blu delle auto della polizia. Tolse il piede dall’acceleratore e rallentò. Un agente sul ciglio della strada alzò una paletta e la invitò ad accostare. Delle transenne bloccavano quasi tutta la carreggiata. Oltre alle macchine, c’erano anche un paio di camionette.
Il poliziotto si avvicinò al finestrino, le fece cenno di abbassarlo.
“Di qui non si può proseguire. Dove stai andando?”
“Orbetello.”
La guardò per qualche secondo, incredulo.
“Ma non lo sai che cosa sta succedendo?”
“Sì che lo so.”
“E allora torna a casa e non farci perdere tempo.”
“È quello che sto cercando di fare.”
“Senti ragazzina, la gente sta scappando dal mare. In ogni parte del mondo è così. Tu sei l’unica che vorrebbe andarci. Adesso ti porto fino alla prossima inversione di marcia e poi voglio vedere il culo della tua macchina che si allontana verso Roma. È chiaro?”

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Sara aveva sentito parlare tante volte, nei libri e nei film, di black out mentali. Ma non ne aveva mai vissuto uno. È che non sopportava più di essere trattata con sufficienza, non sopportava più di essere chiamata ragazzina e aveva solo voglia di urlare. Non avere il controllo su niente la esasperava. Avere così tanta paura la esasperava. Soprattutto, aveva bisogno che qualcuno la ascoltasse.
Portò la mano alla chiusura dello sportello, fece scattare la maniglia, fu investita da un getto d’aria calda.
E poi si fece buio.

 Qualche ora dopo, il telefono squillò a casa dei suoi genitori. Erano le tre del mattino. Rispose la madre, perché il telefono era sul suo comodino.
“Pronto signora, è il commissariato di Fregene. Abbiamo qui sua figlia. È isterica. Continua a dire che lei parla coi pesci. Venitela a prendere”.

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8 commenti

  1. quanti sottotesti che trovo in questo tuo blog novel,poi posso scrivere la recensione sul mio blog di libri,quando lo avrai concluso?
    Ci sono tanti riferimenti al tuo capolavoro precedente,e il tema molto bello che sento profondamente di non sapere a cosa e a chi si appartiene,fare parte di un gruppo che non ti comprende ,sentirsi parte di altri,ma essere diversi…Brava.

    mi sembra però che il blog novel sia un mezzo abbastanza difficile,richiede energie e tempi che magari a volte si disperdono,ma proprio la fatica che talora mi par di intravedere da parte tua nel portare avanti questa tua operazione me la fa apprezzare di più.

    ciao !

    1. Più che altro faccio fatica a tenermi nelle 1000 parole a settimana. è un esercizio che però mi serve per essere sintetica, per quanto poco io ci riesca.
      E poi sì, quando lavoro in moviola, difficilmente riesco a scrivere con una certa costanza.
      In questo senso è abbastanza faticoso.
      Però mi diverto anche tanto.
      E sto scoprendo di avere una vena ironica che non credevo di avere-

      1. ma è già tanto che riesci a mantenere il tuo compito,io ho abbandonato i miei due blog novel,e uno è un copia e incolla di un mio vecchio post apocalittico ^_^

        Sta venendo fuori un buon lavoro,molto cinematografico,pieno di riferimenti e rielaborazioni,molto bene! ^_^

        ps: però mi è venuta in mente un’idea :tanti chtulu che escono dal tevere ,settimana prossima mi metto al lavoro,te piase come idea?

  2. L’ha riempiti di mazzate? Capocciate in volo? Dai dai….!

    1. No, Sara è pucciosa e pure un po’ imbranata…lei le mazzate non le dà, piccolina ❤

      1. Giuseppe · ·

        Ma se la cava bene comunque, come la sua creatrice direi… 😉

  3. “Somatizzo un cazzo”, wow! 😀

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