Sembra incredibile, oggi, ma c’è stato un tempo in cui Burton era un regista (un grande regista) e Johnny Depp un attore. Il primo è poi diventato sinonimo di leziosità e manierismo kitsch; il secondo, una patetica caricatura di se stesso. Adesso, quando Tim Burton e Depp fanno un film insieme, si scappa urlando, ma vent’anni fa questa collaborazione era una garanzia, voleva dire Cinema, magari ad alto tasso di bizzarria, tendenzialmente grottesco, sempre sopra le righe e con un’identità che non si poteva non riconoscere.
Tra i tanti, ottimi lavori della prima parte della carriera di Tim Burton, quello che ho sempre preferito è anche il suo film meno noto, un tonfo al botteghino, un’opera che ha addirittura rischiato di non vedere mai la luce, perché raccontava una storia dimenticata, che in fondo non interessava a nessuno, la storia di un regista famigerato per i suoi pessimi film realizzati in condizioni miserabili.
Il biopic di Edward D. Wood Jr., il peggior regista della storia del cinema.
Chiariamo subito un punto: a partire dagli anni ’80, Ed Wood e i suoi film sgangherati sono riusciti a ritagliarsi un seguito tra i feticisti della serie Z, a dimostrazione del fatto che la strana gente a cui piace assistere a robaccia non è un’invenzione di questi tristi tempi. Ma questo non significa che ai suddetti feticisti sia mai importato qualcosa del cinema. Tim Burton non fa parte di quella schiera e il suo biopic non è una feroce presa in giro di un incapace, non è girato per attirare un pubblico di sciacalli pronti a farsi delle grasse risate alle spalle di Ed Wood, non vuole ridicolizzarne la figura, insomma. Vuole, al contrario, celebrarla, e non in quanto regista di film di merda, ma in quanto essere umano e cinematografaro. È una distinzione sottile, lo so. Ma è in questa distinzione che sta la grandezza del film.
Il capolavoro di Burton, se proprio ci tenete a sapere come la penso.
Chi era, quindi, esattamente, Ed Wood? La risposta non è così scontata. Di sicuro un uomo senza talento e senza strumenti tecnici indispensabili per il mestiere che così disperatamente desiderava fare. Ma era anche un outsider nella Hollywood anni ’50, un sognatore irriducibile, un reietto che amava circondarsi di altri reietti come lui: falliti di ogni risma, star sul viale del tramonto, omosessuali dichiarati in un momento storico in cui non era solo sconsigliabile essere apertamente gay, ma persino pericoloso, travestiti (lui stesso amava vestirsi da donna ed era ossessionato dall’angora), attori incapaci, collaboratori inetti, produttori improvvisati; una vera e propria corte dei miracoli disposta a seguirlo nelle sue follie. Un personaggio che avrebbe potuto rappresentare l’esempio perfetto del binomio tanto amato del genio e sregolatezza, se solo ci fosse stato in lui del genio. E invece niente, perché a Ed Wood mancavano anche i rudimenti minimi di tecnica cinematografica, non aveva idea di cosa fosse la continuità fotografica, inseriva alla come capitava immagini di repertorio nel montaggio dei suoi film, non sapeva neppure dove piazzare la macchina da presa. Un disastro, su tutti i fronti.
Perché fare un film proprio su di lui?
Perché la sua è una splendida storia di cinema, inteso come esperienza non soltanto lavorativa, ma umana.
Il biopic di Burton su Wood non pretende di essere accurato o verosimile. Lo è unicamente quando deve rimettere in scena i film del peggior regista di sempre in maniera identica a come li girava Wood. In quei casi, c’è un’autenticità che sfiora l’ossessione maniacale, con i set ricostruiti nei dettagli e le sequenze rifatte con precisione filologica. Ma, per il resto, non si tratta di un biopic tradizionale. E come potrebbe esserlo, se si parla di Ed Wood? Ciò che interessa a Burton è raccontare un amore non corrisposto, quello di Wood per il cinema. Un amore che però è stato coltivato e perseguito con fede incrollabile, ottimismo, gioia e ingenuità. Ecco, forse ci siamo arrivati: la purezza del personaggio Ed Wood è ciò che viene fuori più di tutto il resto, il ritratto di un uomo-bambino che giocava col cinema come se si trovasse nel paese dei balocchi e che sul set era felice, anche se faceva spazzatura di serie Z, con la convinzione di essere l’erede di Orson Welles (che appare, in un cammeo, interpretato da Vincent D’Onofrio).
