
Regia – Mark Evans (2002)
Io non so se vi ricordate di quando si parlava tantissimo di reality, delle loro implicazioni “sociologiche”, di quello che potevano rivelare del carattere dei loro affezionati spettatori, e di tutto il chiacchericcio instancabile intorno a un tipo di spettacolo che, in seguito, sarebbe semplicemente diventato parte del nostro paesaggio televisivo più banale e triviale. Però, bisogna ammetterlo, questa ossessione nei confronti dei reality ha partorito alcuni ottimi film dell’orrore (e non). Mi piacerebbe, prima o poi, scrivere qualcosa su Series 7: The Contenders, ma non lo si può proprio definire un found footage, e oltretutto siamo alla fine del ciclo a essi dedicato sul blog, perché a giugno chiudiamo per fare spazio ad altro. Ma My Little Eye è un found footage a tutti gli effetti, nonostante sia anche un falso reality. In realtà mi stupisce persino il fatto che il linguaggio voyeuristico per eccellenza abbia generato pochissimi film legati allo spettacolo da guardone per eccellenza, ovvero il reality. Ma noi ci accontentiamo di questo, un piccolo film dimenticato dai più, che vi farà passare una piacevole serata all’insegna della paranoia.
Cinque ragazzi vengono selezionati per partecipare a un web reality: si tratta di restare sei mesi in una casa sperduta in mezzo al nulla, perennemente ripresi da telecamere sparse in ogni angolo che trasmettono in streaming per gli spettatori che hanno sottoscritto un abbonamento. In palio c’è un milione di dollari a testa, ma se anche uno solo dei partecipanti dovesse abbandonare la casa anzitempo, nessuno riceverebbe un centesimo.
Noi in realtà assistiamo alle ultimissime settimane di permanenza dei nostri protagonisti all’interno di questa villa un po’ diroccata, molto isolata e, come se non bastasse, circondata da boschi innevati; seppure uno se ne volesse andare, morirebbe assiderato nel giro di un paio di giorni. O si perderebbe. O finirebbe divorato da qualche bestia tipo orsi o lupi.
I personaggi non hanno una vera e propria caratterizzazione: sono dei tipi umani comuni nell’horror di inizio secolo, li potete riconoscere quasi in tutti gli slasher di quel momento molto confuso, molto crudele, e ancora tutto da analizzare che sono stati gli anni ’00. Ma sono anche ciò che, ai tempi, veniva considerato come “materiale da reality”. In altre parole, son carne da macello.
Una delle preoccupazioni più connesse al reality è stata quella dello snuff. Concettualmente è vecchia come il mondo, e la si ritrova in film come La Decima Vittima o Rollerball e in romanzi come L’Uomo in Fuga e La Lunga Marcia: si chiede fin dove gli spettatori sarebbero in grado di spingersi, nel momento in cui viene loro concesso di spiare la vita vera senza filtri, se si dovesse arrivare ad assistere alla morte. In seguito, Eli Roth ci avrebbe costruito tutta la mitologia di Hostel, su questo quesito. Ma, ripeto, non è una cosa nuova. La novità è, semmai costituita da due fattori, entrambi presenti in My Little Eye: la forma del reality show, che non si limita, come nei film distopici anni ’70, a seguire cacce all’uomo per gioco, partite violentissime o corse campestri dove se scendi sotto una certa velocità ti sparano; quelle sono circostanze eccezionali, diciamo; il reality accantona volutamente il concetto di eccezionale e se ne va nel noioso e prosaico quotidiano. E poi c’è l’internet, signora mia, prateria sconfinata grazie alla quale non c’era più bisogno di entrare nel regno della distopia per filmare e vendere la morte a un pubblico di avidi spettatori: bastavano una carta di credito e una connessione.
My Little Eye raccoglie tutte queste suggestioni di inizio secolo e le riversa in un unico calderone; arriva in anticipo sui tempi, tre anni prima di Hostel, e credo non abbia auto il successo meritato perché ancora non troppo esplicito nel filmare la violenza. Ha intercettato la nascente cultura del torture porn, ma non l’ha messa in pratica, rimanendo legato a un’estetica dell’omicidio ispirata ancora allo slasher anni ’90. Ma forse c’entra anche un tono poco sensazionalista nel mettere in scena certe tematiche, nonché del tutto privo di un punto di vista giudicante sugli avvenimenti narrati. Da bravo found footage, il film si limita a registrare quanto accade nella casa, dalle prime avvisaglie che qualcosa non sta andando per il verso giusto fino al precipitare della situazione nei convulsi minuti finali.
È uno stillicidio di dettagli che non tornano: prima se ne va il riscaldamento, e va bene, può succedere, non ci allarmiamo; poi chiunque sia a organizzare il presunto reality smette di inviare ai partecipanti i pacchi con le provviste; infine, cominciano i giochini psicologici che vanno a colpire le debolezze di ognuno di loro.
