Regia – Bob Clark (1974)
Uno dei primi film ad aver affrontato il problema dei reduci dal Vietnam e del disturbo da stress post traumatico è questo minuscolo horror firmato dal regista canadese Bob Clark, che quello stesso si sarebbe inventato lo slasher con Black Christmas e già aveva lasciato una discreta zampata sul cinema dell’orrore con L’Assedio dei Morti Viventi nel 1972. L’horror canadese, lo sappiamo, ci ha sempre regalato tante gemme preziose, soprattutto negli anni ’70 e grazie a una politica fiscale che permetteva ai finanziatori di pellicole di detrarre anche il 100% del budget dalle tasse, il famoso Tax Shelter che permise, tra le altre cose, a Cronenberg di realizzare il suo Shivers. Ma non solo: grazie al Tax Shelter esistono film come My Bloody Valentine e Prom Night, citando solo due tra i titoli più famosi. Nel decennio ’70-’80 in Canada vennero prodotti più di 300 film di genere, tanto da parlare di canuxploitation. Quando, all’inizio degli anni ’80, ci si rese conto che gran parte dei film girati neanche venivano distribuiti, il Tax Shelter venne accantonato, ma nel frattempo l’industria del B movie canadese era ormai fiorita e gli slasher nazionali facevano concorrenza a quelli statunitensi.
Deathdream (o Dead of Night, titolo con cui uscì nel Regno Unito) fa parte del gruppo di film di serie B nati in virtù del Tax Shelter ed è la miglior trasposizione del racconto La Zampa di Scimmia, senza rivali.
Il film comincia con la morte di un soldato, in quello che è molto probabilmente il Vietnam (anche se non viene mai nominato); dopo aver ricevuto un colpo di fucile in pieno petto, sente la voce di una donna che gli ricorda la promessa di tornare vivo dalla guerra.
Finita questa breve sequenza d’apertura (che doveva essere molto più lunga, ma è venne tagliata), ci ritroviamo nella sala da pranzo di una piccola città americana, con la famiglia riunita a tavola. Dai dialoghi si capisce che manca il figlio maggiore, e che la madre è ossessionata dalla sua assenza. Suonano alla porta e un uomo in divisa consegna al padre una lettera con la comunicazione della morte del ragazzo, Andy.
Ma quella stessa notte, Andy fa ritorno a casa, a sorpresa. La famiglia è certa si tratti di un errore burocratico, di uno scambio di persona e, nella gioia per aver scoperto che il figlio creduto morto è in realtà vivo e vegeto nella sua stanza, c’è però un’ombra, notata solo dal padre: Andy è strano, taciturno, non sembra più lui, come se fosse solo un guscio vuoto che ha le sembianze di Andy, ma non è proprio Andy.
Ora, noi sappiamo che Andy è morto, e sappiamo anche che è tornato, in qualche forma, per mantenere la promessa fatta a sua madre. Lo svolgimento del film si basa tutto sulla nostra consapevolezza che qualcosa di orribile è già accaduto e che da lì in poi, le cose potranno solo peggiorare. Non ha importanza cosa sia Andy, se un morto vivente o un vampiro (queste le due interpretazioni più accreditate); Clark punta tutto sul disfacimento progressivo di una famiglia, sull’impossibilità di gestire la perdita di una persona amata, sugli effetti catastrofici che ha la guerra sia a livello individuale che sociale, sulla metafora del reduce come cadavere ambulante, che mai riuscirà a tornare “normale” dopo ciò che ha vissuto, una serie di esperienze incomunicabili persino a chi dovrebbe stargli più vicino.
La Morte dietro la Porta è uno di quei film a basso budget che contengono un nucleo emotivo così potente da farci dimenticare tutti i loro difetti. Se il suo valore come shocker tipico dell’horror anni ’70 (primo film di Savini come truccatore, che proprio dal Vietnam arrivava) è oggi in parte discutibile, perché superato a destra da tanti altri film simili, resta del tutto intatto il suo senso politico ed è ancora validissima la sua parabola umana. Un esempio fondamentale di quanto può essere potente l’horror quando si esprime in forma allegorica.
Potremmo definire Andy una sorta di zombi senziente (fino a un certo punto) che si nutre del sangue altrui, anzi se lo inietta direttamente in vena, e va in progressiva putrefazione. Non si può dire che sia malvagio, ma è di sicuro diventato un mostro, o meglio, è diventato qualcosa di diverso da ciò che i suoi ricordavano e si aspettavano da lui; famiglia e società ora devono vedersela con questo rifiuto che la guerra gli ha scaricato sull’uscio di casa e, com’è ovvio, l’unico modo che conoscono per gestirlo è sparargli addosso.
