Bone Tomahawk

bone-tomahawkRegia – S. Craig Zahler (2015)

Ho sempre pensato che il western e l’horror fossero generi, se non del tutto affini, contigui. Non tutto l’horror, per carità, ma un filone particolare (e molto fortunato) del cinema dell’orrore, il survival, quello che nasce alla fine dei ’60, per volontà precisa di alcuni registi e sceneggiatori, di tramutare l’american dream un un american nightmare (titolo di uno splendido documentario che tutti dovreste vedere). Molto spesso, quei film facevano proprio il verso al western e al concetto stesso di frontiera. Non c’erano pionieri, ma ragazzi in cerca di divertimento o famiglie in vacanza per riscoprire gli aspetti selvaggi e lontani dal caos cittadino del proprio paese.
E tuttavia, l’incontro con le popolazioni locali finiva quasi sempre in strage.
Stranamente, John Carpenter, il regista che si è ispirato direttamente al western nel 90% dei suoi film, non ha mai girato un survival. Non è mai stato nelle sue corde, quel tipo di cinema, sporco, livido, in un certo senso amatoriale.
Mentre guardavo Bone Tomahawk, dapprima stordita dalla sua eleganza e poi tramortita dalla sua brutalità, ho pensato che il buon John potrebbe gradirla, una cosa del genere. Non è un film carpenteriano in senso stretto, sebbene la presenza di Kurt Russel faccia subito pensare a Carpenter. Ma è uno dei pochissimi western a rendere molto fluida la contaminazione con l’horror senza scivolare mai in territori weird. O ironici. O, peggio mi sento, postmoderni.
Un western classico che, all’improvviso, cambia faccia e diventa un survival horror altrettanto classico.

BoneTomahawk_Still14

Bone Tomahawk si apre con due ladri e tagliagole che hanno il volto di Sid Haig e David Arquette. Anzi, si apre con il dettaglio di una gola lacerata, che suona quasi come un avvertimento su quanto diventerà crudele ed esplicito il film. È come se l’esordiente (sì, questo gran pezzo di cinema è un’opera prima) Zahler volesse dirci che siamo ancora in tempo a scappare, perché in seguito le cose peggioreranno.
Ma noi, ignari, non lo ascoltiamo e seguiamo i due delinquenti nella loro fuga e successiva profanazione di un luogo sacro, che porterà a conseguenze molto spiacevoli.
Sid Haig ci saluta subito con una freccia piantata nel collo, mentre Arquette fugge con la refurtiva e la va a nascondere a Bright Hope, il villaggio dello sceriffo Hunt, il nostro Kurt Russel.
Che non è mai una mossa felice, quella di andare a rompere le scatole a Kurt Russel. Il ladro viene arrestato e portato in cella con un proiettile nella gamba.
A curarlo ci pensa il medico del villaggio, la signora O’Dwyer (Lili Simmons), moglie di un cowboy invalido per un infortunio alla tibia. L’operazione va per le lunghe e bisogna passare la notte nell’ufficio dello sceriffo, in compagnia del vice.
La mattina dopo, però, ladro, vice e medico sono spariti. Rapiti.
Parte l’ovvia missione di salvataggio e recupero, guidata dallo sceriffo e composta dal suo anziano vice di riserva, dal marito zoppo del dottore e da un gentiluomo che nella sua vita ha ammazzato più indiani di chiunque altro.
Peccato che i rapitori non siano semplici indiani e che persino la guida si rifiuti di prendere parte alla missione, perché significa morte certa.

BT_100714_RAW-5456.CR2

Gran parte di Bone Tomahawk si svolge in viaggio. Il viaggio di quattro uomini decisi, ognuno per i suoi personali motivi, a rischiare la vita per salvare due persone. E se il signor O’Dwyer lo fa per amore e l'”armed gentleman” interpretato da Matthew Fox (che sta azzeccando un ruolo pazzesco dietro l’altro) per vendetta e rivalsa, lo sceriffo e il suo vice di riserva, sono animati da una spinta etica così forte, sentita e genuina che fa di loro i veri eroi del film. Un eroismo dimesso ed eroso dall’età e dagli acciacchi, ma comunque tale.
Soprattutto il personaggio di Chicory, il vecchio “backup deputy” gode di un livello di scrittura sopraffino, aderente sì agli archetipi del western, ma capace di vivere di vita propria.
E comunque a prestargli la faccia c’è un gigante come Richard Jenkins  e i dialoghi più belli del film sono affidati a lui.
Ascoltatelo mentre parla con Hunt di come si possa leggere un libro nella vasca da bagno, o mentre (chiuso in gabbia) disquisisce su un circo delle pulci. Vi innamorerete di lui.