Sale quindi il fattore paranoia, come vi dicevo all’inizio: non si sa di chi ci si può fidare all’interno della casa, ci si chiede se qualcuno dei ragazzi non stia sconfiggendo la noia e la monotonia di queste giornate tutte uguali divertendosi a torturare gli altri; c’è persino tempo per l’apparizione di un giovane Bradley Cooper, che interpreta un escursionista che si è perso nei boschi e chiede ospitalità ai protagonisti. Ma è davvero così? E se il reality ormai è online da quasi sei mesi, perché non ha mai sentito parlare di nessuno di loro? Non dovrebbero essere diventati famosi, a questo punto?
Ovvio che la rivelazione finale sia abbastanza prevedibile, e forse non è neppure una rivelazione, ora che ci penso, ma la naturale conseguenza di ciò che abbiamo scelto di guardare.
La cosa più interessante di My Little Eye è di sicuro la regia, perché il nostro punto di vista è quello degli organizzatori di questo turpe spettacolo, e quindi le immagini sono selezionate in un certo modo a uso a consumo di noi spettatori voyeur che siamo lì ad aspettare soltanto una cosa, ovvero la morte più o meno violenta di tutti i protagonisti. In quanto found footage presentato chiaramente come horror, si sa in anticipo che i cinque ragazzi hanno il destino segnato. Possiamo piazzare delle scommesse su chi sarà il primo a soccombere, ma abbiamo la certezza che da lì non usciranno vivi. È per questo che, dopotutto, abbiamo pagato il biglietto ed è per questo che il film ha adottato la forma del falso reality. Trattasi comunque di un found footage, dato che l’esistenza del filmato presuppone che qualcuno abbia recuperato il materiale delle webcam, lo abbia montato, scegliendo quindi tra sei mesi di girato le sezioni più significative, e poi lo abbia dato in pasto al pubblico. Possono essere questioni di lana caprina, ma io trovo sempre molto significativo il modo in cui il materiale di un found footage viene selezionato, soprattutto in circostanze come quelle di My Little Eye, in cui a “parlare” sono delle telecamere attaccate ai muri, e si intuisce la presenza di un occhio nascosto dagli zoom frequenti e dai leggeri movimenti che le webcam compiono per inquadrare proprio lì dove serve.
Difficilmente troverete un film più da guardoni di questo, che dovrebbe essere considerato (se soltanto qualcuno oltre me a un altro paio di matti lo avesse visto) il vero punto di non ritorno del found footage.
E infatti, sarebbe da chiudere qui la rassegna, se non fosse che c’è un ultimo film di cui mi piacerebbe discutere, e per farlo torneremo indietro nel tempo di più di vent’anni, a quando il found footage, così com’è stato codificato da TBWP in poi, ancora non esisteva.
Ma ne parleremo tra due settimane.
mooooolto interessante davvero! non ne avevo mai sentito parlare da nessuna parte ma è uno dei motivi per cui amoadorostravedo per questo blog: senza di te mi perderei un sacco di piccoli, grandi film 😀
È la missione del blog! Poi fammi sapere se sei riuscita a recuperarlo e ti è piaciuto!
Questo ero andata persino a vederlo al cinema e gli ho sempre voluto molto bene, anche se sono anni che non ho modo di riguardarlo!
Io lo avevo perso in sala ai tempi. Poi l’ho recuperato per vie traverse. Non lo vedevo anche io da anni e anni ed è stata una bella conferma!
Anch’io lo vidi in sala e mi fece un grande effetto, col senno di poi è stato assai influente ma al di là di questo è molto ben condotto e spietatissimo nel finale. Dovrei avere il dvd da qualche parte, ma è almeno un quindicennio che non lo vedo.
Sono curiosissimo di sapere qual’è il fantomatico found footage dell’ultimo appuntamento della rubrica.
È un film del 1998, pensa. Un anno prima di TBWP. È molto interessante e fa pure una discreta paura.
Ma vedrai 😀
Allora ho capito qual’è, l’ho visto e mi è piaciuto molto. Aspetto con trepidazione di leggere la tua rece per “l’ultima trasmissione” (battuta penosa, sorry) del ciclo Lucia and the found footage
Lo vidi all’uscita e mi ricordo che mi piacque molto.
Non l’ho visto all’epoca della sua uscita… Va detto che io ero fra quei pochi a NON essere stato assolutamente catturato dal nascente fenomeno del reality, con tanto di inerenti e “colte” implicazioni sociologiche -come hai ricordato- che mi irritavano oltre misura, prevedendo la sua rapidissima trasformazione in quel voyeurismo di bassissima lega che avrebbe appestato le tv generaliste per anni a venire. Insomma, ne avevo già talmente le palle piene da evitare il più possibile l’argomento, anche a rischio di perdermi quei rari prodotti che lo dissacravano meritatamente come appunto My Little Eye: direi che oggi è arrivato il momento di colmare questa mia lacuna…