The Turning

Regia – Floria Sigismondi (2020)

Ed eccoci a un nuovo episodio di “film dalla produzione travagliata, irrisolti e sfortunati, che piacciono solo a me”. So che proprio non ne potevate fare a meno. Credo di essere l’unica al mondo ad aver apprezzato questo film, pur comprendendone a fondo le mancanze e i difetti, e pur sapendo che non è sufficiente aver avuto dei problemi, anche seri, seppur ancora avvolti nel mistero, durante e dopo le riprese, per giustificare certi scivoloni. The Turning ha un problema a monte, ed è la sceneggiatura a opera dei fratelli Hayes, già autori dei due The Conjuring, e qui davvero svogliati e, pare, incapaci di approfondire le miriadi di spunti di riflessione messi sul piatto dalle premesse del film. Dico pare, perché il copione è stato sottoposto a tante di quelle riscritture, e il film a tanti di quei rifacimenti, che forse non è neanche del tutto colpa loro. Ma men che meno è colpa di Floria Sigismondi, ritrovatasi catapultata nel progetto in fase già molto avanzata e a cui penso sia toccato provare, insieme al cast e a tutta una serie di tecnici coinvolti, a rimettere insieme i cocci di un film nato già rotto.
Forse non sapremo mai cosa è successo davvero; quello che auspico è l’arrivo, prima o poi, di un director’s cut, o almeno di un dettagliato diario della lavorazione. Giusto per avere cognizione del disastro avvenuto prima, durante e dopo le riprese.

Alla base di The Turning c’è un’idea molto interessante, che è poi del tutto in linea con la novella di Henry James di cui il film è un’attualizzazione: la malattia mentale della protagonista non è più soltanto suggerita tra le righe, ma diventa uno snodo fondamentale della vicenda. Si sa che Il Giro di Vite viaggia tutto sull’ambiguità, sul dubbio se i fantasmi ci siano davvero o se sia tutto uno scherzo della mente suggestionata della governante e narratrice. Qualunque sia la vostra interpretazione, tuttavia, la storia non perde un grammo della sua efficacia, perché essa risiede proprio l’impossibilità di una risposta univoca; l’adattamento di Clayton (uno dei dieci film della mia vita) è appena leggermente sbilanciato verso la spiegazione soprannaturale, e doveva esserlo, nelle intenzioni originali della prima sceneggiatura, ancora di più. Fu poi Clayton stesso a voler introdurre il fattore psicologico, e per questo chiese a Truman Capote di riscrivere, in parte, il soggetto.
Questa nuova versione, senza dare per scontato che l’istitutrice Kate (Mackenzie Davis) abbia dei disturbi mentali, spinge lo spettatore a crederlo con più convinzione. L’espediente utilizzato (la madre rinchiusa in un istituto) è trito, e anche questo va inserito nel novero delle magagne di sceneggiatura, ma il concetto in sé non è affatto sbagliato: la persona che arriva nella sinistra magione dispersa in mezzo al nulla per occuparsi della piccola Flora, è danneggiata in partenza, e quindi più predisposta a finire sotto attacco di presunte forze soprannaturali o a credere nella loro esistenza, anche se non ci sono.

C’è poi la questione Miles, che da ragazzino turbolento e, in parecchie occasioni, malevolo, qui diventa il simbolo della mascolinità tossica, in parte perché plagiato dallo stalliere Quint, in parte perché è un marmocchio ricco e viziato, abituato a vivere in condizioni di estremo privilegio, che non trova di meglio da fare se non torturare psicologicamente l’istitutrice della sua sorellina, in un constante sfoggio di crudeltà gratuita e prepotenza. Di rado, nel corso delle mie innumerevoli visioni cinematografiche, sono arrivata a provare tanto fastidio per un personaggio, fastidio che spesso sfociava in odio puro. Credo che l’interpretazione data da Finn Wolfhard di Miles sia tra le cose migliori del film, per come riesce a creare, con pochissimi elementi a disposizione, questo individuo esecrabile. Ma, anche qui, il problema è che tutto resta in superficie, insieme alla mancanza di un reale discorso politico che avrebbe potuto vertere sia su conflitti di genere sia di classe.
Per farla breve, la sceneggiatura svolazza con tanta, troppa leggerezza, su argomenti pesanti, che fanno soltanto intravedere le potenzialità inespresse del film.
E allora perché ne parli e perché hai detto in apertura del post che ti è piaciuto?

