Regia – Jeremy Dyson, Andy Wyman (2018)
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci che hanno fatto parecchia confusione durante la promozione del film: Ghost Stories non ha nulla, e quando dico nulla, intendo davvero nulla, a che spartire con i vecchi film a episodi della Amicus usciti tra il 1965 (anno di Le Cinque Chiavi del Terrore) e il 1974, quando La Bottega che Vendeva la Morte chiude, di fatto, la stagione delle antologie targate Amicus. Si vuole rifare a quella tradizione nominalmente, perché è un film britannico e, sempre solo nominalmente (vedremo poi perché), diviso in tre segmenti con una cornice in comune. Ma le somiglianze si fermano qui: non ci sono né la stessa atmosfera né la stessa ricercatezza formale che fece delle piccole produzioni Amicus delle vere e proprie perle di assoluta bellezza.
È un omaggio, certo, ma non vi è alcuna intenzione di ricreare quello stile particolarissimo (poi magari un giorno li analizziamo uno a uno, gli antologici Amicus); semmai, si strizza l’occhio all’horror americano di stanza Blumhouse, che non è per forza una cosa cattiva, anzi. Però, ecco, il pubblico andrebbe avvisato di ciò a cui sta andando incontro.
È difficile parlare di Ghost Stories senza rivelare dettagli importanti che ne inficerebbero la visione, però prometto di stare attentissima a non dire nulla di essenziale, a parte alcuni brevi cenni sulla trama: il professor Goodman (Andy Wyman) ha dedicato la vita a smascherare falsi medium e a dimostrare l’inesistenza di qualsivoglia fenomeno soprannaturale; viene contattato da un suo collega, più anziano di lui e scomparso misteriosamente anni prima, una sorta di modello professionale per Goodman, che gli presenta tre casi a cui non è mai riuscito a trovare alcuna spiegazione razionale, e su cui il professore dovrà indagare.
Ecco i tre episodi di cui si compone il film, tre cortometraggi che proprio cortometraggi non sono, in quanto non possiedono autonomia narrativa rispetto alla cornice. E già che ci siamo, la cornice è il film, non è una semplice cornice, il che ci porta subito a distanze siderali sia dai prodotti Amicus che dalle recenti antologie horror uscite negli ultimi anni come, per esempio, Southbound.
Certo, le tre storielle inserite nel film hanno un senso ben preciso, ma solo se relazionate alla vicenda principale, che è quella del professor Goodman e del suo scetticismo.
Delle tre, la migliore è la seconda, interpretata dal sempre bravissimo Alex Lawther, e funziona così bene che se ne vorrebbe di più, magari un intero lungometraggio dedicato a questo ragazzino, alla strana entità che lo perseguita, alla sua famiglia un filino oppressiva e alla sua ossessione per l’esoterismo.
La prima è la più classica di tutte, nonché quella che si poggia in misura maggiore su una sfilza di jump scares uno dietro l’altro, neanche fosse un film di seconda fascia per la sezione DTV della Blumhouse. Però rimane, nonostante questo, molto godibile, soprattutto per l’ambientazione e per gli ultimi minuti, davvero spaventosi.
Il terzo segmento è quello di cui si può parlare meno, tanto è intrecciato con la linea narrativa principale. È sempre divertente vedere Martin Freeman, e guardarlo alle prese con un presunto poltergeist lo è anche di più. Ma spingermi oltre vorrebbe dire entrare nel campo minato degli spoiler.