Può anche sembrare lenta, questa prima parte on the road, perché di azione ce n’è pochissima e il racconto è interamente focalizzato sugli uomini del gruppo. Neanche il paesaggio, per quanto fondamentale, riesce a distogliere l’attenzione dai volti dei quattro personaggi, ognuno dei quali è simbolo senza diventare stereotipo. E non è affatto semplice, quando si fa un western, realizzare questo gioco di prestigio. Come non è facile scavare così a fondo in caratteri tipici, definiti da poche battute, ma terribilmente significative, e dai gesti, che ci dicono tutto del loro modo di intendere concetti universali come coraggio, onore, vendetta.
Come sottolineano sia la recensione di Kentucky Mon Amour (e se vi piace il western, leggete questo blog), che quella di Dikotomiko, il sistema di valori che il film presenta è vecchio, quasi conservatore nella sua purezza adamantina. Bone Tomahawk non ha nulla di moderno, a parte la regia, forse. Eppure, anche quella, con la sua apparente staticità, non ricerca alcuna frenesia, è meditativa, ci aiuta ad assorbire e a vivere l’odissea di questi quatto personaggi in un ambiente che diventa sempre più ostile.
Fino alla deflagrazione di violenza degli ultimi venti minuti.

bone-tomahawk_article_story_large

Perché il cambio repentino (ma assolutamente non forzato) di registro e di tono è di quelli che lasciano interdetti. Si tratta di una svolta traumatica: una volta entrati nell’antro della tribù cannibale, Zahler ci mostra, a tutto campo, un’uccisione così efferata che tormenterà i vostri sogni per gli anni a venire.
Ed entriamo nei territori cari al Craven degli esordi e all’Hooper di quella bomba atomica sganciata sul cinema che fu Non Aprite quella Porta.
I selvaggi, privati di ogni connotazione che li renda, anche solo in parte, umani, sono, come la famiglia de Le Colline Hanno gli Occhi, lì per ricordare quanto la civilizzazione sia fragile, quanto i valori propugnati dai protagonisti siano un qualcosa che può essere abbattuto con una facilità impressionante.
E, in fondo, ogni survival horror che si rispetti ci narra della nostra fragilità sociale e del fatto che, a pochi chilometri dai luoghi in cui riponiamo la nostra serenità, possono nascondersi delle aberrazioni che vivono secondo un sistema a noi del tutti alieno.
Su questo concetto, l’horror ha costruito gran parte della sua fortuna, a ogni latitudine. E se è corretto il paragone con i nostrani cannibal movies, io in un film come Bone Tomahawk, più che Deodato e i suoi cannibali di terre lontane, ci vedo un prodotto dalla mentalità profondamente americana, che solo lì poteva essere realizzato. Un ennesimo tassello di un mosaico dove la minaccia peggiore si nasconde sempre dietro l’angolo. E può venirti a prendere di notte, portarti via e trattarti alla stregua di un quarto di bue da macellare, con la stessa indifferenza che riserviamo noi a una bistecca, insomma.
È il terrore generato da ciò che, in fondo, ci è più prossimo di quanto potremmo mai sospettare.
Ma che comunque deve essere sconfitto, per riaffermare quei valori che il film ha portato avanti con coerenza nel corso di tutta la prima parte e che restano validi, anche e soprattutto se si è circondati da mostri.

