King al Cinema: Ep 17 – I Langolieri

Regia – Tom Holland (1995)

Dovrei avere circa diciassette anni, e mi trovo davanti alla tv del salotto di casa, un pomeriggio invernale. Non ricordo esattamente se sto guardando Tele+ o un VHS appena affittato, ma so che la buonanima di mio padre, a un certo punto, si viene a sedere anche lui davanti allo schermo e, delicatissimo come suo solito, dice: “Ma che è ‘sta merda?”
E io: “Ma papà, è tratto da un bellissimo racconto di King.”
E lui: “Pensa se era pure brutto.”
Si alza e se ne va, per mia fortuna prima dell’apparizione dei langolieri, altrimenti credo mi avrebbe presa in giro da lì all’eternità.
Mio padre non aveva poi completamente ragione: merda, per I Langolieri, è anche una definizione troppo gentile, perché se non altro lo caratterizza in qualche modo, gli conferisce una qualche forma di qualità. La cosa sconvolgente è che lo ha diretto Tom Holland. No, non Spiderman. Questo Tom Holland. E tu sei lì, pietrificata sulla poltrona a chiederti come sia potuto accadere che il regista di Ammazzavampiri e La Bambola Assassina abbia accettato di porre la sua firma su questo monumento alla mediocrità in forma di miniserie della durata di tre ore. Tre ore per adattare non un romanzo fiume, ma una semplice novella che non è altro se non un episodio un po’ gonfiato de Ai Confini della Realtà. Tre cazzo di ore.

Penso ancora che la novella presente in Quattro Dopo Mezzanotte sia una meraviglia, anche se non la rileggo da parecchio tempo, ma non so a chi sia venuto in mente di farne una miniserie televisiva quando il materiale lì presente era buono per estrarne una cinquantina di minuti belli tesi o, se proprio avessero voluto strafare, un film da un’ora e mezza e tutti a casa.
E invece no: Holland, che in questo caso è doppiamente colpevole perché è pure autore della sceneggiatura, adatta la novella di King alla lettera, e quando dico alla lettera, intendo proprio con gli stessi dialoghi, le stesse pause, identici tempi morti, e soprattutto minuti e minuti di insopportabili spiegoni affidati a turno ai due personaggi dello scrittore Jenkins (Dean Stockwell) e al giovane violinista Albert. E passi pure quando è Stockwell a sobbarcarsi estenuanti monologhi atti a illustrare al pubblico con dovizia di particolari quello che, essendo un film, magari sarebbe il caso di far intendere in altri modi, ma quando tocca ad Albert (Christopher Collet era un cane ai tempi di Sleepaway Camp ed è rimasto cane per sempre), si vorrebbe soltanto fuggire altrove. Anche perché, per la miseria, lo abbiamo capito che avete viaggiato nel tempo, abbiamo capito che nel passato il cibo e le bevande non hanno sapore, che la luce è piatta, che non c’è eco. Non è necessario ripeterlo quarantasette volte, grazie. E il mio senso estetico è profondamente offeso dal fatto che, a ribadire concetti che ho già capito, ci sia un tizio che porta i sandali con i calzini di spugna. E non muoia atrocemente per questo.

“Pensa se era pure brutto”, ha detto mio papà del racconto. E infatti I Langolieri è un esempio da studiare nelle scuole di cinema su quanto possa essere dannosa la fedeltà totale e senza un singolo guizzo creativo al materiale di partenza. Neppure Garris è mai arrivato a tanto: in The Stand, per quando la serie soffra di una cronica mancanza di personalità, qualche piccola libertà rispetto al testo se l’è presa. Qui manca persino la più minuscola deviazione, manca il tentativo di realizzare un prodotto, per quanto televisivo, che cammini sulle proprie gambe. L’unico lato positivo, e va dato atto a Holland di aver fatto passare una roba inaudita nella tv degli anni ’90, è che se segui fino in fondo e in ogni minimo dettaglio la novella di King, devi far morire accoltellata una bambina sulla ABC in prima serata, un dettaglio che forse altri registi avrebbero modificato: la piccola Dinah, cieca e dotata di luccicanza, oggi rischierebbe di sopravvivere all’aggressione del villain: negli anni ’90 non le è stata usata alcuna clemenza.
Il che dice parecchie cose su quanto facesse più paura una eventuale reazione piccata di King rispetto alla censura del piccolo schermo.

Se gli adattamenti non horror del Re fioriscono proprio a partire dagli anni ’90, arrivano agli Oscar, coinvolgono grandi nomi, a livello di regia e cast, la sua produzione horror finisce relegata queste operazioni per la tv, dove forse lo scrittore aveva più controllo sul prodotto finale e sui registi: in altre parole, la star di un film come Misery non è Stephen King, mentre lo diventa quando il budget si abbassa e l’intero processo creativo è al suo servizio, Non è I Langolieri di Tom Holland, è I Langolieri di Stephen KIng. E, duole ammetterlo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non perché io abbia qualcosa contro King, anzi, ma perché una trasposizione, per essere efficace deve avere il coraggio di tagliare, modificare, anche stravolgere, all’occorrenza. Deve saper, appunto, trasporre in immagini un flusso di parole, e deve utilizzare un linguaggio differente. La pretesa che tv o cinema parlino la stessa lingua della narrativa è errata e porta a conseguenze sciagurate come questa miniserie sciatta, anonima e tremendamente noiosa.

