“I tuoi stanno arrivando” le disse il poliziotto da dietro la scrivania. E poi riprese a battere con le dita sulla tastiera del pc.
“Grazie” rispose Sara.
Non era arrivata molto lontano nel suo patetico tentativo di fuga verso il mare. Neanche a metà strada. Ed era finita quasi arrestata. Complimenti.
Se fosse stato lì, Ilio sarebbe morto dalle risate e l’avrebbe presa in giro per i prossimi trent’anni.
Aveva dei ricordi piuttosto confusi della mezz’ora precedente. Sapeva che, quando era scesa dalla macchina, aveva sentito l’odore del mare, forte come uno schiaffo sulla guancia. Le avevano detto che era svenuta e le era uscito il sangue dal naso, cosa che non le capitava davvero da molto tempo. Aveva farneticato qualcosa a proposito della sua piccola particolarità, dicendo ai poliziotti che doveva per forza entrare in acqua, perché lei poteva mettere fine agli attacchi e alle stragi. Lei parlava coi pesci e con tutte le creature che vivevano negli abissi.
Adesso se ne vergognava.
Erano stati anche gentili con lei. Forse avevano pensato che fosse una squilibrata, tutto sommato innocua, suggestionata dagli avvenimenti degli ultimi mesi.
Sbarellata di testa. Che figura di merda.
Sedeva su una panca di plastica con ancora in mano il fazzolettino macchiato di rosso con cui si era pulita la faccia. Le avevano dato acqua e zucchero e le avevano offerto un caffè. I dieci agenti presenti in stazione le chiedevano a turno se si sentisse bene. Uno di loro la chiamava “piccolina”.
Perché come era in grado di coprirsi di ridicolo lei, nessuno al mondo.
A Sara ciondolava la testa dal sonno. I suoi sarebbero stati lì al massimo entro un’ora. Il ticchettio dei tasti, il ronzio dei condizionatori, i passi dei poliziotti nei corridoi e, fuori dalle finestre, il rumore del vento che faceva sbattere il ramo di un albero contro un vetro, a un ritmo costante, come il rintocco di un orologio.
Uno dei neon sul soffitto si accendeva e spegneva a intermittenza. Sara si mise a contare i secondi tra un’interruzione e l’altra, sincronizzando i battiti delle palpebre con la luce. Quasi ipnotizzata da quella pulsazione, scivolò in uno stato a metà tra il sonno e la veglia. Percepiva ancora l’ambiente circostante, con il suo insieme di suoni e colori. Ma ne era anche lontana. Galleggiava in un altrove morbido e denso e si sentiva pesante, come se avesse addosso una cintura di piombi.
Poi lo sentì. Vicino e violento. Di nuovo l’odore del mare, ma più intenso, e marcio, il puzzo delle alghe seccate al sole. E una scarica elettrica tra le tempie. Si portò le mani alla testa. Adesso era del tutto sveglia.
“Quanto siamo lontani dalla spiaggia?” chiese al poliziotto.
“Un chilometro, un chilometro e mezzo.”
Sara si alzò.
“Dobbiamo andare via.”
“Sì, certo. Aspetta ancora un po’ che ti vengono a prendere.”
“No, no. Stanno venendo qui. Sono tanti. Per favore, mi ascolti, dobbiamo allontanarci.”
“Dai, non ricominciare. Mettiti seduta e stai buona”
Sara diede un’occhiata all’orologio sul muro: erano le tre e mezza. All’alba mancava ancora del tempo. Non tantissimo, ma abbastanza per quelli degli abissi per attaccare e tornare in acqua.
Si avvicinò alla scrivania: “Deve avvisare tutti quelli che abitano sul lungomare.”
“Lo abbiamo già evacuato giorni fa. Per chi ci hai preso?”
“Ma non solo le case affacciate sull’acqua! Tutti!”
“Perché ce lo dici tu?”
Un altro poliziotto le si avvicinò da dietro, le mise una mano sulla spalla e la spinse di nuovo verso la panca.
“Non è il caso di agitarsi così, piccolina.”
L’agente sedeva dando le spalle a una grande vetrata. Fuori era buio e i lampioni del piazzale del commissariato erano quasi tutti rotti.
