
Regia – Edgar Wright (2025)
L’Uomo in Fuga è un romanzo che adoravo e rileggevo periodicamente quando ero molto giovane, ma ha finito per dirmi sempre meno crescendo e invecchiando. Il film del 1987 con Schwarzenegger era il mio preferito quando avevo dodici anni, e quello mi diverte moltissimo ancora adesso, nella sua assoluta infedeltà al testo, riesce a essere un ottimo compendio di quello che sapeva fare molto bene il cinema d’azione degli anni ’80: intrattenere spaccando tutto, con protagonisti carismatici, regia funzionale ma mai sciatta e dialoghi che il giorno dopo citavi a scuola facendo ridere tutti.
Il romanzo di Bachman è ambientato nel 2025, un anno che dovremmo conoscere, e il problema delle distopie, oggi, è la loro sempre più sinistra somiglianza con la realtà. Guardare un film distopico, o leggere un libro sullo stesso tema, diventa un’esperienza straniante perché è tutto troppo riconoscibile e vicino: nel 1982, anno della pubblicazione de L’Uomo in Fuga (scritto tuttavia parecchi anni prima), King prevede con una certa precisione i meccanismi di alterazione del reale come i deep fake, solo che queste cose, allora, erano davvero fantascienza distopica; adesso sono semplicemente una mattinata sui social.
Per questo credo che l’approccio di Wright a The Running Man sia il migliore possibile, date le circostanze: sulla carta e nella struttura narrativa rispetta il romanzo quasi (ho detto quasi) alla lettera, ma nei toni, è molto più simile al film del 1987.
Ben Richards (Glen Powell) è appena stato licenziato per aver parlato con un sindacalista. Sua figlia è malata e sua moglie, che fa la cameriera in un locale, non riesce a guadagnare abbastanza per comprare alla bambina delle medicine. Ben decide così di recarsi agli uffici del Network, la grande corporazione di intrattenimento televisivo che ha sostituito, di fatto, il governo, e dispone arbitrariamente della vita dei cittadini americani. Una volta lì, affronta una serie di selezioni per partecipare ai giochi, spettacoli quotidiani di ogni tipo in cui la gente del popolo si umilia e viene ferita, e a volte uccisa, per portare a casa il denaro sufficiente per la propria sopravvivenza. Ben passa le selezioni e finisce per essere assegnato al gioco più pericoloso di tutti: The Running Man, in cui tre fuggiaschi devono sopravvivere trenta giorni senza farsi prendere e giustiziare dai cacciatori, il tutto sotto lo sguardo continuo di telecamere e con il rischio di essere denunciati, previa generosa ricompensa, dai passanti e dalle persone comuni. È un’impresa impossibile, nessuno ci è mai riuscito, ma Ben è incazzato nero e molto determinato a rivedere la sua famiglia.
Trovo singolare, ma non del tutto bizzarro, che siano usciti due film tratti dai due romanzi “gemelli” di Bachman a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. La Lunga Marcia e L’Uomo in Fuga pescano nello stesso serbatoio, e i loro adattamenti, pur con due approcci diametralmente opposti, giungono a conclusioni simili, andando a modificare i testi proprio sul finale.
I punti di riferimento cinematografici di The Long Walk si trovano tutti nel cinema degli anni ’70; Wright, conoscendo molto bene il materiale che aveva per le mani, si è ovviamente rivolto a quello degli anni ’80. Non solo L’Implacabile, ma anche il Verhoeven di Robocop e Total Recall, che non sono soltanto grandi film di fantascienza, sono (soprattutto il primo) satire della realtà contemporanea così come la vedeva Verhoeven.
The Running Man di Wright è, appunto, una satira, e in questo modo è necessario leggerlo, altrimenti si rischia di non comprenderne la natura: il regista si libera della seriosità un po’ datata del romanzo, e se ne esce con un film d’azione pura, tutto smargiassate, battute, momenti comici che i lettori di King potrebbero trovare anche fuori luogo, ma il punto è che, quando lo scrittore ha portato a termine il suo libro, nel secolo scorso, questo poteva essere letto come un monito, una profezia, un dolente e rabbioso avvertimento su dove si stava dirigendo la società. Narrazioni come L’Uomo in Fuga sono diventate dei libretti di istruzioni, e adesso l’unica arma che ci è rimasta è quella del ridicolo, dell’esagerazione, dell’attitudine punk e selvaggia, perché tanto è lì che siamo. Chi vogliamo ancora avvisare? È andata così, signori.