Wyman e Dyson hanno tratto Ghost Stories dalla loro opera teatrale omonima, curandone regia e sceneggiatura. Entrambi hanno una carriera soprattutto televisiva e Wyman (vi ricordate quel capolavoro di Dead Set?) è un faccia conosciuta a chi segue parecchie serie inglesi. Però questa è la loro prima esperienza con il grande schermo e non se la sono cavata affatto male: la confezione di Ghost Stories è curata, la messa in scena più che buona, con qualche guizzo di sorprendente surrealismo nel terzo episodio e una certa aura sinistra nel secondo che mi ha fatto accapponare la pelle (vedere, per esempio, tutta la parte ambientata in camera del ragazzo). Il problema principale del film risiede nel fatto che fa paura quando non succede niente, perché ogni volta che deve spingere sull’acceleratore, si adagia sui jump scares in modo troppo pigro per un’opera che avrebbe ambizioni un po’ più elevate del solito e, credetemi, le ambizioni ci sono, vengono fuori tutte nel finale, ma se ne coglie la presenza tramite piccoli indizi sparsi lungo tutto il corso del film, che non sfuggiranno a un occhio un minimo attento.
Ecco, Ghost Stories sembra avere due anime: la prima è quella dell’horror contemporaneo canonico, con tutti i suoi salti sulla sedia, le apparizioni improvvise, l’atmosfera da luna park del terrore che è tipica di un certo modo di intendere il cinema da incasso sicuro oggi, il già menzionato metodo Blum, per capirci; la seconda va un po’ più a fondo, o almeno ci prova, cura i particolari, costruisce una storia che è in parte anche interessante ed emotivamente centrata. Non sempre le due anime vanno a braccetto, questo sì, e l’impressione che i tre segmenti che compongono il film siano messi lì un po’ a caso è forte fino agli ultimi venti minuti, in cui torna tutto e tutto diventa all’improvviso coerente.
Alla fine è un interessante compromesso che si lascia guardare che è un piacere, sia che si vada al cinema per i frequenti sbalzi di volume e le facce brutte che appaiono nel buio, sia che ci si vada per vedere un qualcosa di più ragionato e “filosofico”.
Dispiace solo che, con quanto fatto di buono dall’horror inglese negli ultimi quindici anni o giù di lì, anche loro si stiano adagiando su uno stile meno adulto rispetto al solito. Perché Ghost Stories non è affatto il tipico horror britannico. Lo sarà per ambientazione e personaggi, lo sarà per una presunta ripresa dell’antica tradizione dei film antologici (però, lo abbiamo visto spesso qui sul blog, la tradizione era già stata rinnovata ampiamente negli Stati Uniti), ma non lo è affatto per quanto riguarda la realizzazione, che lo rende indistinguibile da altri prodotti simili provenienti da oltreoceano.
Non mi lamento, sia chiaro: il film mi ha divertita e mi è piaciuto e vi consiglio di vederlo in sala, dove è di sicuro più efficace che a casa.
E tuttavia, non solo Freddie Francis, ma anche Neil Marshall e Christopher Smith gioca(va)no in un altro campionato.
Aspettavo un tuo commento su questo film! L’ho visto in sala praticamente senza sapere cosa sarei andato a vedere e sono uscito piacevolmente sorpreso! Gli ultimi venti minuti sono eccezionali, secondo me, ma anche i tre episodi presi singolarmente sono belli e, in certi, momenti carichi di tensione. Unica pecca, i jump scares, come dici te, ma la parte finale si fa perdonare.
Hai notato anche tu un movimento di macchina ispirato a Evil Dead nel secondo episodio? 😅
Sì sì, la soggettiva del demone, o quel che è la cosa che il ragazzo investe 😉
Fantastico 😁
Ecco, questo è parlare chiaro: mi hai avvisato a cosa vado incontro! 😉 Perché sì, in effetti, la promozione del film mi aveva dato l’idea che si giocasse molto più in zona Amicus che non Blumhouse… non che la cosa crei particolari problemi nemmeno a me, alla fine. Solo che le mie aspettative si erano ormai modellate su di un prodotto completamente british (ci si riferisse in tal senso sia al “vecchio” Francis antologico che ai contemporanei Smith e Marshall, appunto) quando invece questo risulta esserlo soltanto in superficie, ragion per cui mi toccherà approcciarmi al tutto con un entusiasmo non dico minore, no, ma sicuramente diverso da quello iniziale.