Questo mese abbiamo “solo” tre film di cui (s)parlare. Non perché siano uscite così poche porcherie, ma perché due di questi necessitano di un discorso leggermente più approfondito del solito. E non si tratta di pellicole miserabili e fetenti, anzi. Sono piuttosto tentativi andati alla malora di creare qualcosa che, sulla carta, poteva essere davvero interessante. E oltretutto coinvolgono registi con un grosso seguito, molto amati e forse, a questo punto, da ridimensionare. Ma non preoccupatevi: il primo film trattato in questo post rientra pienamente nella definizione di porcheria inqualificabile. E anche lì, c’è da segnalare un certo rammarico, pensando che si tratta di una produzione Hammer.
Non ho avuto molta pietà per il primo The Woman in Black, diretto da un irriconoscibile James Watkins e interpretato dal noto stoccafisso Radcliffe. Ma non avrei mai immaginato, da parte della rediviva Hammer, un crollo qualitativo così totale. The Woman in Black 2: Angel of Death, non è solo un film scritto male, con una trama confusa, senza alcuna coerenza narrativa, o minima pretesa di raccontare una storia che stia in piedi senza sbalzi di volume, è anche un film girato in modo imbarazzante e recitato da un gruppo di pechinesi. Il regista, tale Tom Harper, viene dalla tv e ha anche diretto cose abbastanza pregevoli, ma è evidente che non abbia alcuna esperienza con il gotico. La sua idea per creare la tensione si limita a rendere tutto ciò che avviene sullo schermo incomprensibile, causa mancanza totale di luce. Tanto che a un certo punto ho controllato se non fosse successo qualcosa ai settaggi del mio schermo. E ho sospettato di star perdendo la vista. E invece no, era proprio così. Tutto il film così.
Ma di cosa parla, questo secondo capitolo di The Woman in Black? Non è chiarissimo, come afferma anche Erica nella sua recensione. Ambientato nel 1941, il film non ha molti punti di collegamento con il suo predecessore, tranne la famigerata sinistra magione, e la strada che, quando sale la marea, scompare isolando del tutto la casa. C’è la guerra e Londra è sconquassata dai bombardamenti tedeschi. Un gruppo di bambini viene evacuato dalla città e portato a vivere, insieme a due istitutrici, a Eel Marsh House. E non sarà affatto un soggiorno piacevole. Come non è stato affatto piacevole sorbirsi 98 minuti di buio intervallato da spaventacchi a raffica, siparietti onirici privi di qualsivoglia attinenza con la trama, e insopportabili bimbetti che tu speri solo il fantasma se li porti via. E ti faccia il favore di eliminare anche tutti gli altri protagonisti. A un certo punto appare un vecchio cieco che ne sa di ogni, ma non si capisce bene quale sia la sua funzione. La protagonista ha un oscuro passato e questo dovrebbe metterla in sintonia con l’entità infestante. Ma anche questo punto sfugge all’umana comprensione e il povero spettatore resta lì, un po’ interdetto, un po’ incredulo, un po’ con il desiderio di cancellare gli ultimi dieci anni di storia della Hammer e ricordarsi di quella gloriosa casa di produzione ai bei tempi di Terence Fisher. Ma così non è e vi dovete beccare Tom Harper.
Adam Green, vittima di uno dei casi di sopravvalutazione più clamorosi della storia, non dirigeva un film dai tempi di Hatchet II, se si esclude la sua partecipazione al non memorabile (nel senso che a stento si sa che è esistito) Chillerama. È stato impelagato nella realizzazione della serie tv Holliston, un’altra robina autoreferenziale mica da ridere e, nel 2014 è tornato a dedicarsi a un lungometraggio.
Digging Up the Marrow è un falso documentario dove Green, ormai convinto di essere una specie di Bruce Campbell dei tempi moderni (credici, Adam), interpreta se stesso.
Un minuto di silenzio.
Insieme a lui ci sono il suo direttore della fotografia che interpreta se stesso, il suo montatore che interpreta se stesso e tutto lo staff della sua casa di produzione, la ArieScope Pictures, impegnato a interpretare se stesso. Ah sì, c’è anche la moglie di Green che interpreta se stessa. E un pugno di amichetti di Green (Tony Todd, Kane Hodder, Mick Garris, Tom Holland) tutti che si divertono come scemi a interpretare loro stessi. Con risultati recitativi che spaziano dall’imbarazzante all’odioso, a seconda dei casi.
