Pillole di Addio al 2025

Chiudiamo l’anno con le Pillole, perché oltre ai bilanci e alle classifiche, è anche tempo di recuperare le ultime cose prima di passare all’horror che ci aspetta nel 2026. Sì, sto preparando il consueto post e sì, arriva venerdì, quindi state tutti pronti con il blocco degli appunti che non sarà una cosa breve.
Oggi, invece, la facciamo abbastanza facile, anche se estremamente variegata, com’è consuetudine delle Pillole. Abbiamo campioni d’incassi, minuscole opere prime indipendenti, horror comedy erotiche, e persino un regista nominato all’Oscar, tutti qui per allietare il vostro lunedì.
È stato un anno intenso per il nostro genere preferito, intenso e super affollato, e continua a rigurgitare roba praticamente ogni giorno. Star dietro a questa valanga non è semplice, ma ci si prova.

Cominciamo con il film più famoso del mucchio, il sequel di quel fenomeno di Five Nights at Freddy’s che, nel 2023, ha sbancato i botteghini. La vostra affezionatissima era andata a vederlo in sala, perché figuriamoci se io non dono il mio obolo alla causa della Blumhouse. Solo che è successo un piccolo pastrocchio: comincia il film e dopo circa una quindicina di minuti, il proiettore si mette a funzionare male. Luci accese in sala, intervento del tecnico, calibrazione della macchina e si riparte. Il film riprende dall’inizio e, questa volta, passano venticinque minuti prima che una chiazza verde appaia sulle facce degli attori. Ve la faccio breve: questa cosa si verifica per tre volte, prima che ci mandino a casa con un biglietto omaggio. Io ormai conosco l’inizio di Five Nights at Freddy’s 2 meglio di me stessa, ma se non altro il 1 gennaio andrò a vedere gratis No Other Choiche.
In ogni caso, l’obolo alla Blumhouse l’ho dato e, ora che il film è disponibile in digitale, ho finito di vederlo che ero pure rimasta appesa.
Come il primo, mi ha moderatamente divertito e l’ho trovato molto tenero e calibrato con precisione millimetrica sul suo pubblico di riferimento. Forse addirittura troppo, perché se Five Nights at Freddy’s poteva anche essere visto senza troppi problemi da chi non conosce i videogiochi, il suo sequel rischia di restare una materia oscura per i profani, come la sottoscritta. Non è tanto un problema legato al fatto di perdersi per strada riferimenti ed eastern eggs, è proprio la presenza di elementi del racconto che vengono dati per scontati, come se ogni persona sulla faccia della terra sapesse tutto del materiale di riferimento. Inoltre, il primo film aveva delle idee narrative sue; questo non ne possiede neanche mezza.
Emma Tammi è sempre molto brava, gli attori sono tutti in gamba e c’è un vero e proprio affollamento di facce e voci note agli amanti dell’horror (come ha detto una mia amica, ormai vedo più McKenna Grace di mia madre); il lavoro sugli animatroni eccezionale, quindi non è un brutto film, è soltanto un’operazione calibrata su misura su una fascia molto specifica di spettatori e, con tutto il rispetto, Scott Cawthon non è uno sceneggiatore. Da portarci comunque i piccoli di casa perché per loro sarà uno spasso.
Per genitori rassegnati e bambini mai cresciuti.

Cambiano decisamente atmosfera, intenzioni e spettatori di riferimento, e dedichiamo qualche minuto a un film minuscolo, arrivato da pochissimo sulla piattaforma di noleggio digitale di Letterboxd.
It Ends è l’esordio di Alex Ullom, un regista che dalle foto pare avere circa dodici anni (è un’iperbole, ovviamente, ma è davvero tanto giovane) e che, con quattro attori, un paio di automobili e una strada nei boschi mette in scena una crisi esistenziale in forma di horror on the road.
Horror poi non è forse neppure l’etichetta più adatta per questo film così strano e, mi si perdoni il termine, rarefatto.
Racconta di un gruppo di amici sulla ventina che, dopo una serata passata insieme, dovrebbero raggiungere l’autostrada tagliando per una scorciatoia in mezzo al bosco. Solo che la strada su cui si ritrovano non ha alcuna uscita, prosegue dritta, sempre identica a se stessa e non pare esserci una fine. La benzina della macchina non finisce, loro non hanno fame o sete, neanche sento la necessità di fare pipì. L’unica cosa che cambia è il numero dei chilometri percorsi.
C’è qualcosa nel bosco che li insegue, e infatti per gran parte del film, non possono scendere dall’auto se non per pochi minuti, ma anche quel fattore va scemando con l’avanzare del minutaggio e l’aumentare dei chilometri. Non esiste alternativa se non andare avanti, continuando a guidare a turno, mentre i giorni e le notti si susseguono e qualcuno di loro sceglie di restare nel bosco ed essere lasciato indietro. 
Non c’è una spiegazione vera e propria per quanto capita ai ragazzi protagonisti, ed è abbastanza chiara la metafora sulla monotonia, la sconcertante, e spesso sconfortante, apatia della vita adulta. Ognuno dei quattro affronta questo evento inspiegabile a modo suo, ma il film non ne mette mai in discussione l’ineluttabilità. 
Come dicevo prima, non saprei se è proprio un horror. Di sicuro è una situazione da incubo, ma ciò che la rende davvero atroce è il fatto che, dopo un po’, diventi normale. 
Per chi ancora vaga smarrito sul crinale del passaggio all’età adulta.