Perché, vedete, La Morte dietro la Porta non è soltanto un film che parla del ritorno a casa dei reduci, è anche un film sul conflitto generazionale, sull’eccesso di amore per quanto riguarda la madre di Andy e, all’opposto, sul rimorso di non avere amato abbastanza per quanto riguarda suo padre; un’opera che racconta in maniera perfetta il concetto di disgregazione.
Si disgrega il corpo di Andy, che verso la fine del film ha l’aspetto di uno zombie romeriano; si disgrega la sua famiglia, costretta a una mutazione profonda e a uno stravolgimento dei rapporti di potere interni dopo l’arrivo di Andy; si disgrega un sistema sociale del tutto inadeguato a sostenere il ritorno di questi morti che camminano, segnati senza speranza, e che, come dice Andy in una delle battute più significative del film, sono morti per l’America ed è ora che gli venga data qualcosa in cambio.
È importante sottolineare come La Morte dietro la Porta non sia affatto un film didascalico e che tutta questa massa di significati sia perfettamente integrata nella narrazione, nonché nella struttura da B movie tipica dei film del Tax Shelter.
Perché il film di genere, l’horror in particolare, è sempre stato ricettivo, ha sempre colto in anticipo rispetto agli altri le inquietudini collettive e i terrori che sarebbero destinati a permeare l’intera società. In questo caso, La Morte dietro la Porta arriva a toccare certi temi anni prima che li toccasse il cinema d’autore. Se ci pensate, restando in ambito militaresco, anche J’Accuse, nella sua doppia versione del 1919 e del 1938, è catalogato come un film dell’orrore, a causa della sequenza con l’orda di non morti che ritorna a casa dal fronte. Andy potrebbe benissimo far parte di quell’orda, e funziona da anello di congiunzione con un’altra opera che tratta di soldati zombie, il mediometraggio Homecoming, di Joe Dante.
Ma, a differenza sia dei reduci sfigurati di J’Accuse sia dei morti viventi dotati di coscienza politica e diritto di voto messi in scena da Dante, la vicenda di Andy non porta ad alcuna pacificazione e il finale del film, oltre a essere perfetto nel suo dramma, è un atto d’accusa ferocissimo e di enorme potenza evocativa.
Un tema sempre interessante e inquietante quello dei cari che tornano in vita, non a caso pure King lo ha trattato (seppur non mettendoci la guerra in mezzo). Bello quando l’horror tocca corde così sensibili e argomenti così dolorosi come la disgregazione familiare o la morte di un figlio.
Meno bello è quando i tuoi amici non capiscono una sega di horror e iniziano a generalizzare 😐
Sì, diciamo che KIng un paio di cosette a questo film le deve, anche se Pet Sematary è un capolavoro e, credo, il mio romanzo preferito di King.
Addirittura il tuo preferito? Pensa che, diciamo fino a Dolores Claiborne e tolta l’escursione nel fantasy de Gli occhi del drago, è l’unico che non ho mai letto. Dovrò rimediare.
Sì, IT è quello a cui sono più legata emotivamente, ma se devo pensare in maniera razionale, Pet Sematary rimane la cosa migliore che abbia mai scritto: è un romanzo durissimo, che va dritto al punto, quasi privo della rinomata logorrea kinghiana, è una rasoiata.
Ah, e comunque The Terror mi sta piacendo enormemente.
The Terror è per pochi, ma quei pochi ne sanno 😀
Piccolo grande film poco conosciuto, visto qualche anno fa..la potenza dell’horror anni “70 era ed è uno scavo psicologico forse troppo raffinato per l’epoca,ma assolutamente intatto ai giorni nostri..come sempre ottima recensione, Lucia
Un’ottima prova horror “sociale” e di denuncia del regista Bob Clark con il sodale Alan Ormsby (e nemmeno “L’assedio dei morti viventi” era affatto male, davvero), com’è ottima e condivisibile la tua recensione a riguardo… a proposito del quanto mai azzeccato protagonista Richard Backus, mi par di ricordare -sto andando un po’ a spanne, nel caso stia sparando cazzate correggimi- che Clark rimase colpito in particolare dal “terribile sguardo d’odio” da lui simulato durante un provino, reputandolo così la scelta giusta per il ruolo.
Sì, ricordi benissimo: Clark restò impressionato da quando odio poteva sprigionare lo sguardo di quel ragazzo. E gli piacque molto anche il ghigno rassicurante con cui di solito sorride alla sua famiglia.