
Regia – Fred Walton (1993)
Il Day 15 era dedicato all’horror queer e io mi sono presa una giornata di riposo, un po’ perché altrimenti schioppo, un po’ perché credo che qui sopra abbiamo parlato di quasi ogni horror queer interessante mai uscito. Consiglio tuttavia un film recente, che horror non è, ma è sicuramente queer, ovvero Love Lies Bleeding.
Per il Day 16, invece, il tema è quello dell’home invasion: devo ammettere di aver tribolato, e non poco, per trovare il film giusto, perché non mi andava di parlare sempre delle stesse cose, mi interessava un taglio un po’ diverso. Incredibilmente, la mia affannosa ricerca si è fermata su un sequel, realizzato per la televisione, di un classico degli anni ’70, e che stacca il suddetto classico di circa dieci lunghezze, lo surclassa in ogni singolo aspetto.
Non essendo mai stata un’entusiasta di Quando Chiama uno Sconosciuto, non mi ero proprio interessata a recuperare il suo tardivo seguito, diretto dallo stesso regista nel 1993. E avevo fatto male, malissimo.
Quando Chiama uno Sconosciuto è un film molto strano: dopo un incipit tesissimo e feroce, si sgonfia in un noiosissimo procedural, che tra le altre cose, mette fuori gioco la protagonista (Carol Kane) e punta tutto sulle indagini condotte dall’investigatore John Clifford, per poi tornare a essere un home invasion soltanto nella parte finale.
Il suo seguito ne ricalca la struttura narrativa, ma si ricorda di restare sempre abbastanza vivace da non far abbioccare lo spettatore. Già questo, da solo, deporrebbe a suo favore e me lo farebbe scegliere nove volte su dieci rispetto al predecessore. C’è tuttavia soprattutto un elemento del racconto che lo eleva al di sopra del film del ’79, e di tanti altri home invasion basati su donne in situazioni di estremo pericolo: When a Stranger Calls Back (in italiano, Uno Sconosciuto alla Porta) è una superba analisi del trauma, delle sue conseguenze e di come sia difficilissimo per le donne vittime di abusi essere credute, se non da altre donne, com’è ovvio.
Tornano sia Carol Kane sia Charles Durning nei rispettivi ruoli di Jill Johnson e dell’ormai anziano Clifford, ma c’è una novità, rappresentata dal personaggio di Julia (Jill Schoelen).
Julia sta facendo da babysitter a due bambini, quando un uomo bussa alla porta chiedendole di fare una telefonata. È infatti rimasto a piedi e vorrebbe chiamare un carro attrezzi. Jill non si fida e lui le dà il tormento tutta la sera, accampando ogni minuto una scusa diversa per poter entrare in casa. A un certo punto, le dice di aver visto qualcuno alla finestra del piano di sopra, che è dove dormono i bambini. Come va a finire la cosa lo possiamo intuire facilmente, perché è la stessa cosa che accade nel primo film.
Passano cinque anni, Julia è al college ed è convinta che qualcuno la stia perseguitando: trova oggetti fuori posto nel suo appartamento, una maglietta che sa non essere sua appesa nell’armadio, la sveglia, che lei non ha programmato, che comincia a suonare in piena notte, e così via.
Alla polizia nessuno sembra disposto a darle retta, fino a quando non interviene una consulente psicologica dell’università dove studia Julia, nientemeno che Jill Johnson in persona, protagonista del primo film. Lei, in una situazione del genere, ci è già passata e decide, con l’aiuto di Clifford, di aiutare Julia.
Partiamo dai primi venti minuti del film, quelli più chiaramente home invasion. Si dice spesso che l’inizio di Quando Chiama uno Sconosciuto fa parte delle varie fonti di ispirazione per la sequenza d’apertura di Scream, ed è vero: c’è la telefonata, c’è la consapevolezza crescente, da parte di pubblico e protagonista, che l’uomo all’altro capo del filo sia molto vicino, c’è infine la rivelazione su quando sia davvero vicino. Williamson non replica il colpo di scena perché è troppo famoso, e perché era, già nel 1979, una citazione a sua volta, da Black Christmas, tanto per mettersi a fare un po’ la precisetti.
Ci sono tuttavia dei dettagli, soprattutto nella messa in scena e nel modo in cui il personaggio di Julia è costruito, che mi spingono a sospettare un’influenza ancora più forte, su Williamson e su Craven, di questo seguito televisivo: la scansione degli eventi è pressoché identica, il ritorno frequente sulla teiera lasciata accesa in cucina fa pensare ai pop corn della povera Casey, e l’atteggiamento di Julia nei confronti dell’uomo alla porta, è ben più sprezzante e di sfida rispetto a quello di Jill quattordici anni prima. Ci sono anche degli scambi di battute che sembrano un copia e incolla con qualche parola cambiata.