Dopo tanto orrore esistenziale, ci meritiamo qualche risata con Bone Lake, diretto da Mercedes Bryce Morgan e fatto passare, sin dai primi poster, per un horror erotico. Vi avviso subito che non lo è, così vi mettete tranquilli. Sicuramente l’erotismo (o l’assenza di esso in una relazione stabile) è una componente di un film di sicuro gradevole, ma un po’ troppo timido per graffiare davvero.
I protagonisti di Bone Lake sono Diego e Sage (Maddie Hesson), coppia inossidabile vista da fuori, ma piena di crepe all’interno. I due hanno affittato una casa sul lago per un fine settimana e, quando arrivano, si accorgono che c’è stato un disguido con le prenotazioni. Sì, proprio come in Barbarian. Arriva infatti un’altra coppia che afferma di aver affittato la stessa casa per gli stessi giorni. Ai nostri non resta che dividere il posto, molto grande, con i due sconosciuti, entrambi bellissimi e disinibiti.
Quello che accadrà durante la forzata convivenza è materia di spoiler, ed è anche divertente, soprattutto negli ultimi venti minuti, quando ci si ricorda che si sta guardando un horror e il sangue comincia finalmente a scorrere.
Bone Lake funziona come una commedia sentimentale un po’ più sopra le righe della media, ha i suoi momenti esilaranti e alcuni dialoghi scritti con intelligenza. Tutto sommato, si lascia guardare e scorre bene. Resta tuttavia un pizzico di rimpianto perché, alla fine, è una mezza occasione sprecata. Invece di picchiare sul lato grottesco delle relazioni, sui desideri repressi, su una sessualità non convenzionale, Bone Lake si adagia nel caldo abbraccio delle certezze eteronormative. Non picchia mai duro, quando sembra che stia per diventare davvero sfrenato, ecco che rallenta e torna a scodinzolare come un cucciolo innocuo, quando poteva essere una belva feroce e assetata di sangue. Fosse stato un po’ più gay e un po’ più gore, staremmo parlando di uno dei film migliori dell’anno. Così, è soltanto un simpatico giocattolino.
Per chi vuole scandalizzare la mamma, ma non troppo. 

Chiudiamo, al solito, con una discreta bombetta arrivata zitta zitta dal circuito festivaliero. Per capire in cosa ci stiamo andando a cacciare, se decidiamo di vedere In Our Blood, dobbiamo spendere due parole sul suo regista, Pedro Kos. Si tratta di un documentarista con all’attivo una filmografia abbastanza nutrita, e con la già menzionata nomination all’Oscar, qui alla sua prima opera di finzione. Indovinate cosa ti va a girare il buon Kos? Esatto, un found footage. Sulla tassonomia di In Our Blood potrebbe esserci qualche piccola discussione, perché alcuni potrebbero definirlo mockumentary, se non fosse che non lo è; è, al contrario, il racconto delle riprese di un documentario, non il documentario stesso, e di conseguenza è un found footage, perché abbiamo tutto il materiale a disposizione, non un montaggio fatto a posteriori.
Kos è stato nominato all’Oscar per Lead me Home, del 2021, un corto-documentario sui senza tetto negli Stati Uniti, e non è un dettaglio di secondaria importanza, dopo aver visto In Our Blood.
La storia è quella di una giovane regista, Emily (Brittany O’Grady), che torna nella sua città natale, Las Cruces, in New Mexico, per rivedere la madre dopo tanti anni. Decide di filmare questo ricongiungimento e si porta dietro l’operatore e amico Danny.
Sua madre è una ex tossicodipendente che afferma di essersi disintossicata e ora lavora in un centro di recupero, che dà rifugio e assistenza a chi non ha una casa e ha problemi mentali o di alcol e droga.
Dopo un primo, difficile incontro, la donna scompare e il documentario diventa la ricerca da parte di Emily della madre, e la scoperta di cosa lei facesse davvero, di cosa lei fosse davvero.
Non vi rivelo qui l’essenza horror del film, anche se dal titolo dovreste averla intuita, ma non è poi così importante, perché In Our Blood è un viaggio, dall’impatto emotivo violentissimo, nei meandri di una zona degli Stati Uniti dimenticata e lacerata da conflitti, dove le autorità non mettono piede e i più fragili sono alla mercé di ogni sorta di predatore. 
È un film magnifico, che dovreste vedere tutti, e che ci insegna quanto il found footage stia attraversando uno stato di grazia e sia sempre più il linguaggio d’elezione per i registi che vogliono sperimentare con il genere. 
Per chi vuole chiudere l’anno col botto.

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