Ci sono tre risposte a questa domanda: Floria Sigismondi, David Ungaro e Mackenzie Davis.
Sono dispiaciuta che Sigismondi non abbia diretto altri horror in carriera, e dubito che ne dirigerà altri, dato il triste destino di The Turning: è una regista che sembra conoscere alla perfezione il modo in impostare un’atmosfera inquietante. Considerando che, per gran parte del film si poteva lavorare soltanto sull’atmosfera, è stato fatto un mezzo miracolo nel tirare avanti il carrozzone di una storia così mutilata. Ma non solo, perché The Turning è stranamente molto efficace in un reparto a cui di solito non presto molta attenzione, ovvero quello dei jump scare. Sappiamo tutti che sono, di solito, dei trucchetti dozzinali, il grado zero del linguaggio del cinema horror, ma Sigismondi ha un senso perfetto del timing e, il più delle volte, non li vedi arrivare, ti colgono di sorpresa e lasciano anche uno strascico di inquietudine a lungo termine. Non sto parlando di un film infarcito di salti sulla sedia, ma di momenti di spavento improvviso ben dosati, e anche necessari: per tutta la durata di The Turning l’impressione è quella di assistere a una lotta di un’artista contro la scrittura pigra. Sai che alla fine la sconfitta sarà inevitabile, ma il viaggio non è affatto male.

Inoltre, Sigismondi è bravissima nel tradurre in immagini tutti quegli spunti monchi di cui parlavamo prima, tanto che alcuni raggiungono una loro compiutezza solo grazie a delle preziose intuizioni visive della regia. Come per esempio le mani che afferrano all’improvviso Kate e ricordano più una molestia sessuale che un l’attacco di uno spirito maligno. Perché, venendo dal mondo del videoclip, Sigismondi ragiona per immagini più che per la tipica scansione del racconto e, una volta venuti a patti con le mancanze di cui sopra, ci si gode il festino estetico e non ci si lamenta più di tanto.
In questo, è aiutata tantissimo dalla fotografia di David Ungaro, che usa i colori come se Mario Bava si trovasse ancora tra noi. E in effetti, The Turning possiede i ritmi e gli aspetti positivi e negativi (storia claudicante) del Giallo all’italiana, compresi quel tocco di psichedelia e la tendenza a indulgere in lunghe sequenze oniriche, con gran sfoggio di tecnica e stile.

Poi, sarò strana io, ma potrei anche assistere a due ore di Mackenzie Davis che recita la lista della spesa e sarei contenta lo stesso, soprattutto se fotografata, illuminata e posizionata nell’inquadratura come in questo film, che è una sorta di monumento alle sue capacità recitative. Davis, sottovalutata non si sa perché, è semplicemente una di quelle attrici col dono di nobilitare qualunque film a cui si trovi a partecipare, anche se solo per poche scene. Quando è protagonista assoluta, ogni espressione, ogni movimento, ogni sguardo, sono oro colato. Considerando poi che il suo personaggio è stato scritto con soltanto due caratteristiche, quella di essere buona e quella di essere, forse, non tanto sana di mente, Davis le ha dato sfumature assenti in sede di sceneggiatura, l’ha riempita di piccoli gesti che la caratterizzano e l’ha resa quasi una persona reale.
Io spero davvero che un giorno vedremo una versione più completa di The Turning, perché con questo materiale, averlo buttato via così è un vero peccato.
Ma, nonostante tutto, anche così monco, resta pur sempre un degnissimo modo di passare 94 minuti del vostro tempo. Se non altro, fatelo per Mackenzie. E per Floria.

8 commenti

  1. Blissard · ·

    Ammetto che il film sia girato bene e la regista sia brava nel produrre un’atmosfera perturbante in linea con quella del romanzo di James, ma io invece come percezione personale ho provato molto fastidio. Un po’ perchè la pretesa malattia mentale della protagonista non viene suggerita attraverso eleganti espedienti filmici, ma prendendo per oro colato la banalissima considerazione che, dato che sua madre è mezza pazza, sia pazza pure la figlia, una cosa così triviale da far pensare all’empirismo tossico della psicologia/psichiatria statunitense. Un po’ perchè Miles è sì antipaticissimo, ma non ha un briciolo di fascino, e uno dei punti di forza del romanzo (e della splendida riduzione di Clayton) era proprio nel rapporto di attrtazione/repulsione (anche sessuale) che Kate prova nei suoi confronti. Mackenzie Davis è brava, ma il suo personaggio è privo di sfumature, è più vicino a quello della vittima designata (o final girl) in uno slasher qualsiasi che a quello di protagonista di The Turning of the Screw.
    Per il resto ho constatato, come te, che buona parte degli spunti interessanti vengono lasciati in tredici; le colpe sicuramente non sono della regista, che spero vivamente possa in futuro dimostrare il suo valore.

