“Ciao zia Sara!”
Fece un cenno di saluto e sorrise. Aveva dimenticato a casa la lavagnetta. Se ne era accorta quando era arrivata circa a metà dei gradini. Aveva anche pensato di tornare indietro, ma la sola prospettiva di risalire era sfiancante.
Mostrò al ragazzo le mani vuote e lui annuì.
Era appena sceso dal gozzo ormeggiato sul molo. Si accese una sigaretta con lo Zippo che gli aveva regalato lei l’anno prima. Con la vecchia cerata verde addosso e i capelli scompigliati dal vento, assomigliava in modo impressionante a Ilio da giovane.
“Non fa troppo freddo per una passeggiata?”
Sara alzò le spalle. Aveva voglia di camminare un po’ prima che il sole tramontasse. Le giornate si stavano allungando e per lei quel momento di passaggio tra l’inverno e i primi, timidi cenni di primavera, era sempre come l’uscita da una caverna oscura.
Anche l’odore dell’aria cambiava, quasi che il gelo avesse trattenuto e cristallizzato il mare, imprigionandone il profumo, e ora tornasse a rilasciarlo.
Sara respirò a fondo.
Il nipote di Ilio finì la sigaretta e poi prese la pompa dell’acqua da una delle manichette disposte lungo il pontile, girò il rubinetto e si mise a sciacquare la sua barca.
Sara lo salutò con un gesto della mano e si incamminò verso la piazzetta.
Passò davanti a un negozio di articoli di pesca e subacquea che era lì da quando lei era bambina. La pizzeria adiacente invece era chiusa e non aveva più riaperto.
C’era ancora un pezzo di insegna sbiadita e l’ingresso era sbarrato da una saracinesca storta e macchiata di ruggine.
L’estate prima, dopo tanto tempo, il paese era tornato a riempirsi di gente in vacanza.
Era stato un processo graduale, durato molto a lungo. Il tempo che le persone riprendessero confidenza col mare e smettessero di avere paura.
Un anno erano apparsi alcuni coraggiosi che si erano spinti vicino alla riva, tempo dopo, qualcuno era riuscito a entrare in acqua, l’anno dopo ancora, un paio di famiglie che venivano lì da sempre avevano aperto gli ombrelloni sulla spiaggia.
A Sara piaceva vedere Porto Ercole affollata. Le piacevano le insegne luminose dei bar e dei ristoranti, le bancarelle la prima domenica di ogni mese sul lungomare. Era contenta di vedere i bambini in coda alla gelateria.
E pensare che da ragazza le dava fastidio il pensiero di essere obbligata a condividere il suo posto con chi non lo conosceva e amava quanto lei.
Solo che adesso il silenzio la faceva sentire esposta e indifesa, forse perché nel silenzio ci viveva e la confusione estiva di centinaia di bocche che parlavano tutte insieme le rendeva più sopportabile il mutismo della sua.
E in quel rumore le pesava meno ricordare. O meglio, poteva fermarsi a quando anche lei era uno di quei bambini in fila, o girava la sera per il porto, o passava i pomeriggi di brutto tempo nella sala giochi di Piazza Roma, a battere i record di Ilio a Mortal Kombat, che molto probabilmente non esisteva più da mezzo secolo o giù di lì. Oppure era arrivato, una versione dopo l’altra, al numero 346.
Quando invece il paese era deserto, spoglio e freddo, erano i brutti ricordi a venire a galla. E una volta emersi, era quasi impossibile che la lasciassero in pace.
L’esercizio costante per tenere desta la sua memoria aveva i suoi lati negativi. Come avere uno schermo nella testa che proiettava centinaia di volte sua madre mentre scendeva dalla nave cargo ormeggiata a Civitavecchia e si girava per dirle ciao, e Sara ricambiava il saluto affacciata sul ponte di poppa, senza avere la più pallida idea che non l’avrebbe più rivista.
Avrebbe voluto dire a quella ragazzina così giovane di staccare i gomiti dalla ringhiera e non lasciare che sua madre andasse via, di raggiungerla, tornare a casa insieme a lei.
E ogni volta, invece, la ragazzina rientrava in cabina e si andava a sdraiare sul letto con le mani incrociate dietro la testa, a fissare il soffitto e a pensare alle domande che le avrebbero fatto alla riunione del giorno successivo, tutta presa dall’ansia di dover incontrare lo staff di Florenzi.
Non lo aveva capito subito, di essere trattenuta lì contro la sua volontà. Nessuno glielo aveva detto, neanche sua madre, che prima di andarsene aveva avuto un colloquio con Florenzi e il generale di circa un paio d’ore.
Era maggiorenne, aveva un brevetto da istruttore. Era arruolata. Come suo padre, partito qualche settimana dopo.
E come anche sua madre, se fosse sopravvissuta abbastanza a lungo. Se non si fosse messa a fare casino per tirarla fuori di lì.
Tutte cose che Sara avrebbe saputo solo dopo.
Si diresse verso una delle panchine che costeggiavano il molo di cemento e sedette, lo sguardo rivolto al mare, il mento appoggiato sul dorso delle mani intrecciate sul manico del bastone.
Quattro sommozzatori morti. I primi di una lunga serie di cadaveri di cui portava addosso il peso.
Ed era ancora troppo piccola.
Crescere, maturare, diventare adulti e consapevoli. Non era vero niente. Si invecchiava e basta. E si era sempre troppo piccoli.
“Tieni, ragazzina” le aveva detto il colosso con cui aveva diviso i crackers a bordo del motoscafo, calandole sulla testa un capello di almeno due o tre misure più grande “Fai parte della Marina Militare, adesso.”
Ricordava la scena, ricordava le risate degli altri sub, e ricordava la visiera che le era scesa sugli occhi. Ma non riusciva a inquadrare il momento esatto in cui era accaduto. Il quando le sfuggiva. Mentre era molto facile ricreare la sensazione rassicurante e piacevole di sentirsi parte di qualcosa. Anche se solo per scherzo. E il sollievo perché gli altri sub non ce l’avevano con lei, non le davano la colpa di quello che era successo come invece aveva fatto Florenzi.
Sì, doveva essere stato subito dopo la riunione. Si era chiusa la porta alle spalle, era stata investita dalla solita e ormai familiare zaffata di nafta e puzza di chiuso ed era uscita all’aperto cercando un po’ d’aria.
Aveva trovato il gruppo di sommozzatori sul ponte e si era fermata, abbassando la testa e guardandosi le punte delle scarpe da ginnastica. Si vergognava.
Poi il gigante, che si chiamava Carlo, adesso ricordava anche questo, le aveva offerto la lattina di coca cola che stava bevendo e l’aveva presentata ai suoi compagni.
Si era sentita un po’ meno sola. Almeno per quel giorno.
“Allora, ragazzina, ce lo dici cosa vogliono da te tutti quanti?”
Salti temporali in un capitolo pervaso di malinconia della memoria, da leggersi con Terry Reid come adeguata colonna sonora, con frecciatine ironiche -sull’ultima futura versione di Mortal Kombat 😀 – e lampi di tristezza da stringere il cuore (il distacco definitivo dalla madre)…in più, mi sembra giusto sottolineare il sano cameratismo dei sub nei confronti di Sara che -per contrasto- mi rende il Florenzi ancora più stronzo di quanto già non sembrasse l’ultima volta… 🙂
P.S. La frase sul crescere e maturare sarebbe da incidere nel bronzo con lettere d’oro 😉
Ehh, quella frase mi ronza in testa da parecchio 😉
E il fatto che tu conosca il buon Terry mi rende davvero felice