La finestra si infranse con uno schianto. Una mano bianca penetrò attraverso lo squarcio e afferrò il poliziotto per il collo. L’uomo gridò. Alla mano bianca se ne aggiunsero altre. Decine. Lo trascrinarono fuori. La sua divisa si strappava sulle schegge di vetro. Lui continuava a gridare. Sparì all’esterno. Le urla cessarono.
E poi, tante facce apparvero alla finestra.
Altri due poliziotti arrivarono di corsa. Estrassero le pistole. Qualcuno sparò, colpendo una creatura alla testa. Il liquido bianco e appiccoso schizzò sul bordo della scrivania. La creatura cadde, subito sostituita da un’altra.
Gli occhi neri, la pelle lucida che in superficie perdeva la sua trasparenza e diventava del colore del ghiaccio degli iceberg.
Sara sentì dei colpi alla porta. La stavano sfondando. Ancora rumore di vetri in frantumi.
“La finestra del centralino, cazzo!” gridò uno dei poliziotti.
Ora il tanfo di pesce marcio era insopportabile. E le creature avevano fatto irruzione all’interno del commissariato dalla grande finestra sfondata. Altri spari e altre urla da una stanza in fondo al corridoio. La porta si spalancò e uscì un agente, la divisa macchiata di sangue e di gelatina bianca. Zoppicava e aveva un braccio rotto. L’osso del gomito sporgeva, bucando la stoffa celeste della camicia. Fece appena in tempo a chiamare aiuto che quattro o cinque esseri gli furono addosso. Le ventose che avevano sulle mani gli strapparono la pelle della faccia. Cadde in avanti e non si mosse più.
“Tutti di sopra, presto!”
Afferrarono Sara per un polso e la trascinarono verso le scale che conducevano al secondo piano della palazzina.
Era soprattutto il silenzio delle creature a colpirla, a sembrarle innaturale e fuori posto, lì sulla terra.
Gli uomini parlavano ad alta voce, sparavano, imprecavano e il loro respiro era pesante e affannoso. Le scarpe strusciavano e ticchettavano sul marmo delle mattonelle.
Quelli degli abissi non producevano alcun suono. A parte un leggero sciaquio dei loro piedi nudi, simile a quello di un polpo sbattuto contro gli scogli.
Salirono le scale di corsa ed entrarono in un ufficio pieno di scaffali e faldoni, senza finestre. Uno dei poliziotti chiuse la porta e, insieme ad altri due, ci spinse contro la scrivania.
“Ok, il centralino è andato. Chi ha un cellulare a portata di mano?”
“Io” disse Sara e lo passò al poliziotto.
L’uomo compose il numero e si portò all’orecchio il telefono. Passò un’eternità prima che qualcuno rispondesse dall’altra parte.
“Pronto Santini, qui è un casino… sì… no… come è così dappertutto? Ma dove cazzo siete tutti quanti? Migliaia? Che significa migliaia? Pronto! Pronto!”
Rimase col cellulare muto in mano per qualche secondo, poi lo restituì a Sara.
“Hanno attaccato in tutto il paese. Stanno facendo una strage…” disse.
Altri capitoli qui
Bellissima, sempre meglio! Non solo la scena dell’attacco, ma anche il modo in cui scrivi e racconti. Bravissima. 😀
Arrossisce… 🙂
sublime,spettacolare,bella ziaaaaa! 🙂
*O*
Wow, che attacco! Molto d’effetto. 🙂
Ciao,
Gianluca
Grazie Gianluca *O*
Quel tanfo lovecraftiano preannuncia l’inevitabile…che arriva nello spietato e efficiente silenzio degli esseri abissali, in contrasto con l’inutile rumore dei loro bersagli umani presi dal panico. Il tutto trasmesso con piglio sicuro al lettore che, dopo le secche e drammatiche battute finali, non può fare a meno di prorompere in un “e adesso come cazzo faccio ad aspettare un’intera settimana per sapere il resto?” 😉 😀
Tu pensa che devo aspettare lo stesso tempo anche io 😉
Grazie!
Bellissimo Lu…sarebbe bello trattare il tuo racconto per un film!! 😀
ahahahah!
Grazie!
Con la fortuna che ho lo farebbero dirigere a Zack Snyder
Ahahahah!!!
Non c’è problema, se dovesse capitare mi metto io di persona a marcarlo strettissimo (ti faccio beccare un Oscar, ti faccio) 😀
Creature dalle viscere della terra…e botte da orbi per tutti!