The Running Man racconta di un mondo in cui una minoranza di ricchi tiene sotto scacco una maggioranza di poveracci, di lavoratori, di disgraziati, di disoccupati che non sanno come curare loro stessi e i propri figli da malattie procurate da quegli stessi ricchi; parla della politica diventata uno spettacolo di intrattenimento, della morte servita a colazione, pranzo e cena sugli schermi di tutte le case, di una propaganda che agisce andando a operare sulla nostra percezione delle cose, fabbricando quindi un mondo parallelo, che non riusciamo a riconoscere e a distinguere da quello reale, perché non lo guardiamo direttamente, ma sempre attraverso un televisore. Nel 1982 poteva essere la rappresentazione di un futuro possibile, ma ancora lontano. Nel 2025 è, appena lievemente esagerata, la vita quotidiana di milioni di persone. Il cinema distopico perde il proprio senso, quando dentro a una distopia ci vivi, a meno che non ci mostri una via per il riscatto, per uscire da questo incubo.
O non butti tutto in farsa, come fa The Running Man nella prima parte, quella a mio avviso più riuscita e incisiva.
Poi, io trasecolo a leggere certe critiche che volevano una versione tutta lacrime e sospiri di The Running Man, quando il romanzo è uno dei rarissimi casi in cui King ha prosciugato il racconto per dedicarsi all’azione nella sua forma più scarnificata. Non a caso, lo ha scritto nel giro di una settimana. L’Uomo in Fuga, lo dice il titolo, è una corsa impazzita verso l’autodistruzione da parte di un uomo disperato; non è solo un libro rabbioso, è un libro nichilista, perché non c’è un solo momento in cui ci illudiamo che Richards possa uscirne vivo o che il mondo in cui è ambientato possa essere passibile di cambiamento. Anche il tanto celebrato finale (che non si può mettere in scena oggi, e non devo spiegarvi io le ragioni), non ha niente di rivoluzionario: è l’ultimo atto di vuota ribellione di uno sconfitto.
Wright ha scelto un approccio diverso, opinabile magari, come tutti gli approcci a un testo preesistente, però dichiarato sin dalla scelta di Powell come protagonista (siamo coperti su tutti i ruoli alla Tom Cruise per i prossimi vent’anni): Richards è il nostro eroe proletario, è il detonatore della lotta di classe, unico mezzo per sovvertire l’ordine delle cose.
Se volete, sono capace pure io di fare la punta al cazzo a Wright, non ho problemi: i suoi marchi di fabbrica qui si vedono meno rispetto ad altri film, ha una regia molto attenta, ma anche poco creativa, messa al servizio della storia e, soprattutto, della star che ha disposizione; nella parte centrale, quando Richards si ritrova a casa dei due fratelli, il film mi ha un po’ persa, poteva essere scorciato di almeno un quarto d’ora; c’è una sequenza, nel pre-finale, che pare proprio girata in extremis e imposta dalla Paramount, e stride sia come stile che come pezzo di racconto scollegato dal resto; ci sono dei nomi giganteschi nel cast, ma alla fine sono tutti piuttosto in ombra (Brolin e Domingo compresi), perché questo è un one man show di Glenn Powell. Ecco, fatta la punta al cazzo, possiamo procedere oltre.
The Running Man è un grande divertimento che ricorda quei film d’azione a budget medio alto che occupavano tutte le sale fino alla seconda metà degli anni ’90, ha un ritmo che tira come una locomotiva alimentata a sputi e bestemmie, e almeno una sequenza, quella in casa di Michael Cera, esilarante. Mi pare un ritorno a una concezione di blockbuster più a misura di spettatore occasionale, e lo dico come un enorme pregio.
Non è il miglior film di Wright e soffre un po’ troppo delle ingerenze della produzione? Sì, bella scoperta, bravi.
Però funziona e spero che incassi tantissimo, perché è arrivato il momento di tornare a questo tipo di cinema, che sa essere artigianale e altamente professionale allo stesso tempo. Poi fate voi.












Meglio un Edgar Wright frenato dalle ingerenze produttive che nessun Edgar Wright, dico io 😉 E questo suo mi sembra il giusto approccio per mettere in scena nel modo migliore una Kinghiana distopia di ieri che, purtroppo (e ne eravamo stati avvisati in tutti i modi), è ormai la nostra realtà di oggi…
ero restio, mi hai convinto a vederlo.
Non so… cioè so: mi sono divertito abbestia. Mi è piaciuto molto.🙂 Ho riso, mi sono esaltato, ho pensato… Vorrei anch’io fargli la punta al cazzo, ma non ho un temperino abbastanza grande.
C’è pure Scott Pilgrim (decisamente VS The World)… a proposito: sarebbe bello parlare di SP!😁
Per me grandioso. E sono contesto che ce ne sia un altro “di oggi” oltre a quello di Schwarzy (che adoro, mi diverte e mi inquieta da quando ero ragazzino).
😘
Visto Venerdì sera su prime video dove si può già noleggiare, d’altronde in sala credo ci sia rimasto due giorni visto che è uscito il Giovedì e già Lunedì l’avevano tolto. Peccato, perché pur non essendomi particolarmente piaciuto, mi ha comunque divertito. Onestamente mi asrei aspettato un trattamento migliore al sottotesto politico e mi fa sorridere che il film del 1987 sia molto più politico di questo, però non ci si può lamentare di un film del genere.