L’esperimento di accorpare più film in un unico post, tentato alla fine di agosto, pare esservi piaciuto e quindi, dopo aver accumulato una discreta mole di film con qualche merito ma che, secondo la sottoscritta, non necessitano di un’analisi troppo approfondita, eccomi di nuovo qui a farvi il consuntivo. Siamo anche agli sgoccioli del 2016 e, se non è stata un’annata coi botti come il 2015, non ci possiamo certo lamentare. Mi sembra inoltre che un paio di opere uscite in sala abbiano contribuito a diminuire il divario tra cinema indipendente e mainstream e che, anzi, il cinema più indie stia anche uscendone non troppo bene, nel confronto. Ma sono impressioni. Ne parleremo in maniera dettagliata a dicembre, quando toccherà stilare le rituali classifiche. Per ora, andiamo a consigliarvi, in breve, una manciata di buoni film.
Cominciamo con Carnage Park, a firma di Mickey Keating, un regista molto apprezzato, ma che non mi ha mai convinto del tutto. Devo ancora vedere Darlig e dicono sia quello il suo film migliore. Nel mentre, né Ritual né POD mi avevano entusiasmato più di tanto. Carnage Park è il suo quinto film ed è un omaggio smaccato ai survival anni ’70: durante una rapina, in un paesuncolo da qualche parte in California, una donna viene presa in ostaggio. L’auto dei ladri, con lei a bordo, finisce nel terreno di uno psicopatico cecchino, reduce del Vietnam e inizia la mattanza.
Carnage Park è un filmetto rapido e indolore, che si lascia guardare e intrattiene per la sua breve durata, merito soprattutto di un cast molto in palla, composto da facce note a chi frequenta il genere: Ashley Bell, Pat Healy e il solito, onnipresente, Fessenden. È il film di Keating meno malato di fighettismo indie e non ha grosse pretese, se non quella di filare via in poco tempo e regalare un paio di sequenze violente e un bel duello di nervi tra la protagonista e l’assassino.
E, a proposito di fighettismo indie, The Blackcoat’s Daughter, opera prima di Oz Perkins (figlio di Anthony), ne è affetto in maniera piuttosto grave, quasi incurabile. Eppure ha un fascino tutto particolare, derivato da un ritmo ipnotico che tende all’immobilismo, eppure non annoia. Al contrario, cattura per come porta avanti due storie parallele (più una terza che fa da ponte) e non ha alcuna intenzione di fornirci una spiegazione logica che sia una sul modo in cui sono collegate tra loro. In teoria, parlerebbe di possessione demoniaca. In pratica, racconta il nulla, ma è pur sempre un nulla molto bello da vedere e, proprio a causa della confusione e dell’incertezza volute in cui getta lo spettatore, riesce anche, in qualche circostanza, a spaventare di brutto, ricorrendo a un commento sonoro molto interessante e una fotografia che gioca molto bene non solo con la neve (February era il titolo originale, purtroppo modificato per ragioni imperscrutabili), ma soprattutto con gli interni dai colori smorti, scarsamente illuminati. Un trittico di ottime attrici (Emma Roberts, Lucy Boynton, Kiernan Shipka) fa il resto. Certo, dovete sapere a cosa andate incontro, semmai decideste di vederlo. Dovete abbandonare ogni pretesa di una trama coerente e lasciarvi irretire dalle immagini. Ogni tanto si può e si deve fare.
Dopo aver scritto e diretto il dittico torture porn dedicato a The Collector, Marcus Dunstan e Patrick Melton tornano a collaborare, rispettivamente nel ruolo di regista e sceneggiatore, per un nuovo progetto. Dai film precedenti si portano dietro Josh Stewart e prendono come co-protagonista quello splendore di Alex Essoe, seria candidata al titolo di scream queen del futuro, dopo l’exploit di Starry Eyes.
Rispetto alla truculenza degli esordi, il dynamic duo pare essersi un po’ calmato. Solo un po’, perché comunque lo schema non è poi così invariato: c’è sempre una trappola da cui i personaggi devono fuggire, solo che, in questo caso, ci hanno messo anche quel minimo sindacale di storia.
Vicini di casa che nascondono pessimi segreti; una coppia il cui unico desiderio è andarsene dalla squallida e depressa provincia dove è costretta a vivere, perché lui fa il corriere per lo zio boss della malavita locale; un cannocchiale usato per vincere la noia a ficcanasare in giro che porta, inevitabilmente, a vedere qualcosa che era meglio non vedere; l’ingresso nell’altro dei mostri, non i soliti sadici assassini, ma comunque bifolchi della peggior specie. Gli ingredienti, come vedete, non hanno nulla di nuovo o speciale. Ma Dunstan e Melton li mescolano molto bene e se ne escono con un film che ha molto del noir ultraviolento e del western metropolitano e strizza l’occhio a Hitchcock. Memorabile una scazzottata in una fossa piena di resti di animali morti, tra liquami e schifezze di ogni tipo. The Neighbor è una spacconata, ma è una spacconata divertente. Vola via che è un piacere, tra botte e fucilate in faccia. Tanta azione, tanto sangue, messa in scena semplice ed efficace. Insomma, funziona su tutti i livelli.
Chiudiamo con il migliore del mucchio, l’unico film che forse avrebbe meritato una recensione tutta sua. Dal regista di Isolation, Billy O’Brien, arriva dopo dieci anni I Am Not a Serial Killer, una curiosa storia di formazione, con il bonus dato dalla presenza di un mostro e con il protagonista, un adolescente la cui famiglia gestisce un’impresa di onoranze funebri, che cerca in tutti i modi di reprimere i suoi istinti omicidi. John è infatti un potenziale serial killer, tenuto sotto controllo da sua madre e dal suo psichiatra, alle prese con la scoperta che, nella sua cittadina, si aggira una creatura non di questo mondo, famelica e spietata. Il ragazzo comincia a dar la caccia a questo essere e, allo stesso tempo, ad avere difficoltà sempre maggiori a controllarsi, quasi l’incontro con il mostro fosse il fattore scatenante della sua psicosi. I comportamenti, la forma, il processo di nutrimento del mostro e la sua identità sono tutti da scoprire.
