Dashcam

Regia – Rob Savage (2022)

Chiudiamo questa prima settimana di ritorno a pieno regime (sperando continui così) del blog con quello che è sicuramente destinato a diventare l’horror più divisivo del 2022, ma non soltanto perché ha scatenato una ridda di opinioni nettamente divergenti tra chi lo esalta e chi lo detesta senza alcun appello; il vero problema di Dashcam è di natura non tanto cinematografica quanto ideologica, e mi mette per forza di cose in difficoltà, perché a me il film è piaciuto moltissimo, soprattutto quando rivela la sua natura da puro agente del caos e si scatena senza alcun limite lasciando lo spettatore stordito e attonito di fronte a tanta, plateale strafottenza. Solo che poi è doveroso anche fermarsi a riflettere sulla discutibile operazione che sottende a un prodotto del genere e chiedersi cosa ci abbia esattamente voluto raccontare il buon Rob Savage, fresco dell’inaspettato successo di Host e assoldato da Jason Blum per fare il bis. 

Tanto era sommesso, atmosferico e a lenta combustione Host, quanto è fracassone, rumoroso e volgare Dashcam, e non potrebbe essere altrimenti: sono tutte caratteristiche che il film ha in comune con la sua protagonista, Annie, una no vax, negazinista del covid, sostenitrice di Trump, razzista e molto aggressiva, che decide, in piena pandemia, di andare a trovare un vecchio amico e collega in UK. Tutto il viaggio e la permanenza su suolo britannico vengono documentate da una lunga diretta video. Sì, Dashcam, a partire dal titolo, è un found footage, anzi, nemmeno found, è un live stream footage, se proprio vogliamo utilizzare una terminologia il più corretta possibile. 
Per i primi 20 minuti (il film non arriva ai 90), conosciamo Annie e il suo opinabile sistema di idee e valori, concludendo che se non è la persona peggiore sulla faccia della terra, poco ci manca; la vediamo mettere in difficoltà la compagna dell’amico dal quale si è autoinvitata, piantare scenate assurde nei negozi perché le viene chiesto di mettersi la mascherina, rubare addirittura la macchina al suo amico e incasinargli il lavoro di consegne a domicilio. Il tutto mettendo su un’aria da vittima, per cui sono gli altri a volerla “ridurre al silenzio” o in schiavitù. Insomma, è un copione che conosciamo. Basta passare dieci minuti su un social a casaccio e questa gente arriva a sciami. 

Poi Annie compie il tragico errore di caricare in macchina un’anziana donna in evidente stato confusionale e, da quel momento in poi, Savage passa a mettere la sua protagonista in un tritacarne, entrando in modalità monster movie e alzando tutte le manopole del volume a 5000. Se lo stile telecamerina traballante e impossibilità di capire esattamente cosa diavolo stia succedendo vi fa venire il mal di mare (a me continua a farlo venire, anche se ho fatto pace col linguaggio found footage) o vi irrita o lo ritenete un insulto alla vostra intelligenza, con ogni probabilità odierete Dashcam, e non ci sarebbe niente di male; se invece non vi disturba abbracciare la baraonda anarchica messa in piedi da un Savage completamente scatenato, potreste provarci gusto. Io mi sono divertita, ma capisco che una roba del genere può disorientare e addirittura sfiancare lo sguardo. 
A suo favore, va detto che Savage non è il tipo che si tira indietro di fronte al gore e alle schifezze assortite. Ne vedrete delle belle, e tutte ben realizzate con ottimi e realistici effetti speciali. Verranno fatte a pezzi persone, verranno spezzati arti in campo, verrano fatte saltare teste e, in generale, nessun corpo è al sicuro in Dashcam. 

Ora, io non avrei, in linea teorica, nessun problema con una protagonista come Annie: la sua rappresentazione non è affatto simpatetica, è soltanto non filtrata, nel senso che il punto di vista è il suo, non c’è un giudizio critico da parte del regista. Mi va bene pure questo: siamo abbastanza grandi da saper giudicare per conto nostro. Però, ed è un però delle dimensioni di un continente, Annie non è interpretata da un’attrice, ma da Annie Hardy, che poi è il nome e il cognome del personaggio. Sta, di fatto, interpretando se stessa, o una versione un po’ estrema e sopra le righe di se stessa. Lo show in diretta Twitch, Band Car, che Annie conduce nel film, esiste davvero, con lo stesso titolo e le stesse modalità di esecuzione. Io Annie Hardy non sapevo nemmeno chi fosse, ma quando sono andata un po’ a documentarmi, ho cominciato a sudare freddo, perché a questo punto ho la necessità di capire che cosa il regista sta combinando. Hardy è innanzitutto una cantante, non so se così di estrema destra come appare nel film, ma di certo molto spostata da quella parte. Sicuramente è una no-vax di quelle oltranziste, e non fatico a credere che sia pure la piattola insopportabile che ci dobbiamo sciroppare in Dashcam. 
Il fatto che la sua interpretazione funzioni, in alcuni punti riesca addirittura a essere esilarante, e che si noti quanta intensità e impegno ci abbia messo, forse aggrava ancora una situazione già compromettente di suo. 

