Due parole di introduzione, dopo tanto tempo che la Murena non esce: il capitolo che pubblico oggi è un capitolo speciale. Oddio, lo sarà per me e altre tre o quattro persone, che sanno di cosa sto parlando. Diciamo che è una specie di cross over. Avevo voglia di far conoscere una persona a Sara e l’ho inserita qui. Per cui, perdonate se risulterà un po’ slegato dalla narrazione. Io ho fatto di tutto per renderlo coerente con quanto ho scritto fino a questo momento. E spero che apprezziate ugualmente, anche se non sapete bene di cosa sto parlando.
Buona lettura.
L’auto su cui avevano fatto salire lei e la madre era nera e aveva i finestrini oscurati. La precedeva una jeep militare.
Il generale si era accomodato davanti, sul sedile del passeggero, lasciando a loro due i sedili di dietro.
Guidava un ragazzo che doveva essere poco più grande di Sara.
L’interno della macchina era fresco di aria condizionata. C’era un lieve odore di sigarette che stagnava sotto quello di deodorante e detersivo, come se l’avessero portata da poco all’autolavaggio.
Sara appoggiò la testa al vetro e si mise a giocherellare col braccialetto che aveva al polso, una coda di balena d’argento legata a un pezzo di spago di un azzurro sbiadito da centinaia di bagni e immersioni.
Lo portava da quando aveva dodici anni, il regalo di una vecchia amica. Anzi, più che un’amica, la sua prima compagna di immersioni.
“Sembra che dovrò portarti io sott’acqua” le aveva detto quando si erano conosciute “Lo sai montare il gruppo?”
“Sì” aveva risposto Sara.
“Fa’ vedere.”
E Sara si era messa ad attaccare il primo stadio alla bombola. Si divertiva a farlo, glielo aveva insegnato il padre l’estate prima, oltre a darle un libro su cui aveva imparato cos’era la pressione, cosa succedeva alle orecchie quando si scendeva, e a calcolare quanto tempo poteva restare sul fondo con una bombola da 12 litri.
“Ok. Antonella mi ha detto che possiamo anche saltare la piscina e andare direttamente in acqua. Però io voglio chiederlo a te: te la senti?”
“Sì”
“Ok. Andiamo in acqua allora. Preparati.”
Si chiamava Alice. Era un tipo minuto, andava giù con appena un paio di chili in cintura e a volte Sara si chiedeva come facesse ad arrivare dai sedili della barca alla plancetta senza cadere sotto il peso delle bombole.
Sotto il sole si scottava in continuazione e aveva gli occhi così chiari che a Sara ricordavano il colore dei ghiacciai che vedeva nelle illustrazioni dei libri di geografia a scuola.
Se Sara aveva il potere di comunicare con le creature marine, Alice era una di loro, con la sfortuna di essere nata nella parte del mondo asciutta. Col mare aveva un rapporto di simbiosi intima ed esclusiva. Sara la associava ai mammiferi acquatici e aveva sempre pensato che forse Alice avrebbe saputo fare un uso migliore del dono che invece era toccato a lei.
Per tutti, Sara compresa, l’acqua restava un elemento estraneo, in grado di mettere chiunque a contatto con la propria fragilità. Alice ne faceva parte. Per lei era semplice e naturale.
La prima immersione è sempre un momento difficile. Non è tanto scendere, è l’attimo che precede la discesa, quando lo strato d’acqua tra la muta e la pelle è freddo, e si galleggia sostenuti dal gav* gonfio e bisogna trovare il coraggio di premere il pulsante dello scarico e iniziare a cadere.
Sara aveva paura di non riuscire ad andare giù, di aver messo troppo poco peso, aveva paura di non essere in grado di compensare e che sarebbe risalita subito, con le orecchie doloranti. Pensava che le si sarebbe riempita la maschera d’acqua e che svuotarla non sarebbe stato così facile come quando si era esercitata in spiaggia. Più di tutto, aveva paura di bloccarsi, di essere troppo consapevole della superficie sempre più lontana, di realizzare davvero di non essere parte di quel mondo e di venirne respinta.
Alice le stava di fronte e le sorrideva, la maschera appesa al collo, goccioline d’acqua scintillanti nel sole di mezzogiorno sulle punte dei capelli corti e neri, una mano a tenere l’erogatore, l’altra sulla frusta del gav.
“Pronta?” le aveva chiesto.
“Sì.”
“Ok. Erogatore in bocca e buon divertimento.”
Si era infilata la maschera, aveva aspettato che Sara facesse altrettanto e poi, insieme, avevano sgonfiato il gav.
La linea di galleggiamento era prima salita fino a riempire le lenti della sua maschera e poi era sparita.
Intorno a Sara, il blu, per la prima volta. E la parete di roccia su cui i colori si smarrivano mentre la profondità aumentava.
La piccola figura nera di Alice la precedeva, facendole strada lungo il fianco destro dell’isola. Scivolava nell’acqua, il corpo parallelo al fondale, le braccia incrociate sul petto, le pinne che si muovevano lente, a rana, spingendola in avanti a piccoli balzi.
Sara si sentiva un po’ goffa e sgraziata e non riusciva a mettersi in assetto. Tirata verso l’alto, o schiacciata verso il basso, nuotava tutta storta, cercando di equilibrarsi con il giubbotto. Alice si era girata verso di lei e le aveva fatto cenno di calmarsi e di respirare tranquilla.
Poi le aveva mostrato come scendere e salire in orizzontale, usando solo il proprio respiro.
