Regia – Jeremy Saulnier (2015)
Con il punk non ho mai avuto un buon rapporto, però ho un’idea molto precisa di cosa significhi girare su un furgone, suonare nelle bettole e persino avere a che fare con un pubblico politicamente ostile e temere per la propria incolumità per questo. Poi a me ha sempre detto bene e sono stata particolarmente fortunata. Ma ciò non toglie che la prima mezz’ora di Green Room mi abbia riportato indietro nel tempo e mi abbia fatto subito entrare in sintonia con i The Ain’t Rights, la band protagonista del film, un gruppo in tour nell’Oregon che si ritrova a esibirsi in un locale frequentato da nazisti bifolchi e che, dopo aver trovato il cadavere di una ragazza con un coltello piantato in testa nel loro camerino (la green room del titolo), diventa carne da macello per i suddetti nazisti e i loro pitbull.
Green Room è uno degli ultimi film interpretati da Anton Yelchin, scomparso poche settimane fa a soli 26 anni. Yelchin era una presenza fissa in ambito horror, un volto a cui ero affezionata sul serio, uno di quegli attori che, da solo, mi faceva venire voglia di guardare un film. Ho sempre apprezzato le sue scelte professionali. Uno che, con quei lineamenti, poteva diventare un idolo delle ragazzine e invece ha preferito dedicarsi a progetti ai margini, lavorare con Joe Dante, diventare Odd Thomas e, per Green Room, collaborare con uno dei nomi più promettenti del cinema indie contemporaneo, quel Saulnier che, nel 2013, aveva rivitalizzato il revenge movie, mostrandocelo da una prospettiva fallimentare e malinconica con Blue Ruin.
Ma tutto il cast del film è importante: abbiamo Imogen Poots in un ruolo che difficilmente si dimentica; Alia Shawkat, reduce da The Final Girls, che qui interpreta la chitarrista del gruppo; il protagonista di Blue Ruin, Macon Blair, alle prese con il personaggio più ambiguo del film, e soprattutto Patrick Stewart, il capo dei neo-nazisti, particolarmente a suo agio nel dare vita a un cattivo misuratissimo, quasi un ragioniere della violenza.
Ho apprezzato molto proprio questa misura nel caratterizzare non solo il loro capo, ma tutto il gruppo di nazi che tiene prigionieri i ragazzi della band: non si spinge tanto sull’ideologia, quanto sulla meccanicità degli atti di violenza, vissuti come se fossero del tutto normali, privi di implicazioni, connaturati all’essenza stessa dei personaggi. Persino la classica iconografia nazista viene messa in secondo piano, pare quasi un complemento d’arredo nel locale fatiscente dove i nostri si esibiscono e poi finiscono a lottare per la propria vita. Niente svastiche in primo piano, niente pacchianate evidenti. È tutto sotto tono, smorzato, lasciato intendere e non gridato. Per questo funziona, per questo i nazi capitanati da Stewart sembrano davvero minacciosi e davvero mettono paura.
L’eliminazione dei musicisti è un lavoro come un altro che va portato a termine. Non c’è accanimento sadico, ma si cerca di ottimizzare i tempi e di sbrigarsi a ripulire tutto. In questo, Green Room spicca come l’esatto contrario del torture porn, genere in cui capita ancora a storie del genere di sconfinare. Al contrario la violenza, che pure è presente in dosi massicce, viene inflitta con brutalità repentina: che si tratti di far sbranare qualcuno dai cani, di spezzare braccia, di sventrare con un taglierino o di far saltare teste a fucilate, tutto avviene rapidamente. Green Room è un film fulmineo, con un ritmo forsennato e dove si preferisce far salire la tensione piuttosto che indulgere sul dettaglio gore fine a se stesso. Blue Ruin era di sicuro più riflessivo, anche più profondo, se vogliamo. Qui per la riflessione non c’è molto spazio e si punta tutto sull’esplosività del massacro tra un momento di attesa e l’altro.
