The Life of Chuck

Regia – Mike Flanagan (2024)

Una cosa che ripeto spesso qui, ma tanto siete abituati alle mie ripetizioni da vecchia rimbambita, è che l’horror, più di tutti gli altri generi cinematografici, ha il compito di metterci di fronte allo sgradevole concetto della nostra mortalità.
The Life of Chuck non è un horror, non propriamente, anche se nell’atto terzo (ovvero la prima parte) del film si raggiungono dei picchi di terrore esistenziale mica da ridere. È tuttavia la creatura di due autori, King e Flanagan, che nell’horror si sono costruiti la carriera e sono, di conseguenza, molto esperti in materia di morte: ci campano, sulla morte.
Succede un fatto strano, quando uno scrittore o un regista, riconosciuti per un genere molto specifico, se ne staccano per mettersi a fare altro: riescono a dirti le cose peggiori al mondo con gentilezza, quella gentilezza che spesso all’horror non viene associata, perché l’horror è spietato, è brutale e, per dirla con le parole dello stesso King, non si occupa della morte come concetto astratto o filosofico, ma la espone in tutta la sua natura materiale e anche oscena.
Sarà forse per questa vicinanza costante alla fragilità della nostra vita terrena che, quando gente come King e Flanagan decide di uscire dal genere, lo fa in maniera molto delicata.
King è più sentimentale, Flanagan più razionale e meditativo, ma ciò che sorprende in The Life of Chuck è proprio quanto sia morbido. E sobrio.

Devo confessarlo: io mi aspettavo la spielbergata. Ove per spielbergata s’intende un film fatto alla maniera di, ma non dal Nostro in persona. E invece Flanagan, nel mettere in scena questo coming of age al contrario, non è mai stato così poco sentimentale e così tanto trattenuto. The Life of Chuck è un film prosciugato da ogni tipo di eccesso, sia emotivo sia stilistico. Non ci sono lacrime forzate o ricattatorie, non c’è musica magniloquente, non c’è mai enfasi. Persino la sequenza più a rischio ridondanza, quella del ballo di Chuck in mezzo alla strada, ne esce scaricata, perché Flanagan, mantenendosi fedelissimo al racconto di King, la spoglia dalla melodia, lasciando soltanto il ritmo a fare da accompagnamento musicale, tanto da renderla estenuante, più che commovente.
Quindi no, The Life of Chuck non è un confort movie che ti mette a tuo agio e che rivedi spesso nei pomeriggi invernali per sentirti meglio: è duro, è spigoloso e fa quello che gli horror sanno fare meglio, ovvero dirti che un giorno morirai. 
Ciò che lo porta fuori dal recinto di genere cui di solito un autore come Flanagan viene inserito è la pacatezza e la dolcezza con cui esprime questo concetto, così semplice, eppure così inafferrabile, un tipo di pensiero che, se ti ci concentri troppo sopra, rischi di diventare pazzo. 

Dicevamo prima che The Life of Chuck è un coming of age al contrario, anzi, a ritroso: comincia infatti con la morte del protagonista e poi va all’indietro a recuperare alcuni momenti importanti dei trentanove anni che ha trascorso in questa valle di lacrime.
Credo che l’aspetto più interessante e, in un certo senso, anche abbastanza nuovo, del film stia nel non concentrarsi sull’eredità che lasciamo al mondo al momento della nostra dipartita, ma di fare, anche qui come nel caso della sua cronologia, il procedimento contrario: non conta tanto la traccia che di noi rimane sul mondo, quanto ciò che del mondo resta in noi sino agli ultimi respiri. 
Ogni persona che abbiamo incontrato, ogni film che abbiamo visto, ogni idea che ci ha attraversato la mente, ogni dialogo, ogni contatto, anche il più insignificante e fugace, lascia un segno, che va a comporre un universo vasto e ricchissimo e, quando moriamo, questo universo si spegne con noi. 
Per questo, la morte è sempre un’apocalisse su piccola scala. La morte di chiunque, anche di un banale contabile che forse avrebbe voluto essere un’altra cosa, ma ci ha rinunciato. 

