Bisogna sempre fidarsi delle persone che ti conoscono bene, perché raramente sbaglieranno a darti un consiglio. La mia amica Kara Lafayette mi ha consigliato di vedere la serie tratta dall’omonimo romanzo di Dick infinite volte e io avevo sempre qualche motivo per non darle retta, non per qualche resistenza dovuta alla mia affezione nei confronti del libro: l’ho letto molti anni fa, non lo ricordo nei dettagli e cerco, comunque, di mantenere sempre un atteggiamento piuttosto laico di fronte a queste operazioni. No, il motivo per cui non le ho dato subito retta è che l’ucronia di Dick (forse la più famosa ucronia di sempre) mi spaventa a un livello del tutto irrazionale e viscerale e vedere una serie tv dove i nazisti hanno preso il potere e lo mantengono da padroni assoluti del mondo rischiava di farmi venire gli incubi.
Spolier: gli incubi sono arrivati a partire dalla seconda puntata della prima stagione.
Per chi fosse precipitato sulla terra solo un paio di giorni fa e non sapesse di cosa sto parlando, lo scenario di romanzo e serie tv è (quasi) identico: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalle potenze dell’Asse che, tra le altre cose, si sono spartite gli Stati Uniti, ora divisi tra le colonie del grande Reich nazista e gli Stati Giapponesi del Pacifico. In mezzo, le montagne rocciose fungono da zona neutrale e cuscinetto tra le due potenze, intente a guardarsi in cagnesco. A parte questo spunto iniziale e un paio di personaggi ricorrenti nel romanzo e nella serie, le due opere differiscono profondamente e, ve lo assicuro, la cosa non è affatto un male, perché il testo di Dick non ha proprio le caratteristiche adatte a essere trasposto su carta in maniera fedele. Quello che conta, ai fini della riuscita del suo nipotino televisivo, è che sia rimasto intatto l’enorme lavoro nella costruzione di un 1962 alternativo e che anzi sia stato addirittura migliorato, in virtù di quella capacità, che appartiene solo al racconto per immagini e di cui parlavamo l’altro ieri, di creare mondi senza aver bisogno delle parole. Che voi direte: “E grazie al cazzo, Lucia, si chiama racconto per immagini”. Sì, ma sapete meglio di me quanto spesso le immagini siano soverchiate e soffocate dallo spiegone. Cosa che, in The Man in the High Castle non succede mai.
E ci vuole un’abilità molto particolare per presentare un contesto così complesso senza usare neppure una didascalia o un dialogo esplicativo. Se si escludono un paio di scritte che identificano i luoghi dove si trovano i personaggi, lo spettatore viene gettato brutalmente e senza alcuna rete di protezione in un mondo di cui non conosce le regole.
Certo, se si conosce il romanzo si è in parte agevolati, e aiuta ancora di più la splendida sequenza dei titoli di testa, che presenta la nuova situazione geo-politica in maniera poetica e, allo stesso tempo, chiarissima. Ma, se si è a digiuno della materia, dai primi minuti del primo episodio si esce un po’ frastornati. Che, ci tengo a dirlo, non è un difetto ma il suo esatto opposto. Lo scenario viene infatti alla luce gradualmente, con tutto il suo (per noi) assurdo sistema di valori e, anche quando la trama principale del film si trova a buon punto, continuano a essere aggiunti dettagli che arricchiscono l’ambientazione e la rendono credibile e viva. Ma, per fare questo, era necessario che venisse presentata a noi che guardiamo come un dato acquisito e quindi mai del tutto spiegato.
Per dire, sarebbe stato facile introdurre la serie con un flashback della guerra o con delle scritte che raccontavano, per sommi capi, della vittoria di nazisti e giapponesi sugli Alleati. La scelta di non prendere la strada più semplice si è rivelata non solo coraggiosa, ma azzeccatissima, perché a ogni episodio apprendiamo qualcosa di nuovo su un quadro generale che è passibile di essere ampliato a dismisura. E lo apprendiamo sempre tramite la messa in scena e i suoi elementi, mai tramite un qualunque tipo di mossa esplicativa da parte degli sceneggiatori. È magistrale in questo senso la sequenza dove uno dei personaggi buca una gomma del camion che sta guidando e, quando scende per cambiarla, si accorge che dal cielo sta piovendo della cenere. Ma si tratta solo di un piccolo esempio: ce ne sono a carrettate di momenti così, anche gestiti meglio, solo che sarebbe un delitto raccontarli a chi ancora non ha avuto la fortuna di assistervi.
L’impostazione generale, tuttavia, non è sufficiente per fare una grande serie. È fondamentale, ma da sola non può reggere le finora 20 puntate di The Man in the High Castle e se l’idea ucronica e tutto ciò che ne consegue derivano dal romanzo di Dick, gli sceneggiatori vi costruiscono attorno una trama completamente autonoma e originale, che tiene incollati allo schermo come una spy story e, mentre intrattiene alla grande, riesce anche a porre parecchi dilemmi morali laceranti e molto attuali. Il canovaccio principale su cui si basa l’intreccio della serie è quello tipico dei vecchi film di spionaggio della guerra fredda, solo che non abbiamo a che fare con Stati Uniti e Unione Sovetica: a guardarsi in cagnesco dopo essersi spartiti il mondo sono i due grandi imperi, quello nazista e quello giapponese e questo porta a un’evoluzione dei fatti differente e alternativa a quella reale, ma con dei punti in comune. Un misto tra minacce e diplomazia, con agenti sotto copertura da entrambi i lati che cercando disperatamente di evitare un nuovo conflitto mondiale, mentre i rispettivi leader si fanno sempre più aggressivi. Il divario tecnologico tra un’avanzatissima Germania e un Giappone che ancora non ha la bomba atomica rende i rapporti molto sbilanciati e, mentre Hitler diventa sempre più anziano e malato, i suoi eventuali successori complottano per realizzare l’incubo nazista su scala mondiale, un incubo che passa, per forze di cose, dall’annientamento dell’alleato inferiore da un punto di vista non solo economico e tecnico, ma anche culturale e soprattutto razziale.
