A Good Woman is Hard to Find

Regia – Abner Pastoll (2019)

La vita di Sarah non è proprio una passeggiata: rimasta vedova di recente, con due figli a carico, senza un lavoro, cerca di barcamenarsi come può, ma l’esaurimento, sia fisico che psicologico, è dietro l’angolo. Aggiungete pure che il marito è stato accoltellato, l’unico testimone è il figlio di 6 anni, che da allora non ha più spiccicato una sola parola, e la polizia ha liquidato il tutto come un regolamento di conti tra spacciatori e non sembra avere alcuna intenzione di prendere sul serio le indagini sull’omicidio, e avrete il quadro completo di un film sorprendente, che ci consegna l’ennesimo personaggio femminile maiuscolo dell’anno, e l’ennesima attrice sottovalutata e chiamata a dare una prova immensa in un piccolo film indipendente. Parlo di Sarah Bolger, che qualcuno di voi si ricorderà in The Badlands.

A Good Woman is Hard to Find comincia come un bozzetto naturalista in un quartiere proletario, che racconta con partecipazione tutti i piccoli soprusi quotidiani che una madre single e povera in canna è costretta a subire per sopravvivere; poi si trasforma in un home invasion, poi in un noir cattivissimo, e infine, in un revenge movie, dove al posto dell’illuminazione smorta e della narrazione sottotono dei primi due atti, veniamo catapultati in un incubo al neon per la resa dei conti, il momento in cui Sarah la fa pagare, sul piano reale e metaforico, ai suoi aguzzini.
Tutto comincia quando il piccolo spacciatore Tito ruba una partita di droga al boss del quartiere e la nasconde proprio in casa di Sarah, obbligandola a dargli ospitalità fino a quando non l’avrà venduta tutta. Sulle prime Sarah, passiva e terrorizzata, sta al gioco, ma poi accade un qualcosa che fa precipitare la situazione, e Tito finisce cadavere nella sua camera da letto. Da qui in poi, la catena di eventi messa in moto da un semplice furto, sfocerà in un crescendo di violenza e logoramento di nervi da guardare ben saldi sulla vostra poltrona e stando attenti a non mangiarvi le unghie.

Negli ultimi anni, ed era ora, direi, stiamo assistendo a una serie di ritratti femminili empatici che ci presentano donne molto distanti sia dalle final girl classiche (con tutto il rispetto) sia dalle eroine forti e indipendenti di solito messe in scena dal cinema hollywoodiano per il grande pubblico. È un processo che parte da lontano, ma credo che il momento esatto in cui ci si è resi tutti conto che poteva essere possibile rendere persone così comuni delle protagoniste, è da far risalire al 2014 e, di nuovo, a The Babadook e a Jennifer Kent. Da lì in poi, il cambiamento è stato inarrestabile, perché una volta che hai abbattuto un muro a spallate, tornare indietro è molto difficile. Non voglio spingermi a dire che A Good Woman is Hard to Find faccia per il noir quello che The Babadook ha fatto per l’horror, ma di sicuro è un film che gioca moltissimo sullo stereotipo della femme fatale, sfruttando il volto di un’attrice che, se fosse vissuta negli anni ’40, sarebbe stata impiegata quasi esclusivamente per quel tipo di ruoli.

Più che imbruttita (non potresti rendere brutta Sarah Bolger neanche provandoci con tutte le tue forze), per tre quarti del film, Sarah è dimessa, abbattuta dal dolore e dall’ansia di far quadrare i conti prima, travolta dalle circostanze sempre più complicate dopo. Ma non solo: è anche remissiva rassegnata ad accettare tutte le vessazioni di fronte a cui la mette la vita. Pare aver rinunciato a qualsiasi speranza non di riscatto, che sarebbe troppo, ma anche soltanto di serenità. L’unica cosa che la tiene a galla è il rapporto, molto bello e reso con pochissime e significative sequenze, con i suoi due figli.
La cosa che più di tutte salta all’occhio è quanto chiunque la incontri tenda a sottovalutarla: la polizia si libera di lei senza troppe cerimonie, Tito la giudica soltanto una comoda pezza d’appoggio per smaltire la droga rubata, la psicologa da cui porta il figlio si sente in dovere di spiegarle il significato della parola metafora, perché una giovane donna con due bambini, povera e vedova, deve essere anche ignorante, giusto?

Ma sottovalutare Sarah, come scopriranno a loro spese il boss di quartiere e i suoi scagnozzi, è un errore imperdonabile, che si paga molto caro.
Il terzo atto del film si apre con Sarah che si guarda allo specchio e, prima di dirigersi verso il macello finale, fa una cosa che non le abbiamo mai visto fare per tutto il corso del film: si trucca. Ed eccola che pare uscita davvero da un noir degli anni ’40, pronta a interpretare un ruolo per salvarsi la pelle. È un cambio di prospettiva dalle caratteristiche in parte sovversive, perché Sarah non è affatto una femme fatale, è una vittima per almeno un’ora e un quarto, e soltanto all’ultimo istante abbraccia lo stereotipo, ma perché lo vuole lei, una scelta precisa frutto di un percorso sofferto, durante il quale l’abbiamo vista fare cose che richiedono qualche chilometro di pelo sullo stomaco.