Il regista sa benissimo di non star raccontando niente di nuovo: la struttura del film è classica, basata sullo schema delle vittime che, per sopravvivere, devono dar fondo alle loro risorse e trasformarsi in carnefici anche più spietati dei loro persecutori. Per questo punta tutto sull’esecuzione che, rispetto ad altri film analoghi, è abbastanza sorprendente, proprio perché improntata a un certo realismo di fondo, e con l’obiettivo (centrato) di sfuggire a ogni eccesso. Lotta per la sopravvivenza nuda e cruda, quindi, personaggi che si comportano in maniera naturale e coerente con il loro substrato culturale e con le loro capacità. Maldestri, spaventati, ma non arrendevoli i ragazzi del gruppo, spietati e feroci, ma sostanzialmente indifferenti i nazisti.
Nel momento in cui si sceglie la strada del racconto scarno e diretto, il dolore dei protagonisti, la loro paura, la loro condizione di impotenza devono essere reali e lo spettatore deve sentirli sulla propria pelle. Green Room ti fa soffrire per un’ora e mezza, anche se sceglie di non approfondire più di tanto i personaggi, riesce a instaurare sin dalle prime inquadrature un rapporto di simpatia tra loro e il pubblico. La sceneggiatura e, in particolare, i dialoghi sono molto efficaci; le battute migliori spettano di sicuro a Imogen Poots, ma ogni membro della band (e gran parte dei loro aguzzini) è riconoscibile dal modo di parlare, dall’atteggiamento, da come reagisce a tutta quella violenza che gli piomba addosso. Non sono stereotipi, non sono cliché ambulanti. Per questo fa così male vederli soccombere.
La regia di Saulnier non è quello che ci si potrebbe aspettare da un regista tanto osannato in ambito indie: nessun abuso di macchina a mano, niente colori smorti da mumblegore. La macchina da presa è ferma e stabile anche nelle scene d’azione. Forse c’è qualche taglietto di troppo che causa un briciolo di confusione nei momenti più concitati, come durante il primo tentativo di fuga dalla green room, ma davvero roba di poco conto. Green Room è un film curatissimo, nella sua semplicità. Coerente, solido, un vero e proprio schiacciasassi. Ed è anche una miscela inedita di horror-thriller e musica, che forse vi racconterà qualcosa che non sapete sulla vita delle band che vanno in tour.
Molto bello Blue Ruin,sopratutto il dialogo con il vecchio compagno si scuola”stai per fare qualcosa di orribile”ma non lo ferma anzi gli da pure le armi,Imogen Poots me l’ha ricordo in 28 settimane dopo.
Io me la ricordo in Centurion ❤
Ecco, questo è un film che voglio assolutamente vedere! Il cattivo rapporto con il punk da dove nasce, se posso sapere?
Non è un genere di musica che amo. A parte qualche eccezione. Lo trovo vagamente ripetitivo e dai valori tecnici e di esecuzione molto bassi. Ma è un problema tutto mio. Proprio non andiamo d’accordo, non ci capiamo e non ci prendiamo 😀
C’è un modo per farti cambiare idea? XD
Eh no, non dopo tutta una vita passata ad ascoltare jazz e metal 😀
E’ vero, il tema non è nuovo, ma Saulnier ha scelto un buon modo -e buoni personaggi/interpreti- per raccontarlo… per non parlare del fatto che ti ha dedicato la prima mezz’ora di film (O.K., al netto del punk) 😉
Un mio piccolo pensiero trek dedicato a Stewart e Yelchin… Jean-Luc Picard e Pavel Chekov. Hanno viaggiato entrambi sulle loro U.S.S. Enterprise: purtroppo, il giovane ufficiale non è sopravvissuto al vecchio capitano 😦
Ci sono davvero rimasta malissimo, per la morte di Yelchin. A 26 anni poi… con un incidente orribile 😦
[…] personale argomenti e generi già ampiamente affrontati nel cinema. Lo farà anche nel 2015 con Green Room di cui parla (bene) Lucia nel suo […]