Sara ci aveva messo un po’, ma alla fine aveva capito. E, proprio quando stava iniziando davvero a divertirsi, era arrivato il momento di risalire.
Per tutta l’estate si erano immerse insieme quasi ogni giorno. Il più delle volte in gruppo, perché Alice aveva una decina di persone a cui insegnare. Ma, quando era possible, prendevano il gommone del diving e andavano da sole. Di solito la mattina presto, o al tramonto, prima di chiudere.
Con lei Sara aveva imparato a muoversi come un pesce, come una parte di quella sterminata porzione di mondo sommersa e non come un’intrusa.
“Perché se stai attenta e non nuoti sollevando quintali di sabbia, o in maniera scomposta, puoi confonderti con chi ti nuota accanto. E non è che tu non sia un’estranea lì sotto. Ma si può anche fare finta. E più fingi bene, più il mare ti accoglie.”
Era successo un tardo pomeriggio di settembre. C’era poca gente, la stagione era quasi chiusa, molti ragazzi assunti al diving per quei tre mesi erano già partiti e Alice se ne sarebbe andata via alla fine della settimana.
“Ti faccio vedere una cosa” le aveva detto Sara mentre si infilavano la muta “Però non devi dirlo a nessuno.”
“Ok.”
Non aveva programmato di mostrarle Lui, voleva solo che Alice conoscesse la sua abilità. Ma non si era controllata bene. Lo aveva chiamato e, mentre Alice ammirava i branchi di dentici che si affollavano intorno a Sara, toccandola con le code, e riempendole le dita scoperte di quelli che sembravano piccoli baci, Lui le era apparso alle spalle. All’epoca misurava sei o sette metri. La pelle era diventata blu da poco e le chiazze bianche sembravano tanti fiocchi di neve caduti sul suo corpo.
Alice si era girata. Lo aveva visto.
Era scattata all’indietro, andando a sbattere con le bombole contro Sara.
Il muso della murena a pochi centimetri dal suo, la bocca aperta e gli occhi gialli, fissi su loro due. Sara aveva preso Alice per le spalle e le era passata davanti.
Le aveva fatto segno di non muoversi e poi si era indicata gli occhi con due dita e aveva indicato Lui.
Sta a guardare
Aveva allungato una mano e gli aveva accarezzato la testa. Lui aveva ricambiato la carezza, strofinandosi contro di lei come un gatto.
Sara si era di nuovo girata verso Alice, che adesso non sembrava più avere nessuna voglia di scappare e reggeva l’erogatore con una mano. Perché stava ridendo. E rischiava che le sfuggisse dalle labbra.
Sara l’aveva fatta avvicinare e Lui aveva permesso che Alice lo toccasse. All’inizio si era ritratto, abbassando la testa e agitando la coda. Ma al secondo tentativo, rassicurato dalla presenza di Sara, aveva lasciato che Alice gli passasse le mani sulla pelle spessa e scivolosa.
Va tutto bene, è un’amica.
Lo avevano guardato allontanarsi e scomparire più in profondità, dove a Sara ancora non era consentito andare. La sua sagoma si era persa lontano e Sara aveva deciso che un giorno lo avrebbe raggiunto, che 18 metri non le bastavano e che sarebbe andata avanti, per stare con Lui il più a lungo possibile.
“E così parli coi pesci e hai un amico murena gigante” le aveva detto Alice quella sera, sul molo, dopo aver scaricato le bombole e sciacquato l’attrezzatura con acqua dolce.
“Una cosa del genere”
Alice aveva leccato la cartina e chiuso la sigaretta: “Non ho mai visto niente di più bello in vita mia”
“Mi prometti che non lo dici a nessuno?”
“Me lo hai già chiesto e ti ho già risposto. No, non lo dirò a nessuno. Sei fortunata, lo sai?” Si era tolta il braccialetto che portava al polso e lo aveva dato a Sara: “Tienilo, è tuo. E ora promettimi tu una cosa: proteggi il tuo amico. E la prossima volta che scendi con qualcuno, fai attenzione. Tienilo al sicuro”
Era partita pochi giorni dopo. Sara non aveva più avuto sue notizie. Si chiedeva spesso che fine avesse fatto e sperava che avesse trovato un posto adatto a lei, circondato dall’acqua, dove potesse nuotare come le balene e tornare il meno possibile in superficie.
Aveva mantenuto la sua promessa. Nessuno era venuto a sapere di Lui.
Mentre la macchina scura usciva dall’autostrada e imboccava la rotatoria verso il porto di Civitavecchia, Sara ebbe l’impulso di chiedere al generale di tornare indietro, dirgli che non se ne faceva nulla e di lasciarla in pace.
Ma si trattenne. Era un po’ tardi per questo, ormai. E forse era tardi anche per mantenere la sua di promessa. Tenerlo al sicuro.
Sciolse lo spago che legava il braccialetto e se lo mise in tasca.
Poi tornò ad appoggiare la testa al vetro, chiuse gli occhi e aspettò che qualcuno le comunicasse che erano arrivati a destinazione.
* GAV – Giubbotto ad Assetto Variabile: è uno strumento (chiamato anche Jacket) usato per regolare più facilmente la profondità in immersione. Come funzionamento ricorda la vescica natatoria dei pesci.
Altri capitoli qui.
Ma io mi ricordavo di averla vista da queste parti un po’ di tempo fa, Alice (assieme a una certa River, se non sbaglio)…lei, Lui e Sara avrebbero dovuto incontrarsi per forza un giorno o l’altro 😉