Si tratta, in un certo senso, di una trasformazione da persona reale a personaggio da film, che segna il momento in cui A Good Woman is Hard to Find lascia da parte il naturalismo e si tuffa nella finzione. Da qui anche il cambio nello stile, nella fotografia, nei colori e persino nel montaggio, per un finale che è tanto catartico quanto poco plausibile se giudicato con il noiosissimo metro della verosimiglianza.
Ma se il cinema è una fabbrica di sogni, allora può anche realizzare quello di non essere più la vittima designata, almeno per un quarto d’ora.
Godetevi quindi questo gioiellino irlandese, ché dall’Irlanda continuano a piombarci addosso egregie cose, e rendete i giusti onori alla sua protagonista, sperando che anche il grande cinema si accorga di lei.
O forse no. Forse è meglio se ce la teniamo noi.

 

11 commenti

  1. valeria · ·

    non so come abbia fatto a sfuggirmi, dato che adoro sarah bolger dal 2002, dai tempi del bellissimo “in america”! :O vado subito a pesca! grazie per la dritta e per la belissima recensione 😀

    1. Dobbiamo aprire il Sarah Bolger fan club!

  2. Bello, un gioiellino veramente.
    ***SPOILER***
    Le storie di donne che tirano fuori gli artigli in maniera brutale, e con essi una parte della loro (nostra) natura fino ad allora sopita mi hanno sempre appassionato. Solitamente questa “metamorfosi” viene mostrata in survival o simili (the descent / revenge /reversal i primi che mi vengono in mente). Qui invece siamo nei dintorni del noir, una cosa nuova quindi, almeno per me: si va oltre la sopravvivenza e la “lotta”.

    In modo particolare in questo film mi pare marcato il concetto di presa di coscienza del sè: da uno stato mentale inizialmente catatonico dato dalla morte del marito e conseguente smarrimento, passando per uno sfogo brutale fino alla ripresa delle redini della propria vita: alla fine infatti la bellissima Sarah sembra rinata. La stessa cosa (anche se messa in scena in maniera molto diversa) l’ho vista nel bellissimo In a Lonely Place del regista riminese Montecchi e in pochi altri film (es. M.F.A. ma in maniera più caciarona, ma chissà quanti altri non mi vengono in mente ora).

    In ogni caso tutti film molto recenti. C’è qualcosa di più datato che parla di questo specifico processo: donna “smarrita” > risveglio della bestia sopita > presa di coscienza/empowerment? Oppure su celluloide sono esistite solo scream queen, ed è l’avvento dell’era del digitale ad averci portarci l’immagine della donna (passami il termine) “illuminata”?

    1. Io credo che, in questo caso, il regista voglia passare da un registro realistico a un registro volutamente finto proprio per sottolineare che il finale catartico è implausibile e, nella realtà, una come Sarah verrebbe fatta fuori in tre minuti.
      Credo che in questo si trovi soprattutto la bellezza del film.
      Per quanto riguarda esempi più antichi, c’è tutto il filone del rape & revenge anni ’70 che punta proprio sul passaggio da vittima a furia vendicatrice, a partire da Non Violentate Jennifer, ma erano film con uno sguardo molto differente rispetto a quello contemporaneo.

  3. Per certi versi la protagonista di questo film da come la descrivi mi ricorda mia madre quando io e mio fratelli eravamo piccoli (ci sono diverse somiglianze nel racconto, insomma), quindi credo che al di là del fatto che abbiamo ancora una donna al centro di un racconto noir (cosa che già di per sè mi avrebbe fatto apprezzare il film), sarò maggiormente coinvolta per il tipo di storia e di personaggi raccontati nello specifico.

    1. E fammi sapere che ne pensi, sperando che la visione del film non rievochi ricordi sgradevoli!

      1. Alla fine l’ho visto e recensito anche io e devo dire che mi è piaciuto molto!

  4. Alberto · ·

    Ma che bellezza di storia. E al di là della modernità della figura femminile, mi è sembrato un film vecchio stampo, tipo un Mike Figgis anni ’80, o il mai abbastanza amato Neil Jordan di Mona Lisa.

    1. Sì, come impostazione della vicenda di sicuro, ci hai preso in pieno.
      Che poi, a loro volta, erano film mutuati dalla struttura del noir anche quelli.

  5. Giuseppe · ·

    C’è sempre l’infausta possibilità che il grande cinema, qualora si accorga di Sarah, non la valorizzi a sufficienza proponendole personaggi stereotipati fin dall’inizio, quando invece in A Good Woman Is Hard to Find lei si cala nello stereotipo soltanto quando ha un senso farlo (e cioè nell’ultima parte del film)… quindi, per non correre rischi, sì, forse è proprio meglio che ce la teniamo noi 😉