20 commenti

  1. Lo voglio vedere. Stasera.

    1. Devi vederlo, fratellone!

      1. Segnato con palline e stelline!

  2. Uno dei migliori film del 2015, per me.
    Una roba adulta, secca, ignorante, senza fretta. Ha cancellato in tre minuti il ricordo di The Green Inferno, e pure lì si moriva abbastanza male.
    Ho notato che, in tantissime recensioni, questo film viene presentato come l’opera prima di Craig S. Zahler; in realtá si tratta del suo secondo lungometraggio e giá il buongiorno si vedeva dal mattino nel primo, “The Incident” (anche noto come Asylum Blackout), dove c’era una scena da incubo con un pelapatate. Credo sia proprio l’approccio alla violenza di Zahler ad essere disturbante.
    Comunque bomba di film, ho adorato anche quella bizzarra canzone sui titoli di coda, “Four doomed men ride out”

    1. Sì, ma The Incident lo ha scritto, non diretto…
      Il regista di The Incident è un francese, mi pare.
      La canzone, è vero, è molto bella e strana.
      Composta da Zahler stesso, mi sembra

      1. Ops, errore mio! È vero, Zahler l’ha solo scritto…
        Questo significa che c’è un nuovo regista da tenere d’occhio 🙂

        Ciao e complimenti per il blog, la selezione dei film recensiti mi piace moltissimo

  3. Di horror contaminati dal western ricordo solo il terzo Ginger Snaps,l’insaziabile e anche nel bellissimo videogioco Red Dead Redemption si aveva ache fare con gente con il cervello fritto dal sole,cannibali e finti rivoluzionari.

    1. Anche Vampires di Carpenter potrebbe essere un western…

      1. Si hai ragione ,Carpenter amava i western di Howard Hawks,quindi anche Distretto 13 .

      2. Anche Ghosts from Mars è, a tutti gli effetti, un western – forse il più western, dei film di Carpenter.

  4. bel film, non ne sapevo niente della contaminazione horror prima di vederlo, la parte finale per me è statta un sopresa!

  5. In realtà il western-horror e il weird western hanno una tradizione lunghissima.
    In campo letterario, si reperiscono a cifre risibili delle ottime collezioni di western incrociati col macabro e l’orrifico risalenti agli anni ’20 (vedi Megapack vari della Wildside Press). E si arriva fino ad oggi con delle antologie spettacolari e degli ottimi romanzi – sebbene il grande pubblico piaia convinto che il weird western l’abbia inventato Joe Lansdale.
    E anche cinematograficamente c’è un bel campionario di pellicole spesso dimenticate – varrebbe la pena di farci una rassegna (così, buttiamola lì 😉 )
    Bone Tomahawk qui dove sto io non arriverà mai – ma troverò un modo per vederlo, prima o poi.

  6. La distribuzione da noi non è minimamente prevista, vero?

  7. Io spero davvero che qualcuno lo porti nelle sale italiane

  8. Giuseppe · ·

    Un cast e una storia di tutto rispetto, direi! Mi ricorda sotto certi aspetti -e al netto della diversa natura della minaccia- un western horror di qualche annetto fa, The Burrowers…

  9. Molto, molto bello. Ho adorato i tempi nulli e i mille dialoghi fatti di ironia ignorante e sbruffona. Lo pensavo più corposo e forte, e invece è un film secco e spartano, ci sono solo i personaggi, nient’altro, persino gli scenari sono sempre vuoti (anche la città). Parte finale terremotante.

  10. Grazie , mi mancava 🙂

  11. hai notato come l’espediente del “drogare il selvaggio” per tentare la fuga faccia copia carbone con l’analoga scena di green inferno?
    comunque grandissimo film, col cast dei sogni (sogni tormentati da lili simmons), e una profondità di scrittura sbalorditiva. sono commosso.

  12. Blissard · ·

    L’ho visto ed effettivamente mi è sembrato un filmone (la mia recensione è sulla pagina di RYM, https://rateyourmusic.com/film/bone_tomahawk/).
    A mente fredda non si può far finta di non vedere che sia un film profondamente di destra, con la tribù di cannibali a rappresentare la barabarie dell’isis (del resto anche lo strumento da loro utilizzato per uccidere, che dà pure il titolo al film, somiglia all’arma preferita di Jihadi John e affini), ma per qualche oscura ragione c’è una (in senso lato) nobiltà – nei buoni e nei cattivi – che si fatica a trovare nel mondo contemporaneo.
    Ovvio che è difficile cercare di incasellare la moralità del west ottocentesco all’interno di categorie interpretative odierne.
    Grazie per la segnalazione, anche secondo me uno dei migliori film dell’anno.

  13. Alberto · ·

    Splendido, malgrado l’abnorme lentezza. Bellissimi i personaggi, i dialoghi, il fascino laconico e polveroso del tutto. Come sempre, grazie del consiglio, anche se arrivo tardi.