La fine, in Life of Chuck è uno stacco a nero, neanche con la gradualità di una dissolvenza; è immediato, repentino. Un istante prima c’è un mondo, un istante dopo, c’è soltanto uno schermo buio e silenzioso. Non è un film che faccia appello a una qualche forma di trascendenza o speranza di vita ultraterrena. Senza ricorrere a fede o spiritualità, Flanagan cerca di dare valore alla vita in presenza della morte, e non sente il bisogno di interrogarsi su cosa accadrà dopo, come viene anche messo in chiaro in un dialogo tra Chuck bambino e la sua insegnante (Kate Siegel).
Vivere diventa così una faccenda molto urgente, che si consuma in fretta, gravata dalla perenne consapevolezza della nostra natura mortale. Ma non per questo perde un grammo del proprio valore, come hanno valore tutti i personaggi che affollano la mente di Chuck, al di là del loro essere evanescenti, piccoli, transitori, destinati a svanire in un lampo e a essere prontamente dimenticati.
Non sono buone notizie, ma sono tutte quelle che abbiamo.
Ora, questa visione dell’esistenza la si può mettere in scena in svariati modi, e non sta a me giudicare quale sia quello più valido. Flanagan sceglie di non mostrarcene il lato tragico, che c’è, è implicito nella struttura portante del discorso, ma quello più dolce.

C’è una porzione di bellezza nell’irrilevanza della nostra vita, anche se nel calendario cosmico occupiamo meno di una manciata di secondi. A questo serve l’atto numero due di The Life of Chuck, quello visivamente più maestoso, con una sequenza di danza di lunga quasi una decina di minuti che esprime una vitalità quasi violenta, sfrenata, e rappresenta il momento culminante dei trentanove anni concessi a Chuck, prima che la malattia lo colpisca. 
Culminante non perché sia il momento più importante, fondamentale, significativo del suo percorso, ma perché è quello in cui la sua esperienza passata, i suoi desideri di bambino, tutte le cose che ha messo da parte per la priorità delle incombenze quotidiane, tornano a galla e lo rendono felice. 
Come gli spiega il nonno (Mark Hamill), la statistica gli gioca contro e la matematica non mente mai. È allora molto singolare e meraviglioso, nel senso etimologico della parola, che sia una batteria, il più matematico degli strumenti, quello che di fatto conta e scandisce il tempo, a farlo esprimere artisticamente un’ultima volta. 

Anche in The Life of Chuck, come in molte opere di Flanagan (e di King) ci sono i fantasmi, ma in questo caso sono gli spettri del futuro (sì, come in Hill House, dopotutto) che vengono a mostrarci il volto di ciò che saremo. Vengono a ricordarci che un giorno moriremo. Non sappiamo quando, non sappiamo come, e possiamo scegliere di non guardare, di vivere senza essere appesantiti da questa consapevolezza. Oppure possiamo scegliere di vivere nonostante questa consapevolezza, che pare la stessa cosa, ma non lo è. Incredibile la differenza che fa una congiunzione, in certe circostanze.
Film complesso, stratificato, intimamente laico e materialista, bellissimo.
Sono certa che Flanagan tornerà in pianta stabile al cinema dell’orrore puro. Lo sta già facendo con la serie su Carrie, ma secondo me è sbagliato dire che con The Life of Chuck se ne è allontanato sul serio. Si gira, infatti, sempre intorno alla stessa questione: venire a patti con la nostra morte, provare a dare un senso alla nostra morte, avere la capacità di vivere, di ballare e amarsi, in presenza della morte.