    1. L’unica cosa che credo sia voluta è l’aver spogliato MIles di fascino, perché un personaggio del genere non può avere fascino o esercitare qualsiasi tipo di attrazione su nessuno. Se lo si dà per scontato, si entra in una di quelle narrazioni alla base tossiche che non dovrebbero più essere fatte alla leggera. Una volta che hai impostato il personaggio di Miles in quel modo, non puoi farlo essere affascinante.

      1. Blissard · ·

        Qua non ti seguo, e mi avventuro in un discorso avulso dallo specifico film. Se la “mascolinità tossica” fosse semplicemente ributtante, come diavolo potrebbe fare a perpetuarsi? Se non fossimo stati indottrinati a subire il (e non avessimo comunque anche un’attrazione innata nei confronti del) fascino dell’uomo un po’ mascalzone, egocentrico ed egoista, volitivo che non si ferma di fronte a niente e disposto a tutto per ottenere qualcosa, il problema della mascolinità tossica non sussisterebbe.
        Relativamente al film, poi, se la scelta di rendere Miles uno stronzone ributtante fosse voluta, non solo risulta irrispettosa nei confronti della complessità del romanzo di James, ma indebolisce l’ambiguità e il vigore della vicenda.

        1. Ma perché, secondo me, il problema della mascolinità tossica è che, per anni, il cinema l’ha resa affascinante. Anzi, l’intero sistema culturale l’ha resa affascinante, e io credo e spero che questo tropo venga abbandonato il prima possibile, per dipingere un certo tipo di uomo non come un punto di riferimento o un modello, ma per il miserabile mollusco che è.

          1. Blissard · ·

            Comprendo perfettamente il tuo discorso, che è nobile nelle fondamenta ma ha il difetto di non tenere molto conto della complessità del reale.
            Vado per libere associazioni. Proviamo una istintiva soddisfazione di fronte al tipo che non si fa mettere i piedi in testa, se mena o architetta macchinazioni per ottenere quello che vuole. Come nei revenge movies, noi proviamo compassione per le vittime indifese ma vorremmo essere amici di quelle che ribattono colpo su colpo. Ecco, e se tra questi si annidassero maschi tossici?
            Cambio esempio: ad alcune piacciono i maschi dolci, premurosi, un po nerd, sognatori , poeti privi di senso pratico e concretezza. Ecco se qualcuno d questi, anche x via di frustrazioni lavorative o d altro tipo, diventasse un maschio tossico x sfogare le sue frustrazioni.
            Personalmente non mi preoccupano gli stronzi conclamati, se una ragazza si mette con loro lo fa consapevolmente, mi preoccupano quelli “normali”, magari anche affascinanti.
            Poi è verissimo che il cinema e la società tendono a premiare gli stronzoni e a magnificarne la stronzaggine, quindi ben vengano quelli che li ridicolizzano e ne mettono in risalto lo squallore, però farlo senza tenere conto della complessità può essere rischioso e inefficace

  2. La Sigismondi ha diretto anche alcuni episodi di parecchie serie tv che ho seguito e che ho anche amato. Quindi sicuramente troverò qualcosa che potrebbe piacermi e interessarmi anche in questo suo film (soprattutto le atmosfere “baviane” che citi nella recensione).

  3. Giuseppe · ·

    Interessante, anche se parecchio travagliato e sfortunato… e, allo stesso tempo, interessante proprio perché parecchio travagliato e sfortunato, visto come ha dato modo a Floria Sigismondi di “tappare” le inevitabili falle con il proprio talento, unito alla fotografia di David “Bava” Ungaro e a Mackenzie Davis, impegnata a creare da sola un personaggio praticamente trascurato -a voler usare un eufemismo- in fase di problematica sceneggiatura. Gli darò una possibilità, sì 😉

    1. Sì, io ti consiglio di farlo, perché nonostante tutto non si merita le critiche feroci che ha ricevuto.