Burton riesce a dare spessore tragico a questa figura che, in mano ad altri, sarebbe stata ridicola. Ci riesce soprattutto quando ne racconta l’amicizia con un Bela Lugosi negli ultimi anni della sua vita, devastato dalla dipendenza da morfina (aveva iniziato a prenderla per calmare i dolori della sciatica), disoccupato e squattrinato. Il rapporto tra Wood e Lugosi, interpretato da Martin Landau (Oscar come miglior attore non protagonista, meritatissimo) rievoca con affetto quello tra Burton e il suo mentore, Vincent Price, scomparso nel 1993, un anno prima che Ed Wood uscisse al cinema.
Ovvio che il personaggio di Lugosi sia molto romanzato ed è ovvio che esistano consistenti dubbi, avanzati dal figlio dell’attore, sullo sfruttamento dell’ex divo da parte di Wood, che lo usava come nome importante in cartellone al fine di ottenere i finanziamenti per i suoi progetti sgangherati. Ma non è importante, perché parliamo di un film, di un film sul cinema poi. Finzione all’ennesima potenza. Quello che conta davvero è la delicatezza con cui Burton descrive il declino di un uomo che è stato un’icona fondamentale della cultura del XX secolo. Lo fa con autentica commozione, evitando (e purtroppo sarebbe accaduto spesso nei suoi film successivi) l’emozione posticcia e la lacrima ricattatoria. Ed Wood è un film, con tutte le sue stranezze, l’umorismo camp e l’atmosfera da freak show tipica del cinema di Burton, molto rigoroso e asciutto, quasi che il regista avesse ben chiara la necessità, per avvicinarsi a una vicenda così border line, di essere il più essenziale possibile.
A partire dalla scelta di usare il bianco e nero, non un semplice vezzo artistico, ma una precisa volontà di essere fedele all’ambientazione e al cinema dell’epoca, Ed Wood si configura come l’esperimento più d’autore di Tim Burton che, ricordiamolo, usciva dal successo del secondo Batman e aveva davvero il potere di fare ciò che preferiva, a Hollywood. E invece, proprio quando il regista comunicò alla produzione di voler girare il film in bianco e nero, il progetto rischiò di naufragare ancora prima di partire. Bisogna ringraziare la Disney, nella sua diramazione Touchstone Pictures, per l’esistenza di Ed Wood. La tanto vituperata Disney che diede carta bianca a Tim Burton, permettendogli di realizzare il film alle sue condizioni, insieme a 18 milioni di dollari mai recuperati. E, a dirla tutta, con quella parata di attori, 18 milioni di dollari non sono neanche questo budget sconsiderato.
Ma non credo che la Touchstone sperasse di guadagnarci più di tanto, con Ed Wood. Non è proprio un film per il grande pubblico. Al contrario, è un’opera che si rivolge, consapevolmente, a una cerchia ristretta di appassionati. Ricordiamolo che non si sa mai: nel 1994 il fenomeno di rivalutazione della spazzatura a uso sghignazzata tra compari non era ancora esploso e sarebbe stato ancora più difficile trovare qualche emulo di Tarantino pronto a farti la disanima cinefila di Plane 9 From Outer Space, per cui Ed Wood lo conoscevano in pochi. Sì, certo, la riscoperta postuma era già avvenuta e alcuni passaggi televisivi a tarda ora dei suoi film horror e sci-fi ne avevano, in qualche modo, vivificato la memoria. Ma era lontanissimo dall’essere un fenomeno di massa. Inoltre, mancava completamente l’atteggiamento nostalgico/ironico tipico del XXI secolo che sarebbe stato lo sfondo perfetto per un film su Ed Wood. Oggi, forse, ne farebbero addirittura una serie tv e chissà che a qualcuno non sia già venuta l’idea.
Ed Wood è quindi un’opera in grande anticipo sui tempi, che va a rivangare la parte più weird e bizzarra del cinema anni ’50, quello realmente sommerso, introvabile. Wood non aveva né la fortuna né tanto meno il talento di gente come Roger Corman o William Castle e si muoveva in territori ancora più oscuri, più marginali. Indipendente per necessità, ma anche per scelta, in quanto le sue visioni, nonostante fossero risibili da un punto di vista artistico, erano comunque personalissime. Ed è in questa contraddizione tra velleità e risultati, tra sogni enormi e infime realizzazioni, che il genio di Tim Burton trova la chiave per portare al cinema il suo più bel ritratto di un perdente. Perché, che si tratti di un blockbuster da centinaia di milioni di dollari o di un filmetto amatoriale con le inquadrature sbilenche, i sentimenti che si provano sul set, durante la realizzazione, e prima, mentre si cercano i fondi, e dopo, quando finalmente il film esce e ci si deve confrontare con il pubblico e la critica, sono condivisi da tutti i registi del mondo, quelli che hanno avuto successo e quelli che sono scomparsi senza lasciare traccia. Ed è anche giusto che ci si ricordi dei secondi: sono esistiti, hanno gridato azione e stop, hanno sofferto e gioito, sono passati attraverso momenti di esaltazione e sconforto e, fino a quando il cinema non li ha stritolati (lo sappiamo quanto è malvagio), hanno continuato a farlo. C’è qualcosa di poetico in questa masnada di cialtroni senza talento, di cui Ed Wood è il simbolo, nella loro parabola umana e professionale e nei loro fallimenti. Come in una piovra di gomma senza motore gettata in una pozzanghera che, davanti agli occhi del bambino regista, diventa un terribile mostro. È la vittoria dell’immaginazione sulla realtà. Tim Burton ci ha fornito l’occasione di vedere i film di Ed Wood come li vedeva lui: dei capolavori. Visto cosa è in grado di fare il cinema?