E poi c’è il problema dei vfx, perché diciamolo, I Langolieri, considerando che si tratta di tv anni ’90, che procede sonnacchiosa per tre ore e si porta sul groppone ogni singolo limite già tante volte discusso intrinseco al piccolo schermo di una trentina di anni fa, regge più o meno fino a quando i mostriciattoli che le danno il titolo non appaiono in tutto il loro miserabile splendore. Lì avviene un tonfo epocale, lì si passa con disinvoltura dalla mediocrità alla bruttezza e non c’è nulla, ma proprio nulla che si riesca a salvare. Alcuni membri del cast, Stockwell in testa, erano riusciti a spingere questa macchina senza motore quasi fino al traguardo, con l’andamento di un carro funebre, certo, ma l’impegno di professionisti come David Morse va  sempre riconosciuto.
E io capisco, ve lo giuro, che i langolieri non sono poi facilissimi da rappresentare così come King li ha immaginati, soprattutto nel 1995, che a realizzarli con effetti pratici si rischiava una causa di plagio da fratelli Chiodo e dai loro Critters, ma vedere quelle palle coi denti che fluttuano appiccicate allo sfondo è una tortura nel 2020 e lo era nel ’95, pur con tutte le giustificazioni del caso.
Perché, dopotutto, il cinema ha l’obbligo di superare certi ostacoli, è costretto ad arrangiarsi quando le idee di uno scrittore vanno oltre le sue possibilità. Il disastro non è dato dalla pessima resa dei vfx in quanto tali, ma dal non aver voluto o saputo cercare un’alternativa nel dare forma ai langolieri. Quelle palle fluttuanti sono il simbolo del fallimento della miniserie, non a livello tecnico, ma creativo.
Ma la lezione non è servita, e nel prossimo futuro ci attendono altri indicibili orrori, almeno per un altro paio d’anni.

15 commenti

  1. Talmente brutto che non lo mai visto, adesso per punizione lo voglio vedere e magari confermare se e’ veramente brutto oppure un capolavoro trash, anche se la definizione sembra la stessa.

    1. I langolieri lo vedi solo se ti devi punire o se viene una sciagurata idea come la mia.

      1. la seconda che hai detto 🙂 🙂

  2. Eccolo, aspettavo questo post e ricordavo la serie dei Langolieri esattamente come l’hai descritta. Il mio rapporto con King è fatto di tanti abbandoni, e questo fu uno dei momenti più bassi. A dire il vero non mi piacque molto nemmeno il racconto: la storia era accattivante, i personaggi c’erano (anche se tutto sommato già visti). Ma i Pac-man non sono riuscito a digerirli nemmeno su carta…

    1. I Pac-Man pelosi, aggiungerei.
      Che, davvero, la simbologia che sottende a i langolieri è talmente vasta che li si potrebbe rappresentare in ogni maniera possibile. Ma no. Loro hanno fatto le palle pelose zannute.

  3. valeria · ·

    non ho mai visto la miniserie e neanche ci tengo particolarmente, ma so per certo che era da parecchio che non ridevo così tanto. quindi grazie, non solo per la recensione (sempre impeccabile) ma anche per le risate 😀

    1. Guarda, ti confesso che mentre la scrivevo ridevo anche io.
      Certi traumi li puoi superare soltanto ridendo 😀

  4. Temo sia ANCHE per questo che non ne ricordo un singolo fotogramma XD

  5. Ecco che c’era stata la serie sui Langolieri, l’avevo totalmente rimosso

  6. Questo era veramente tremendo. Gli effetti speciali poi… Brr…

    Comunque non ricordavo fosse di Tom Holland!!! Sono allibito!

  7. Giuseppe · ·

    La novella è a tutt’oggi ancora assai degna di essere letta, la miniserie invece è a tutt’oggi ancora molto poco degna di essere vista: ulteriore riprova che il pieno controllo del Re sulla trasposizione (sbagliata proprio perché letterale, nel vero senso della parola) delle proprie opere NON porta esattamente a dei buoni risultati… qui, poi, ci è stato negato anche il contentino di vedere almeno i Langolieri resi in maniera decente (e CREATIVA, sì, provando magari a usare un briciolo di quell’immaginazione con la quale noi lettori ce li figuravamo come qualcosa di più che semplici palle pelose zannute) 😦

    1. E comunque dei soldi sopra ce li hanno anche spesi. Ma il problema principale è che non puoi tirare fuori tre ore da una novella. È assurdo.

  8. Luca Bardovagni · ·

    Tuo babbo era un gran FIGO.
    Punto e capo.
    I Langolieri sono una roba che sarebbe piaciuta a coloro che oggi si chiamano fandom.Di King, nel caso. Cui sono grato. E che disgusta chiunque ami il cinema.

    1. Sì, mio babbo era un gran figo, da tutti i punti di vista.
      I Langolieri piace a quelli fissati con la fedeltà assoluta al testo, quelli che dicono sempre che era meglio il libro, ma soltanto perché loro non vogliono che venga modificata neppure una virgola, mica perché il libro era meglio veramente.