A questa situazione sull’orlo della fine del mondo, vanno aggiunte le azioni di disturbo della Resistenza, formata da sparuti gruppuscoli di ribelli sempre più isolati e indeboliti dalla repressione delle polizie politiche attive nei due imperi, e la cui unica speranza sembra essere costituita da una serie di filmati attribuiti al Man in the High Castle del titolo e che propongono una versione diversa della storia, passata, presente e futura. Ai lettori del romanzo non sarà sfuggito che gli sceneggiatori hanno preferito utilizzare la macchina propagandistica cinematografica al posto del libro messo da Dick al centro della sua opera. È una scelta che mi sento di sposare in pieno perché tiene conto dell’enorme potere delle immagini e del cinema come strumento di persuasione delle masse, una cosa che gente come Goebbels aveva capito molto bene. Infatti, quando si parla dei filmati messi in giro dall’Uomo nell’alto Castello, il paragone che viene spontaneo ai gerarchi nazisti operanti su suolo americano è quello con Leni Riefenstahl.
Propaganda raffinatissima quindi, spionaggio da spettro atomico, agenti che fanno il doppio gioco, ministri che collaborano con il nemico, alti gerarchi che cospirano per uccidere il Führer, una rete fittisima di infiltrati, traditori, sicari, cacciatori di taglie per una vicenda che è un affresco di storia alternativa estremamente complesso e stratificato, ma anche un’appassionante vicenda umana.
Perché, se a un primo livello colpisce la grandiosità della rappresentazione ucronica, curata nei minimi dettagli, e a un secondo livello intrattiene la storia di intrighi politici e ribellione, la serie ha anche un livello più profondo che riguarda i personaggi, le interazioni tra loro e il rapporto che instaurano con un sistema di valori tutto sballato, ma consolidato e, agli occhi di chi ci è nato e cresciuto, l’unico possibile.
Come al solito, a rappresentare il vero centro di interesse di un racconto sono le scelte degli individui, e come essi subiscono la storia, partecipano a essa, se ne fanno artefici, ne diventano vittime o complici. Di ogni personaggio coinvolto in questa monumentale ricostruzione di un’epoca mai esistita si porta alla luce l’umanità, cosa abbastanza semplice quando si tratta di mettere in scena un membro della resistenza, un po’ più complicata quando invece a essere ritratto è un gerarca nazista, o la sua famiglia dedita a una nazi american way of life da brividi lungo la schiena, proprio perché, a differenziare la loro vita da una qualunque famiglia americana vista decine di volte in altri telefilm e film, sono solo le svastiche sulle bandiere esposte nei giardini delle villette. Questo, oltre a dare parecchio da pensare, rispetta lo spirito originale del romanzo in maniera profonda ma non pedante.
Un cast davvero eccellente e una regia molto cinematografica completano il quadro di una serie sta passano inosservata, forse perché è troppo complessa, troppo impegnativa da seguire. Però voi seguite il mio consiglio, come ho seguito io quello di Kara. Se siete abbonati ad Amazon Prime, ve la potete vedere gratis in streaming. Fateci un pensierino: ne vale la pena.
Diffondiamo! Diffondiamo!
Noi ci proviamo, ma non la cagano lo stesso 😀
Premetto che non ho mai letto il libro (mancanza a cui dopo aver dato uno sguardo alla tua recensione credo colmerò abbastanza celermente); per chi non è abbonato a amazon prime c’è qualche possibilità di vedere questa serie???
E’ una serie molto bella, spero qualche cristiano la faccia doppiare in italiano quanto prima e la trasmetta in Italia.
Per ora, ci si “accontenta” dello streaming
On line si trova anche doppiata 🙂
Sì, l’abbonamento a Prime è come quello con Netflix: i telefilm e i film li puoi vedere doppiati o in originale.
Merita.
Altra serie interesting, diciamo teutonica anch’essa, è Deutchland 83
Sembra molto bella, credo che comprero’ prima cosa il libro (o sono più libri?) che in termini di tempo sembra meno impegnativo di una serie. Cmq grazie per questa recensione.
Allora visto che il libro si IBS era dato non disponibile ho cercato la serie e mi sono vista la prima puntara con mio marito ! Molto intrigante! Grazie x la segnalazione.
Figurati! Grazie a te per il commento.
Comunque il romanzo è uno solo, lungo, ma per fortuna unico. Niente saghe infinite 🙂
Sono quasi alla fin della prima serie, mi piace tantissimo, e trovo che non sia,affatto pesante da seguire, certo, richiede un minino di attenzione, non è come guardare The big bang theory, ma non è nemmeno cosi pesante, gli episodi sono molto scorrevoli, gli attori sono eccezionali, la trama appassionante, poi amo l’ambientazione, questi anni 60 cosi diversi da come sono stati in realta’, cupi e senza minigonne…..insomma grazie x averne parlato!
PS Joe mi fa preoccupare.
A me Joe più che preoccupare fa incazzare a morte. 😀
Sono contenta che ti stia piacendo!