My Little Moray Eel – 21

Copertina MorayLAND OF SUNSHINE

 In seguito, Sara avrebbe dato la colpa ai fumetti, ai film, a tutti i supereroi con cui era cresciuta e si era nutrita sin da bambina. E di conseguenza alla madre, che le aveva trasmesso questa passione e l’aveva portata al cinema a vedere anche la peggior stronzata, purché targata Marvel o DC, mentre il papà scuoteva la testa e si chiedeva quale delle due fosse l’adulta.
Avrebbe potuto lasciare che li ammazzassero tutti. E poi andarsene indisturbata e non vista. Nessuno l’avrebbe biasimata. Soprattutto, nessuno le avrebbe rovinato la vita.
E invece no.
Perché si era sentita, all’improvviso, responsabile per quelle persone che erano lì insieme a lei. E non solo. Si era sentita eroica. E forte. E meno impaurita e sola. Dopo tanto tempo, poteva rendersi utile, dimostrare che non era solo il divertimento un po’ sciocco di una natura che aveva deciso di prendersi gioco di lei e renderla diversa. Era come aver trovato la propria strada e il proprio scopo.
Mancavano ancora parecchie ore all’alba e quegli degli abissi non ci avrebbero messo molto a sfondare la porta ed entrare nel piccolo ufficio in cui si erano rifugiati. Anche la scrivania appoggiata a bloccare l’ingresso non era sufficiente. Erano in tanti. Loro erano solo cinque. E sparare a tutti non era possibile. Sara non ne sapeva molto di pistole e cose simili, ma non pensava che avessero munizioni infinte.
Faceva già un gran caldo lì dentro. Anzi, si soffocava. Sara schiacciò con uno schiaffo una zanzara che le stava pungendo l’avambraccio. L’odore di pesce aveva appestato l’aria. Uno degli agenti aveva la faccia verdognola e ogni tanto tratteneva un conato di vomito.
Sara si mise il cellulare nella tasca dei pantaloni militari che portava. Poi la chiuse con la zip. Non doveva perderlo. Doveva chiamare i suoi, non appena fosse finita. Sperava che qualcuno li avesse bloccati prima che potessero avvicinarsi troppo alla costa.

Marvel-Studios

“Avete le chiavi di una delle macchine nel parcheggio?” chiese.
Tutti e quattro i poliziotti la guardarono senza rispondere.
L’unico suono che arrivava dall’altra parte della porta era quello di tanti bambini che saltellavano a piedi nudi in una pozzanghera. Un rumore quasi gioioso. E sempre più vicino.
Sara ripetè la domanda, un po’ esasperata: “Potete mettere in moto una macchina o avete lasciato tutte le chiavi in giro?”
“Come ci arriviamo al parcheggio, ragazzina?” aveva risposto l’agente con la faccia verde.
“Con me.”
“Non è il momento di scherzare.”
“Non sto scherzando”.
Fece un passo verso la scrivania. Uno dei poliziotti la prese per un polso. Sara chiuse gli occhi e pensò alle onde che si sollevavano e andavano a schiantarsi contro le rocce e sulla sabbia. Pensò alla schiuma bianca e alla luce catturata dagli spruzzi, ogni goccia a catturare un piccolo sole da trascinare sott’acqua. Il mare era al di là della porta. Quegli esseri lo portavano con loro e lei doveva solo concentrarsi su un pensiero fisso, azzurro e profondo, evocare l’oceano e collegarsi con quell’unico cervello collettivo che li guidava tutti. E fu come essere a casa.
Il poliziotto la guardò.
“Lo sente?” chiese Sara.
All’esterno, lo scalpiccio umido di quelli degli abissi si interruppe di colpo.
“Che cosa diavolo sei?” rispose l’uomo.
“Mi aiuta a spostare la scrivania, per favore?”
L’agente annuì e si rivolse ai suoi colleghi: “Avanti, ragazzi. Ce ne andiamo di qui”.
Protestarono. Gli diedero del matto. A Sara le loro voci arrivavano ovattate e un po’ distorte, proprio come i suoni di superficie quando si mette la testa sott’acqua. Ma era faticoso mantenersi in quello stato all’asciutto e non era sicura di avere troppo tempo a disposizione.
La discussione proseguì ancora per qualche minuto. Sara ne coglieva qualche frammento sparso.
“Non mi fido di una sciroccata.”
“E allora restate qui e fatevi ammazzare. Io me ne vado.”
“Ma che ti ha fatto?”
“No, tu non capisci. È come loro.”
“Cazzate.”
“Io vengo con te.”
Una serie di colpi alla porta li interruppe.
“Vi prego” disse Sara “Decidete in fretta. Non mi sento tanto bene.”
Le stava venendo mal di testa e le tremavano un po’ le gambe. Tra poco avrebbe iniziato a perdere sangue dal naso. Era come se stesse portando un enorme masso sulla schiena.
Due dei quattro poliziotti decisero di restare chiusi nella stanza ad aspettare. Gli altri la seguirono. Sara tese loro le mani. E si concentrò ancora di più sull’acqua. Il rombo della corrente le pulsava nelle orecchie e il sale le faceva bruciare gli occhi.
Spostarono la scrivania.
Aprirono la porta.
Quelli degli abissi la aspettavano. Fermi.