I Am Not a Serial Killer è un film dai toni macabri e fiabeschi, narrato come una commedia nera e con un’anima di orrore puro, quello cosmico, quello che ci lascia intravedere minuscoli squarci di un altrove minaccioso e sconfinato. Ma è anche una storia d’amore, una volta tanto non adolescenziale, incentrata su due personaggi parecchio avanti con gli anni, e il racconto di un processo di crescita in cui è facile rivedersi, sebbene non sia propriamente convenzionale.
E poi c’è Christopher LLoyd, a cui O’Brien ha dato un ruolo magnifico e desueto. E questo dovrebbe già essere sufficiente perché voi vi precipitiate a vederlo. Se non dovesse bastarvi, aggiungo uno sfruttamento da manuale della luce naturale e una capacità rara di fotografare, con pochissimi dettagli, l’angoscia e lo squallore della vita quotidiana in una piccola città.
È un horror atipico, I Am Not a Serial Killer, sfugge agli schemi classici del genere e prende una direzione tutta sua. È tutto fuorché un film memorabile o perfetto, eppure si ritaglierà un posticino nel vostro cuore di pietra e vi scoprirete a ripensarci anche a tanti giorni di distanza dalla visione. Vi tornerà alla mente un dettaglio, un totale della strada principale del paese, il fotogramma di un tramonto sui casermoni, l’interno della sala di imbalsamazione, e vi verrà da sorridere, perché è uno di quei minuscoli film da iniziati che ti fanno sentire parte di una setta esclusiva. Una chicca, insomma. Da spacciare solo a pochi.
Su Netflix ho appena guardato Sono la bella creatura che vive in quella casa, sempre di Perkins. La protagonista è la Ruth Wilson di The Affair e nel ristrettissimo cast appare Paula Prentiss che nonostante l’età ha un suo perchè…. Il film è lentissimo e ipnotico. Un horror che apparentemente annoia, ma poi ti entra dentro. Angoli bui che evocano fantasmi da incubo come era dal tempo de Gli Invasati di Wise del 1963 che non vedevo. Evocativo e disturbante.
Eh sì, devo vederlo. In questo periodo ho pochissimo tempo, ma di sicuro è il prossimo in lista!
bellissimo questo accorpamento di recensioni, é un format che mi piace proprio 🙂
di oz perkins dovresti provare a vedere (se non l’hai già fatto) “i am the pretty thing that lives in the house”, uscito su netflix in occasione di halloween. l’atmosfera mi ha ricordato i romanzi di shirley jackson, e nonostante un ritmo davvero lento (particolarità che a quanto leggo é presente anche nel suo film d’esordio) non mi ha mai annoiata 🙂
a parte “carnage park” non ho visto gli altri titoli, per cui (come al solito) segno tutto! 😉
Anche a me non è dispiaciuto I am the pretty thing that lives in the house. Di fighettismo ne è affetto, ma l’ho visto come se stessi leggendo una poesia d’immagine. L’ho trovato molto triste e doloroso.
Lucy, non ne ho visto manco uno! 😀 Vediamo se il dio dei sottotitoli guarda in giù.
Amica, del film di Perkins sono certa al 90% che i subbi ci siano! Dagli un’occhiata che c’è la nostra Emma!
Sì, il secondo film di Perkins mi guarda da Netflix da settimane e ancora non mi sono decisa a vederlo. Rimedierò il prima possibile 🙂
Tra tutti, ad essere sincera, mi ispira solo I am not a serial killer, di cui avevo già letto qualcosa in giro. Anche perché di fighettismo e violenza più o meno tutta uguale ne ho un po’ le balle piene. E poi mi nomini LLoyd, insomma!! 😀
Infatti è il più bello dei quattro. Prova a recuperarlo, ti prometto che non te ne pentirai!
Metti almeno i titoli dei film in neretto! Non per catturare l’attenzione, o per superflua gestione della pagina, ma perchè leggo le recensioni solo dopo aver visto i film e così come hai scritto non trovo cosa stai consigliando!
(sorriso)
Scusa 😀
Non ci avevo pensato. La prossima volta ti prometto che lo farò.
Quando il cinema indie riuscirà a non cedere più del tutto alla tentazione di considerare il fighettismo alla stregua di necessario valore aggiunto alla proprie opere, quello allora sarà un gran giorno… a riguardo del suddetto valore aggiunto (che tale non è mai stato, ovviamente) diciamo che al massimo, in qualche caso isolato -come qui può ben essere The Blackcoat’s Daughter, trattandosi dell’esordio effettivo del figlio del grande Anthony- io riesco pure a chiudere volentieri un occhio, ecco. Fortuna, comunque, che gli altri titoli riescano egregiamente a farne a meno (o quasi, con Keating, e la cosa non era proprio scontata)…
L’ultimo film da te citato mi ha colpito parecchio. Mi affascina la sua storia e il modo in cui è raccontata. Questa è sicuramente una pellicola che recupererò.
Chi avrà curato il sonoro di carnage park? Uno stridere dopo l’altro lungo tutto il film, pure nelle scene di frammezzo!
I film di Keating sono tutti così. Hanno un suono molto particolare. Forse è anche per questo che non mi hanno mai entusiasmato.