Regia – Carl Boese, Paul Wegener
Promessa o minaccia che fosse, vi avevo avvertito che avrei ricominciato la mia rubrica. E vi ho anche coinvolto nella cosa. Chiedo umilmente perdono perché dall’annuncio al primo post è passato davvero troppo tempo: un po’ i casini vari che hanno accompagnato l’ultimo periodo, un po’ la statura impegnativa del film in oggetto, mi hanno spinto a procrastinare. Ma una volta minacciato o promesso qualcosa, tirarsi indietro è davvero improponibile. E così, eccomi qui a parlare de Il Golem, film tedesco del 1920 ed esponente dell’epoca d’oro dell’espressionismo cinematografico.
Non pensate proprio che io abbia intenzione di recensire il film. Non è una cosa possibile. Parliamo di un momento cinematografico così distante dal nostro, per mezzi e intenti, che sarebbe da spocchiosi presuntuosi immaginare soltanto di fare una recensione tradizionale.
Cerchiamo invece di affrontare la questione da un punto di vista diverso. Il 1920 è un anno fondamentale per la storia del cinema horror. Se infatti il genere che tanto amiamo si sviluppa negli Stati Uniti nella sua forma più compiuta, le sue origini vanno ricercate altrove. E, per l’appunto, in Germania negli anni ’20.
Facciamo quindi un piccolo passo indietro e parliamo di Caligari, ché, sebbene non sia l’oggetto del post, non se ne può prescindere in nessun modo. Ma non parliamo propriamente del film, quanto dell’accoglienza ricevuta alla sua uscita, in pompa magna, negli Stati Uniti.
Sapete come reagì il pubblico americano a Caligari?
Con manifestazioni oceaniche di reduci della Grande Guerra e comuni cittadini scandalizzati di dover pagare per vedere un’opera del nemico.
La critica invece si divise tra chi bollò semplicemente il film come risultato della “morbosità europea” e chi ne riconobbe, al contrario, la superiorità indiscussa sulla produzione statunitense, all’epoca in fase di grave stagnazione.
Insomma, il cinema tedesco, e nella fattispecie, il cinema dell’orrore tedesco, esplose come una bomba in una palude, scatenando però un’onda lunga che avrebbe portato al germogliare di un immaginario fatto di mostri, distorsioni visive, scenografie sghembe e immagini fortemente contrastate.
Ciò che in Europa aveva però ambizioni di natura più elevata, in America finì per essere prodotto in serie.
Anche perché bisognava far accettare al pubblico le novità dirompenti, inserendole in un confortevole prodotto “nazionale”.
Suggestivo. Questo è il primo termine che mi viene alla mente quando penso a Il Golem. Suggestioni profonde infuse alla pellicola dalle scenografie create appositamente dall’architetto Hans Poelzig, che ricostruì il ghetto di Praga, dalla fotografia di Karl Freund, vero e proprio simbolo degli albori dell’horror cinematografico. Un personaggio che, non a caso, sarebbe poi stato importato negli Stati Uniti, insieme a tanti altri tecnici e registi del cinema tedesco. Una trasfusione di talento responsabile in seguito della fioritura di mostri, mummie e vampiri nel cinema americano degli anni ’30.
Ma non si tratta solo di suggestioni visive. L’influenza de Il Golem si estende come un’ombra minacciosa sulla produzione cinematografica successiva. A partire dalla figura stessa del colosso d’argilla. E viene subito in mente Frankenstein, i cui primi bozzetti per il costume, quando la Universal decise di portarlo sullo schermo, erano simili proprio alla creatura impersonata da Wegener nel 1920.
Mostruosità, deformità (dei corpi e degli spazi), soprannaturale accettato in quanto tale e abbracciato con tutte le sue conseguenze. Questi sono i doni che il cinema espressionista tedesco fece a quello americano.
Riflettiamo sul fatto che fu proprio la “morbosità europea” a portare sullo schermo una concezione di terrore svincolata dalle leggi naturali.
I brividi andavano di moda anche negli Stati Uniti. Produzioni teatrali come The Bat, Il Gatto e il Canarino e The Monsters, riempivano le sale e assicuravano centinaia di repliche. Ed erano produzioni piene zeppe di elementi horror. Ma, ogni volta, c’era una spiegazione razionale agli avvenimenti messi in scena.
Ne Il Golem, come in altri film tedeschi del periodo, di razionale non c’è nulla.
Il Golem viene al mondo grazie a un’invocazione demoniaca. Una sequenza che deve aver causato più di una notte insonne negli spettatori dell’epoca, col volto di Astaroth che appare alle spalle del rabbino e pronuncia la parola aemaeth che risveglierà il Golem, in un tripudio di trucchi ottici per l’epoca avanzatissimi e che ancora oggi fanno un certo effetto.