E torniamo a bomba al quesito iniziale. Cosa, esattamente, ci sta raccontando Savage? Perché, se davvero la tua scelta da autore (è regista e co-sceneggiatore) è quella di dare un pulpito da cui sputare veleno a un personaggio del genere, deve esserci una qualche giustificazione, e può essere narrativa o politica, non ha importanza. Basta che ci sia. 
Ora, a me pare che una giustificazione esista, solo che è lasciata alla libera interpretazione di chi sta guardando. E non ci vuole poi moltissimo perché qualcuno possa arrivare a ritenere Annie l’eroina del film. 
Dashcam racconta di una persona del tutto concentrata su se stessa, ugualmente noncurante dei problemi di chi la circonda, che passa come una specie di uragano nella vita degli altri, scatena addirittura una specie di creatura demoniaca o mostruosa, e subisce solo in parte (e comunque in misura minore di altri) il peso e le conseguenze delle proprie azioni. 

Non voglio dire che si tratti di una raffinata analisi di cosa significhi essere disgustosamente privilegiata e così accecata dal privilegio da non accorgersi di quello che ti accade intorno, almeno fino a quando non va a lambire il tuo culo, però spero con tutta me stessa che Dashcam parli di questo, e non sia un mero stratagemma per trasformare una sceneggiatura molto classica e derivativa in un film controverso. 
Dopotutto, anche Host era un po’ così: sfruttava il fatto di essere stato girato nel corso del lockdown su Zoom come veicolo pubblicitario, ma in realtà raccontava soltanto di una seduta spiritica andata molto male. 
A me pare, ma non mi piace fare i processi alle intenzioni, che Savage abbia cercato di mantenere il massimo grado di ambiguità consentito per non alienarsi alcun tipo di pubblico, ma lasciare che la gente discuta e si prenda a cornate, mentre il suo film ne esce comunque pulito. 
Un atteggiamento molto simile a quello di Annie, se proprio dobbiamo essere cattivi. 

5 commenti

  1. Avevo dato un’occhiata al trailer, che mi aveva detto pochino – e che non contiene alcun accenno né al carattere della protagonista, né al fatto che la protagonista non sia un personaggio, ma una persona reale che interpreta se stessa.
    Questa commistione voluta fra reale ed immaginario un po’ mi preoccupa – al di là dell’ampliare la piattaforma di una persona abbastanza spiacevole, contribuisce a quella confusione già ben presente fra realtà e fiction. Il pubblico è già abbastanza incasinato senza che contribuiamo a incasinarlo ancora di più.
    Insomma, OK voler fare le cose sperimentali e tutto quanto, ma come diceva quel tale, non bisogna essere così eccitati dal poterlo fare da scordarsi di chiedersi se sia il caso di farlo.

  2. Blissard · ·

    Rob Savage con Host palesa il coraggio (e la faccia tosta) di utilizzare il lockdown come opportunità in un momento nel quale gran parte di noi (io per primo) si limitava a cagarsela sotto pensando al presente e al futuro. Grande curiosità per questo Dashcam e una sola certezza: Savage (nomen omen) ha poco interesse ad apparire politicamente corretto.
    Ora che so che ti è piaciuto ho meno remore nel vederlo, grazie Lucia

  3. Vidi il trailer ai tempi dell’uscita del primo, credo aprile, devo dire che mi incuriosì al quanto su come e quando era stato girato, sembrava interessante e promettere bene, anche le premesse sembravo interessanti. Anche se nutrivo dei dubbi, ora dopo la tua recensione, lo aggiungerò alla lista…Anche se ancora sto SPERANDO arrivi in patria V/H/S 94, anche quello su Shuddler, visto in un SUB-ITA, molto, MOLTO, scadente ma visto comunque. Per V/H/S molto bello, tutti gli episodi hanno del potenziale, alcuni di più altri meno. Sicuramente superiore al secondo

  4. Giuseppe · ·

    In Host, alla fine, a parte il traino dovuto all’essere stato girato in piena pandemia, non c’era altra ambizione che quella di raccontare cosa di male può succedere a prendere sottogamba una seduta spiritica. In Dashcam, invece, le cose sembrano stare assai diversamente: Rob Savage aveva forse l’intenzione di mettere consapevolmente Annie Hardy alla berlina, permettendole di interpretare sé stessa (in tutta la sua ovvia sgradevolezza)? Sono assai curioso a riguardo, anche se non credo che vedere il film basterà a darmi una risposta…

  5. Blissard · ·

    L’ho visto e devo confessarti che non mi è piaciuto granchè.
    My 2 cents:

    Savage prova a dare una sua versione post-moderna del cinema-verità chiamando la vlogger (si dice ancora così?) Annie Hardy a recitare se stessa in una specie di video-nasty aggiornato all’era social, con possessioni, patti suicidi e culti lovecraftiani ripresi rigorosamente in POV tremolante.
    Ad una prima parte passata a provare disgusto nei confronti della protagonista e delle sue azioni goliardiche ne segue una seconda passata a provare disgusto per i movimenti repentini di camera e per gli obbrobri che si affastellano sulla scena: non esattamente una visione piacevole per lo spettatore, ma comunque l’allarmante prodromo di ciò in cui il cinema di serie b potrebbe trasformarsi in breve tempo.
    Savage spinge più in là la sua poetica visuale, tanto che rispetto a Dashcam il precedente Host appare quasi tradizionalista, e Blum gli lascia mano libera, imponendo forse soltanto un tristissimo rap sui titoli di coda che fa rimpiangere persino quello, orribile, che chiude The Visit.