Regia – John-ho Bong
“Pensavo fosse la mano di Hyun-seo!”
Non pensavo che The Host l’avrebbe spuntata, anche se tifavo per Bug e sapevo che non aveva alcuna possibilità di vincere, già vedevo Silent Hill prendersi la maggioranza dei voti in scioltezza. E invece no: The Host ha recuperato pian pianino e, alla fine, ha salutato tutti e si è preso il posto che gli spetta di diritto. Dopotutto, se si deve scegliere un horror solo per ogni anno, è giusto scegliere il miglior film di mostri dello scorso decennio. Il mio film di mostri preferito, ve lo dico subito, così sapete già a cosa andate incontro. Io, di questo film, sono innamorata, anche perché mi ha dato l’occasione di conoscere un regista immenso come Bong e di recuperare tutto il recuperabile dalla sua filmografia. Consideriamo poi che dopodomani approderà su Netflix la sua ultima opera, che tante polemiche ha sollevato a Cannes, polemiche non relative alla qualità del film in sé, ma al modo in cui è stato distribuito, e che ricordano con una certa tristezza la diatriba tra ebook e cartaceo. Roba molto sterile, quindi, che ha avuto l’effetto di far passare in secondo piano Okja, ennesimo esempio dell’eclettismo estremo di Bong.
Eclettico, già: come definireste un regista che ha messo la sua firma su commedia, noir, dramma, fantascienza distopica e la sua personalissima rivisitazione del sotto-genere dedicato ai kaiju.
The Host è il terzo lungometraggio di Bong, che arrivava dritto da quel trionfo di Memories of Murder, da cui si porta dietro l’attore principale, Kang-ho Song, una faccia che impareremo a conoscere molto bene seguendo la filmografia del regista coreano, in patria come negli Stati Uniti. Gli viene affidato un ruolo difficile, un personaggio dall’aspetto comico, con una fisicità che ricorda quella del cinema muto, e dall’animo profondamente tragico. Ma è tutto il film a essere così: una sorta di commedia con il mostro, che possiede addirittura qualche elemento farsesco, ma ha la capacità di rivoltarsi contro lo spettatore e di tramortirlo con una carica emotiva e con una cattiveria che ne fanno un’opera originale, piena di sorprese, inaspettata in ogni sua diramazione narrativa.
Comincia in un laboratorio di ricerca americano in Corea, The Host: uno scienziato statunitense obbliga il suo assistente coreano a gettare nello scarico del lavandino il contenuto di diversi barattoli di formaldeide. Tra i due c’è un brave scambio di battute, che ci fa capire dove andrà a finire la sostanza tossica, ovvero dritta nelle acque del fiume Han. Ed è proprio dal letto del fiume che, in una tranquilla giornata estiva, emerge una creatura mostruosa e compie una strage tra le persone che si trovano sulla riva.
Fino a qui è tutto nella norma del classico film di mostri. Ma Bong (anche co-autore della sceneggiatura) imprime subito alla storia una direzione diversa, dandole una dimensione più intima e umana. Invece di concentrarsi sul mostro in sé, di farcelo vedere scatenato per le strade di Seoul e di mostrarci i tentativi delle autorità di metterlo fuori gioco, The Host si occupa esclusivamente delle sorti di una famiglia disfunzionale e sgangheratissima, a cui il mostro ha portato via una bambina: tre fratelli contraddistinti da un’esistenza fallimentare, il loro padre che gestisce col primogenito un chiosco nei pressi del fiume e la piccola Hyun-seo, acciuffata dal mostro e nascosta nelle fogne, per essere usata come riserva di cibo dalla creatura.
In un certo senso, The Host non è tanto un film kaiju (anche perché il mostro è relativamente piccolo), ma uno studio su personaggi problematici e segnati da una sfiga cosmica. Parrebbe una scontata parabola sul riscatto dei perdenti, su quattro disgraziati che arrivano dove l’esercito, il governo e gli americani non riescono ad arrivare, ma è molto meglio di così, perché non c’è un vero e proprio riscatto e la miseria rimane tale e quale, come del resto le scelte sbagliate e gli errori che non possono essere riparati. Fare spoiler sul finale di The Host a chi non ha visto il film sarebbe un crimine punibile con l’ergastolo e quindi mi taccio. Tuttavia, è incredibile come un’opera cinematografica riesca a essere, allo stesso tempo, così empatica e così crudele, così piena d’amore per i propri personaggi e, un paio di scene dopo, così spietata nei loro stessi confronti, come ti porti a fare il tifo per quasi due ore per una famiglia disunita, litigiosa, ridicola e imbarazzante, come ti faccia arrivare a voler bene a ogni singolo componente di questa famiglia e poi ti accoltelli alla schiena.
The Host funziona così: mette al centro della scena dei reietti senza mai trasformarli in eroi, se non quando è troppo tardi. Bisognerebbe studiarsela con attenzione una scrittura simile, non tanto per il modo in cui Bong fa procedere la trama, che una volta accettate le regole del gioco e l’inettitudine unita alla sfortuna dei protagonisti, è di facile lettura (almeno fino agli ultimi dieci minuti, maledetto te), quanto per come viene data vita ai personaggi principali, questi derelitti disposti a dare la propria vita per trovare Hyun-seo, pur non avendo neanche la certezza che la creatura non l’abbia mangiata. Ecco, c’è questa volontà di non cedere mai alla disperazione, di mettercela tutta, avendo a disposizione dei mezzi inadeguati, questo coraggio che scaturisce solo dalla speranza e dall’amore. Nei confronti di Hyun-seo, certo, ma anche reciproco, per quanto dimostrato a suon di improperi e risse.