Con una messa in scena precisa e molto rigorosa, Walton riesce a tenere una tensione quasi insopportabile avendo a disposizione soltanto un’attrice, una porta d’ingresso chiusa, e una voce all’esterno, dapprima gentile, mortificata per il disturbo che sta arrecando, poi sempre più insistente, aggressiva, e con una punta di sadico divertimento che cresce piano piano. Schoelen, già ai tempi veterana dell’horror, è bravissima a tenere la scena da sola, attraversando tutta una serie di stati d’animo molto diversi tra loro, dalla diffidenza iniziale, al senso di colpa per non aver aiutato una persona in difficoltà, fino al terrore assoluto degli ultimi due o tre minuti di questo prologo che mi ha fatto venire voglia di barricarmi in casa e non aprire mai più la porta a nessuno. Per tutto il resto della mia vita.
Dopo una partenza così, il rischio è quello di imboccare la stessa strada del predecessore, ovvero ammosciarsi. Per ovvi motivi di cambio di registro, e proprio di genere, il ritmo cala, ma anche grazie a Dio, che 90 minuti così non li avrei retti neanche prendendo una camomilla. Eppure, mantenendo alta la concentrazione sulla vittima e sul suo rapporto con Jill, il film riesce a rimanere sempre interessante, sempre rilevante, se mi passate un termine un po’ abusato.
“You know exactly how many socks you have in a drawer. How many matches are in the box by the stove. You don’t mistake those things and the terrifying thing is apparently, he knows you don’t“.
Jill, a differenza di Julia che ancora cerca supporto dalle forze di polizia, lo ha capito che se la devono sbrigare tra ragazze, perché se stanno ad aspettare la comprensione maschile, possono serenamente lasciarci entrambe le penne.
La prima volta in cui rivediamo Julia dopo la sua allucinante notte da babysitter (cit.), si precipita alla centrale più vicina al suo campus per denunciare di essere vittima di stalking. Sapete cosa succede? Le ridono dietro, anzi, mi correggo: le ridono in faccia, e trattano con sussiego Jill che invece arriva con i suoi faldoni e la prende sul serio.
Chissà se uscisse oggi come verrebbe definito questo film. Woke, probabilmente. Propaganda femminista, anche.
Eppure, anche oggi che il cinema, horror e non, ha cominciato a cambiare sguardo sulla violenza di genere, di rado si è vista una fotografia così fedele di cosa significhi non essere credute. La rabbia impotente di Julia e la rassegnazione combattiva di Jill mi accompagneranno per sempre.
Poi sì, When a Stranger Calls Back perde parecchi colpi nella risoluzione del caso: al solito tutta la parte procedural è debole, persino un po’ ridicola, poco soddisfacente e con il problema ulteriore di richiedere allo spettatore una sospensione dell’incredulità da campione olimpionico di sollevamento pesi.
Ma alla fine chi se ne frega: ci sono almeno altre due sequenze da manuale dell’home invasion, una ambientata in una stanza d’ospedale (hospital invasion?) che mi ha causato una sensazione di disagio quasi fisico, e tutto il terzo atto a casa di Jill.
Molto più avvincente e calibrato rispetto al film del 1979, When a Stranger Calls Back è stato una vera sorpresa, una scoperta incredibile, la migliore di tutta questa challenge fino a questo momento.
La cosa bella dell’horror è che non smette mai di stupirti e c’è sempre qualcosa rimasto nascosto dietro gli scaffali più remoti, che vale la pena di riportare a galla.












Giorno Lucia,per la challenge di ieri non e’ stato facile trovare il film,ma alla fine ho optato per un’opera magnifica,che quando si parla di questo grande regista,non lo sento mai menzionare,io invece lo ritengo forse il mio preferito tra i suoi lavori,ho scelto il dimenticatissimo e bellissimo “In Dreams” di Neil Jordan.
Per la challenge di oggi invece,punto tutto sul filmone di quel meraviglioso pazzoide di Kitamura,per qui ho scelto “No One Lives”😈.
Wow! Da recuperare!
“Love Lies Bleeding” molto fico!
Per il day 15 ho (ri, ri,ri…)recuperato il Rocky Horror, anche perché il mio rapporto con questo film cambia nel tempo e ogni volta mi piace guardare e guardarmi…
Per il day 16 condivido “In their skin”, che mi ha fatto stare male.
😘
Altro titolo che la tua recensione mi spinge a recuperare, considerando un capostipite fine anni ’70 non entusiasmante abbastanza da farmi tenere d’occhio dei sequel (specie se tardivi)… Oggi la mia scelta cade su Hush di Mike Flanagan, che con Mike si casca sempre a fagiolo 😉
L’originale mi era piaciuto, il remake del 2006 decisamente meno, di questo sequel non sapevo niente. Grazie per la segnalazione, Lucia
L’originale parte a razzo, ma poi io faccio sempre fatica a vedere tutta la parte investigativa. Il remake se non altro espande l’apertura del primo in un home invasion compiuto. Questo è un buon compromesso tra i due approcci.
uno che può condividere per favore il film per intero?