In tutto questo, c’è anche il povero Ray Wise. No, lui non interpreta se stesso, ma un pazzo che contatta Adam Green per fargli girare un documentario sull’esistenza dei veri mostri. Sì, i mostri esistono davvero, vivono segregati in una città sotterranea, il Marrow, e non vogliono che la società degli esseri umani venga a sapere nulla di loro. Suppongo che uno come Clive Barker nemmeno sappia dell’esistenza di Green, ma fossi in lui, metterei in moto un paio di avvocati per vedere se ci sono gli estremi del plagio.
In realtà, ci sono anche delle cose vagamente decenti, in Digging up the Narrow. Per esempio, l’idea del regista horror che non desidera altro se non dimostrare la veridicità delle teorie di un evidente psicopatico, anche a costo di passarci lui stesso da psicopatico, è interessante. Chi di noi non ha mai, almeno una volta nella vita, desiderato che le creature di fantasia che affollavano i suoi sogni e incubi fossero reali? Il film riesce a rendere molto bene l’idea di quel pizzico di follia e di perenne fanciullezza necessari per dedicare la propria vita al cinema fantastico. Ed è assurdo che quasi nessuno dei collaboratori di Green sia disposto a credergli sul serio, anche quando gli mostra delle immagini. Possono essere effetti speciali ben realizzati. Dopotutto, noi ci lavoriamo tutti i giorni con gli effetti speciali…
Insomma, come sempre quando si parla di Green, va a finire in un rigurgito incontrollato di buone intuizioni travolte da approssimazione, sciatteria, e dalla tendenza compulsiva ad abbindolare lo spettatore con atteggiamenti da fanboy e non da vero e proprio regista. E no, non c’entra niente l’entusiasmo, che è sempre ben accetto. Qui è un continuo strizzare l’occhio a noi che guardiamo il film, ponendoci così in una condizione tale da non riuscire a sospendere l’incredulità neanche per due minuti.
Se poi ci aggiungete anche una realizzazione davvero povera (se hai un budget basso, cerca di volare anche basso) delle creature, nelle intenzioni e nei disegni meravigliose, e quando si mostrano a tutto campo, davvero pezzenti, avrete il quadro perfetto di un’operazione geniale solo sulla carta e naufragata in un mare di prosopopea.
E ora veniamo al vero, grande dolore di questa rassegna mensile. Maury e Bustillo non hanno imparato davvero niente dalla fallimentare esperienza di Livide e, quando tornano dietro la macchina da presa, eccoli compiere gli stessi errori del loro film precedente. Errori assenti invece in A L’interieur. Non perché il dynamic duo francese sia stato miracolato da una botta di culo e poi sia diventato improvvisamente incapace. Sia Livide che questo Aux Yeux Des Vivants (Among the Living) hanno un’estetica pazzesca. Proprio come A L’interieur. E proprio come quel grande film d’esordio, hanno una sceneggiatura scritta su un fazzolettino di carta usato, e su cui qualcuno si è soffiato il naso durante le riprese.
E una sceneggiatura del tutto assente poteva andare benissimo per un film rapido, immediato e senza la necessità di una storia. A L’interieur era così. Donna matta si introduce in casa di altra donna, incinta e sola, e parte il massacro. Non era una storia, era una situazione messa in scena con un’eleganza e un gusto per il macabro e per la violenza estrema che davvero non avevano eguali.
Ma nel momento in cui ti metti in testa, non di girare una situazione, ma di raccontare una storia complessa, non puoi dimenticarti di un piccolo particolare: la devi scrivere. E il fazzolettino di carta usato non ti basta più. Hai bisogno di quella figura mitologica chiamata sceneggiatore. Ed è evidente che né Maury né Bustillo appartengono alla categoria, pur ostinandosi a scriversi i film da soli.