Il miglior film di Burton, hai ragione, e di un paio di spanne. Se posso dare un consiglio, sarebbero da recuperare anche la biografia di Ed Wood, di Ed Grey, e soprattutto il libro scritto da Wood stesso, “Hollywood, la corsa dei topi”, una specie di vademecum-ritratto della Hollywood dei suoi tempi, che è una vera delizia (era decisamente più bravo a scrivere che a girare film).
La bio di Ed Wood l’ho letta, mi manca il libro scritto da lui, invece. Credo che, se riesco a trovarlo, entrerà a far parte della mia interminabile wishlist natalizia 😀
Mi piacerebbe anche leggere i romanzi pulp che ha scritto nella seconda parte della sua carriera. Chissà se sono disponibili da qualche parte…
Qualcosa su ebay e amazon usa si trova.
L’hai poi trovato La corsa dei topi?
L’ho trovato usato su Amazon!
Questo film mi è piaciuto un sacco. Un ottimo incrocio tra la mia passione per i b-movies e per le biografie (fatte bene). Lo riguardo sempre volentierissimo!
Sì, andrebbe rivisto almeno una volta l’anno 🙂
Cosa che prontamente faccio da tre anni, da quando l’ho scoperto e mi sono appassionato ai cari vecchi b-movies degli anni passati…;)
Il momento con Orson Welles è straordinario (sì, sono un fan di Welles).
E guardacaso proprio due giorni or sono discutevo con un amico, parlando di “Robot Monster”, del fatto che “così brutto che è bello” è una cosa che mi urta: “Robot Monster” (e un sacco di roba di Wood, di One Shot Beaudine e così via) sono semplicemente così brutti che sono brutti.
Sì, la faccenda del brutto talmente brutto da diventare bello è, anche secondo me, una sonora stronzata.
I film di Wood erano brutti. Li si può guardare per farsi quattro risate ma rimangono brutti. E il film di Burton non ha alcuna intenzione di affermare il contrario. E infatti non ha avuto successo.
Probabilmente chi è convinto della suddetta formula non riesce a cogliere davvero l’ironia insita in quel “so bad it’s good”, perché se in tutti questi casi di bello puoi soltanto farti delle più o meno grasse risate, appunto, questo serve solo a “esorcizzarne” la bruttezza, non certo a caricarla di valori e significati che non ha. Così era per Wood e colleghi… E infatti Burton, con tutto l’affetto che prova per l’uomo-bambino Wood e le sue vicissitudini, saggiamente e coerentemente ce lo mostra così come l’hai bene tratteggiato nel post, senza presentarlo come un autentico “artista incompreso” nemmeno per un solo secondo di pellicola (com’è giusto che fosse). Una sottovalutata pellicola con due grandi Depp/Wood e Landau/Lugosi al servizio di un ancora altrettanto grande -ai tempi- Tim Burton…
Dispiace che poi Burton si sia ridotto com’è ridotto adesso. È stato, forse, uno dei più grandi registi di cinema fantastico della sua generazione, soprattutto per un approccio al tema totalmente personale, unico e anche innovativo, per l’epoca.
Poi, il nulla.
Sì… perché, alla fine, le uniche sue cose che considero ancora davvero decenti degli ultimi quindici come “La sposa cadavere” e “Frankenweenie” (Big Fish era già il canto del cigno) non fanno altro che rifarsi a quell’epoca davvero ispirata. Ma di passi avanti non ne sono mai più stati fatti 😦
P.S. Penso di essere rimasto uno dei pochi a non prendermela con Burton per il suo “Planet of the Apes”: un non così disprezzabile film su commissione, né più né meno, da trattare come caso a parte e in quanto tale non indicativo del suo imminente declino…
Mi è sempre piaciuto molto, tra l’altro: credo si possa inserire nello stesso filone di Demoni e Dei, ossia un omaggio a un cinema di genere sparito, per far posto negli anni al Gore, all’Horror più visivo che psicologico?
Sì, il periodo dell’horror di gomma e cartapesta e degli incubi in bianco e nero. Tanta nostalgia.