E poi c’è lui, l’imponente Wegener, a dare volto, corpo e movenze al Golem. In una parabola umana e artistica che ricorda un po’ quella di un altro grande interprete “mostruoso” del cinema horror, Bela Lugosi, Wegener subì un processo di immedesimazione e identificazione con la sua creatura quasi totale.
È un peccato che i due film precedenti a questo siano andati perduti. Sarebbe stato interessante vedere la caratterizzazione del Golem, soprattutto nel secondo, una commedia che, appunto, si occupava proprio di un’identificazione un po’ troppo estrema col personaggio proiettato sullo schermo.
Il Golem di Wegener, anche in questa cupissima raffigurazione del 1920, possiede in realtà qualche tratto comico. E alcune scene del film hanno caratteristiche tipiche della commedia, come quella dove Il Golem viene mandato dal rabbino a fare la spesa, o dove la creatura si confronta con le nobili donne del palazzo dell’imperatore.
La goffaggine sociale del Golem, la sua inadeguatezza, lo rendono uno dei primissimi esempi dell’outsider che non fa solo paura, ma suscita pietà nel pubblico. Il Golem è infatti un essere nato per uno scopo ben preciso e destinato a morire appena svolta la sua funzione di proteggere il popolo dall’imperatore. Il fatto che non ci stia a morire, che si innamori e che alla fine si rivolti contro i suoi stessi creatori ne fa sì una figura terrificante, eppure struggente.
Come struggente è il finale, con la morte del mostro per mano di una bambina.
Insomma, ne Il Golem è presente una buona parte del cinema americano che verrà, a dimostrazione di come l’horror cinematografico sia una scheggia di Europa precipitata altrove e rimasta a fermentare su paure, ossessioni e fobie collettive.
Non un parente povero del cinema “alto” (quando, se si pensa agli albori del mezzo cinematografico, queste distinzioni neppure esistevano), ma una parte fondamentale della storia del cinema stesso.
Niente è infatti in grado di esprimere un senso di disagio universale e sommerso come un’immagine mostruosa e deforme. Che poi su questo disagio siano arrivati i produttori Hollywoodiani a lucrarci sopra per mettere in piedi una delle macchine da soldi più efficienti dell’industria cinematografica, è un’altra storia.
Ciò che conta, in questa sede, è che i mostri venuti dalla Germania che infestarono gli schermi di tutto il mondo nei primi anni ’20 furono i primi esempi di utilizzo di un mezzo popolare (e il cinema era, da sempre, arte popolare) per veicolare invece concetti già da tempo presenti nel mondo delle avanguardie artistiche. Cosa inaudita, per il pubblico americano. Cosa che in seguito venne opportunamente addomesticata.
Eppure, anche questo ha poca importanza. Il seme era stato gettato e, come scrive David J. Skal nel suo splendido saggio The Monster Show, “La tecnologia bellica moderna aveva introdotto approcci nuovi e precedentemente inconcepibili alla distruzione o brutale ridefinizione del corpo umano. I contemporanei progressi della medicina moderna resero possibile la sopravvivenza di soldati per ferite prima fatali“.
Sembra quasi di sentir parlare di nuova carne. Coi mostri che camminano tra noi. Mostri paurosi, ma anche individui reietti alla ricerca di un loro posto in una società che li respinge.
Ed ecco che nasce l’orrore cinematografico. Impressionante come, al di là dei progressi negli effetti speciali e dell’accumulo di nuove tensioni e nuove angosce, il suo nucleo centrale sia rimasto sostanzialmente invariato fino ai giorni nostri.
Per conoscere la storia dei tre film di Wegener dedicati al colosso d’argilla, vi rimando a questo post scritto da Nick
Bellissimo articolo e ottima analisi del rapporto tra cinema tedesco e americano.
Bravissima Lucia, ho parlato anche io di Der Golem, ma il tuo articolo è infinitamente superiore al mio.
Cavolo! L’avevo linkato, ma stamattina WP mi ha mangiato un pezzo del post. Adesso recupero…
Ottimo articolo! 🙂 questa rubrica è stupenda. Punto.
Ebbi occasione di vederlo anni fa.
Mi piacque, per il resto molto interessante la tua recensione da un punto di vista molto differente
Questa è una rubrica ripartita alla grande, senza se e senza ma, signora mia! 😀
Hai scelto l’approccio migliore nei confronti di Der Golem…un’eccellente post con analisi storico-artistica e, giustamente, non una recensione che qui avrebbe avuto ben poco senso. Molto azzeccata poi la chiosa finale sulla nuova carne (dall’argilla di Wegener alla carne mutata di Cronenberg passando per il Frankenstein di James Whale, mi verrebbe da dire)… 😉