Inoltre, i due in questo terzo film, ambiscono anche a giocare con vari registri narrativi. Si comincia con un’introduzione del tutto attinente alla loro poetica: Beatrice Dalle affetta della gente. E fin qui tutto bene. Poi c’è un salto temporale e Aux Yeu Des Vivants diventa I Goonies. Non scherzo: seguiamo tre ragazzini di 13 anni in un teatro di posa abbandonato, con delle scenografie molto suggestive, una musica che fa il verso a John Williams e una gestione di dialoghi e interazioni tra personaggi presa di peso da tutta la filmografia anni ’80 con cui siamo cresciuti. Paradossalmente, questa è la parte del film che funziona meglio. Bustillo e Maury usano senza vergogna tutti gli stereotipi dell’horror basato sul coming of age, ma riescono a rendere credibili e simpatici i tre protagonisti. Sono anche molto bravi (ma questo non deve stupire) a mettere in scena le loro scorribande tra campi di grano, fienili, fiumiciattoli e, infine, i vecchi set, dove c’è persino un galeone, tanto per dare di gomito a Richard Donner.
Solo che poi il film cambia di nuovo direzione e si trasforma in uno scialbo home invasion. Non so cosa sia successo. Avranno smarrito il fazzolettino. Nonostante ci siano due o tre sequenze di pura violenza passabili (però, anche lì, dovrebbe essere il minimo sindacale), il film crolla sotto il suo stesso peso, i personaggi scompaiono, non si capisce bene dove vogliano andare a parare i due registi e non resta che sperare in qualcuno che, prima o poi, gli scriva un copione vero. Sapete, quella roba di qualche centinaio di pagine, che si porta sul set e si legge, ecco. Poi, non si sa mai, potrebbero sempre scambiarla per carta igienica e usarla nel modo sbagliato. Ma almeno un tentativo lo farei, prima che la loro promettentissima carriera scivoli lungo lo scarico del gabinetto. Sì, proprio lì, insieme alla carta igienica.
Ci vuole un’amaro per digerire il tutto ,ma Green voleva fare un miscuglio tra Un gatto nel cervello di Fulci e Cabal?,Beatrice Dallè l’avevo visto nel film Mangiata viva(film palloso e il titolo nonc’entra niente).
Ma ormai conta solo la resa estestica dei film e la sceneggiatura e ‘un’optional?
Green voleva fare il figo e gli è andata male…
A me Cannibal Love piacque molto. Certo, un po’ lento, è vero 😀
Eppure ti dirò che per via dei nomi coinvolti (Todd, Hodder, Holland, Coscarelli, Wise…) aveva solleticato la mia curiosità. Per i nomi ribadisco, perché, per quanto riguarda la storia, gli echi di Cabal erano belli pesanti tanto che – lo spero per lui – Green non poteva pure pretendere di farcela passare come qualcosa di innovativo e originalissimo, per via del semplice escamotage mockumentaristico (e con creature che tra l’altro, a livello realizzativo, vedo proprio non essere capaci di reggere il confronto con quelle barkeriane).
Quanto a Maury e Bustillo sì, c’è da sperare che un buon copione gli arrivi, e a mio parere la cosa può ancora farsi prima che si buttino via entrambi. Pericolo (del buttarsi via senza rimedio) che la nuova Hammer, con questo The Woman in Black 2 che leggo essere ancor meno entusiasmante – se possibile – del predecessore, non sembra voler far molto per evitare… 😦
Sì, ma fanno tutte comparsate di pochissimi minuti. Todd si intravede a stento e Hodder ha tre battute messe in croce. È più un modo per richiamare i fan. Ma una storia del genere, che è pure simpatica, non lo nego, poteva essere raccontata in modo appena un po’ meno autoreferenziale.
La Hammer ha trovato in TWiB un modo per far soldi e restare a galla, credo. Se gli andrà economicamente bene pure questo film, aspettiamocene un terzo! :O
Per la Dalle ho un debole:Cannibal Love é poesia e Betty Blue,ai tempi,mi sconvolse. Peró la voglia di vedere il nuovo Maury e Bustillo é sotto le scarpe,io giá considero “À l’interieur” una mezza fetecchia con momenti di comicitá involontaria (tra tutta la gettata di horror francofoni degli ultimi anni secondo me é uno dei peggiori: datemi dieci Martyrs,piuttosto), quindi me ne terrò alla larga,mi sa. Woman in Black non aveva nemmeno bisogno di un seguito,talmente era brutto il primo…povera nonna Hammer,invecchiata così male 😦
Perfettamente d’accordo con te sulla Dalle e su Betty Blue.
Io invece su A L’interieur la penso diversamente. Secondo me è una bomba, ma lo è perché dura 80 minuti e perché non c’era bisogno di raccontare niente. Solo mettere in scena una mattanza. I problemi dei due francesini non sono tecnici ma di scrittura. E infatti poi hanno toppato gli altri film…