Water_Deep_Ocean_Wide_by_pokchop

Sara fissò lo sguardo nei loro occhi scuri e spinse più forte. Per un istante credette di soffocare. Poi regolò il ritmo del proprio respiro. La sensazione di sfasamento, l’essere nello stesso momento fuori e dentro l’acqua, le dava le vertigini. Ma andò un po’ meglio quando immaginò di essere insieme a Lui e riuscì a visualizzarlo mentre si muoveva in uno spazio libero e sterminato. E decise di diventare Lui. Perse mani e braccia, il suo corpo divenne quello di un drago e i poliziotti si aggrapparono alla sua pinna dorsale.
E nuotò attraverso la stazione di polizia sommersa, mentre le schiere di quelli degli abissi si aprivano per farla passare.
Si girò indietro una sola volta, per vedere la porta del piccolo ufficio che veniva sbarrata di nuovo.
Arrivarono all’ingresso principale e uscirono all’aperto. Nel piazzale del commissariato erano saltati tutti i lampioni. I corpi fluorescenti delle creature sembravano tante lucciole.
Sara guidò i poliziotti fino al parcheggio. Per salire in auto, dovette interrompere il contatto con loro.
“Sbrigatevi. Via di qua. Il più veloce che potete.”
Si lasciò cadere sul sedile posteriore, mentre la macchina si allontanava dall’edificio.
L’impatto col suo corpo e con la terra le fece male. Fu come sbattere contro un muro a un centinaio di chilometri all’ora.
Promise a se stessa che non avrebbe fatto mai più una cosa del genere.
Ogni tanto, dallo specchietto retrovisore, i poliziotti la guardavano. Sembravano impauriti e preoccupati. Sospettosi, quasi. Neanche avessero con loro un criminale o un assassino.
“Guarda che ti sanguina il naso” le disse quello che guidava.
“Lo so” rispose lei.
Tirò fuori il cellulare.
“Che fai?”
“Chiamo i miei. Posso?”
“Sì, sì. Scusa.”
“Non guardi me. Guardi la strada e mi lasci in pace.”

Altri capitoli qui.

9 commenti

  1. giudappeso · ·

    Bellissimo, soprattutto il modo in cui descrivi il suo potere. Fai davvero entrare il lettore nella sua testa. 😀

    1. Grazie ❤
      che poi sarebbe un potere utile quanto un buco di culo sul gomito, se non fosse per la piccola apocalisse.
      Quando si dice essere ragazze fortunate 😀

  2. Giuseppe · ·

    Sara che spinge i suoi poteri fino a diventare Lui (percependo il proprio essere e la stazione di polizia come Lui potrebbe percepirli nel suo ambiente naturale), guadagnandosi il silenzioso rispetto di quelli degli abissi come una loro pari…gran pezzo di bravura (scritta e visuale) 😉

    1. Io arrossisco 🙂
      E Sara ringrazia

  3. UAU.
    Sara è proprio un bel personaggio. 🙂

    Ciao,
    Gianluca

    1. Le voglio molto bene, in effetti…
      e questa tendenza supereroistica è uscita da sola e mi piace *O*

  4. una pacific rim in riva al tirreno!
    Bellissimo crescendo di tensione e fantastico.

    Ti posso ripetere per l’ennesima volta che è uno spreco il fatto che non ti abbia ancora chiamata Cameron o Spilby?

    ciao e buona giornata

    1. Mancano i robottoni 😦
      Perché non sanno neanche che esisto, quei due.
      Ma se lo sapessero, ah, se lo sapessero 😀

      1. poi li chiamo ,ci penso io 🙂

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