Nella corsa folle dei tre fratelli e del loro padre per salvare una bambina (che poi è anche la figlia del fratello “scemo”, il protagonista principale, un uomo privo di qualsivoglia attrattiva, che Bong ci fa amare senza condizioni dalla prima volta in cui appare in campo) c’è un afflato umano e sentimentale che si oppone all’autorità e sfonda il muro di indifferenza in cui i personaggi vivono e sono costretti a muoversi.
Non li ascolta nessuno, infatti, nessuno crede loro, perché uno è uno stupido, un altro è un alcolizzato disoccupato e la terza potrebbe essere una campionessa di rito con l’arco, ma la paura la frega sempre al momento decisivo. Per non parlare di quel vecchio rincoglionito del padre. E chi mai farebbe affidamento su quattro personaggi così?
Bong ci farebbe affidamento e noi con lui, pur sapendo che un perdente resta tale e che il riscatto, tipico di molto cinema americano, in questa determinata circostanza non è possibile, e che molto spesso per quanto tu possa davvero dare tutto, il fallimento è lì che ti aspetta e non hai alcuna possibilità di evitarlo; ma è anche vero che, nonostante tutto questo, ci sarà sempre un nucleo forte di persone pronto a fare pazzie al tuo fianco, pronto a crederti quando nessuno ti crede, pronto a sperare accanto a te, anche al di là della ragione, che quella bambina la cui mano ti è sfuggita durante l’attacco della creatura al fiume, sia ancora viva.
E poi sì, quasi dimenticavo, c’è il mostro, che è una lezioncina interessante per tutti i detrattori degli effetti in post-produzione di questo mondo: è infatti tutto animato in CGI e funziona egregiamente anche perché Bong, di nuovo in controtendenza con la regola classica che vuole il mostro visibile il minimo indispensabile, ce lo fa vedere subito in pieno giorno, in movimento e a tutto campo. Certo, si nota che il film ha undici anni sulle spalle e, ogni tanto, l’effetto digitale in sé risulta un po’ posticcio, ma la creatura vanta comunque una fluidità di movimento e un’interazione con gli “umani” presenti sul set davvero impressionanti. La sua prima apparizione meriterebbe di finire dritta negli annali della storia del cinema, con quel piano-sequenza vertiginoso che ci porta dalla riva del fiume alla strada seguendo la corsa del mostro e il suo travolgere tutto ciò che gli si para davanti.
Il cinema di genere, quando è fatto in questo modo, ti riscatta da tutte le pessime visioni della tua vita. Quando tutto si concilia in un’unica pellicola, spettacolo, emozioni, intelligenza, tecnica e stile, capisci per quale motivo stai perdendo da sei anni ore e ore del tuo tempo a farneticare di horror e affini su un blog: per fare in modo che film come The Host vengano visti e amati anche da altri.
Per il 1927 abbiamo due soli film, uno dei quali anche di un regista già “usato”. Ma per l’epoca del muto è già un mezzo miracolo che sia la prima volta che accade. Non avete quindi molte opzioni tra cui scegliere: Lo Sconosciuto, di Tod Browning e The Cat and the Canary, di Paul Leni.
Capolavoro! ma poi il seguito di cui tanto se ne parlava, non è più stato fatto?
Lo vidi tempo fa in TV, con i miei genitori, lì per lì non era sembrato un granché, ammetto però che mi piacque e qualcosa dentro mi ha lasciato. Evidentemente ha catturato anche i miei, e dico solo ce ne vuole per fargli piacere un film di mostri! Devo assolutamente riguardarlo, chissà che ad anni di distanza dalla prima visione non diventi uno dei miei personali cult… 😍
Ho apprezzato The Host da subito.
Il mio voto va a The Cat and Canary
Un film splendido in cui tutto funziona, dal mostro (anche tenendo conto, ovviamente, dei progressi fatti dalla CGI negli anni successivi) alla famiglia disfunzionale sì, ma capace di una tale umanità, speranza e solidarietà quali difficilmente ne avremmo trovate seguendo i binari del classico riscatto all’americana…
Voto anch’io per The Cat and Canary
Non esiste un monster movie come questo. Nel suo genere è unico, non ha rivali.
“The Host” è veramente splendido, ma tutta la filmografia del regista coreano andrebbe recuperata al volo. Forse oscurato da noi dall’enorme successo di Park Choon Wok e del suo Old Boy, ma Bong ha veramente realizzato pellicole di grandissimo valore, senza contare che anche quando si è ritrovato alle prese con un blockbuster americano non ha comunque ceduto di un passo rispetto al suo modo di fare cinema, mi riferisco a “Snowpiercer” ovviamente. Ad ogni modo il suo film che preferisco rimane “Memories of Murder”.
Perché qui in Italia siamo in grado di apprezzare un regista coreano alla volta 😀
Snowpiercer è un film meraviglioso che non è piaciuto a nessuno, neppure a molti fan di Bong e io faccio fatica a capire perché.
Io non fatico, perchè quando c’è un fumetto di partenza tutti diventano “salvatori della patria e del verbo perduto”. Quindi appena la trasposizione differisce un pochino allora si affossa tutto, non si riesce più a godersi lo spettacolo offerto da una fruizione diversa che ha logiche narrativi di altro stampo. Bong in “Snowpiercer” è persino stato in grado di far recitare Evans in modo credibile, alla Marvel gli nascondo la faccia sotto ad una maschera, non so se mi spiego.
Un signor film! Bellissima recensione, hai dato la giusta attenzione a una pellicola di questo livello!