13 commenti

  1. Avatar di Marco INAUDI
    Marco INAUDI · · Rispondi

    Ciao Lucia, ho visto “The Life of Chuck” sabato e l’ho trovato bellissimo. Se quello che dice è tremendo, come lo dice fa tutta la differenza del mondo: pacato, morbido e gentile. Siamo effimeri come fumo su questa terra e le nostre tracce nient’altro che sogni svaniti all’ alba. Flanagan ce lo racconta con questa favola che, come tutte le favole, indora la pillola ma non il concetto. Ma comunque io lo riguarderei di nuovo subito. Meraviglioso. Buona settimana Lucia. Ciao.

    1. Avatar di Lucia

      Ma per questo è ancora più doloroso, perché ti dice queste cose con una dolcezza incredibile e, di conseguenza, tu sei obbligato ad ascoltarle. Meraviglioso davvero.

  2. Avatar di Luc@

    La fine è uno stacco in nero , come negli ultimi istanti dell’ ultimo episodio di quella meraviglia prodigiosa e terribile che furono le sei stagioni de “I Soprano ” .

    1. Avatar di Lucia

      D’altronde la fine è sempre uno stacco a nero.

    2. Avatar di Giuseppe

      Parlare della morte e, in generale, della fine è sempre cosa complessa (a prescindere dalle convinzioni che si hanno o meno a riguardo: io, personalmente, rigetto alla pari sia l’idea del nulla che quella dei vari paradisi/inferni e misticheggiante compagnia classica). Saperlo fare con lievità, poi, senza allo stesso tempo edulcorare niente lo è ancora di più, e Mike Flanagan credo si possa annoverare fra quelli in grado di farlo… The Life of Chuck non l’ho ancora visto, ma mi fido di lui 👍

      1. Avatar di Lucia

        Bisogna sempre fidarsi di Mike!

  3. Avatar di Blissard

    Bellissimo film e bellissime riflessioni

    1. Avatar di Lucia

      Grazie, che cosa incredibile che ha fatto Flanagan

  4. Avatar di Frank La Strega

    Non ho letto il post. Ci ritorno quando ho visto il film. Mi mancava Flanagan…🙂

    1. Avatar di Lucia

      Ci ha fatto aspettare due anni, il disgraziato

  5. Avatar di Frank La Strega

    Prima di leggere il post e dopo aver visto il film ho preso degli appunti sul telefono: “sentimentale”… “spirituale senza essere religioso”… “essenziale, umano”… “normale e vivo”… “camei fantastici”… “gentilezza”… Come tutti ho vissuto il film a modo mio, e vedo quel che risuona con me.

    Ovviamente ho pianto come una fontana. E ripensato a Midnight Club…😅

    Questo non centra con la tecnica narrativa, ma con la storia che c’è qui e la mia biografia. Negli ultimi anni per motivi personali sto cercando di guardare e leggere il mondo senza filtri e da questa lettura ricavare la consapevolezza sulla quale appoggiarsi senza paura. Funziona. Questa essenzialità (laica, umana…) mi è sempre stata negata dai luoghi in cui ho vissuto e vedo di persona che continua a venire negata tuttora. Una persona non impara mai fin da piccolo ad accettare il mondo e il proprio essere di passaggio, a non aver paura di quel nero improvviso, a sapere che c’è e che tutto ha valore, che si può anche riderne e giocarci (Big Fish). Da quando lo faccio (insieme ad altri cambiamenti) sono più sereno, leggero, felice, abituato e familiare con il tempo che passa e con la bellezza di ogni istante. I miei genitori sono vecchi e talvolta, grazie a questa dimestichezza inedita, parliamo anche della morte perché parlarne fa bene. Ecco: Flanagan, in questo, è il compagno di viaggio ideale.🙂

    1. Avatar di Lucia

      Sai che secondo me questo film è più un “gemello” di Midnight Mass? Sicuramente il discorso sulla malattia ci riporta all’istituto di The Midnight Club, però proprio come impostazione filosofica, ci ho visto tanto del materialismo spirituale della sua serie originale.

      1. Avatar di Frank La Strega

        In effetti… Midnight Mass è l’opera di Flanagan che mi ha colpito di più proprio per la sua incredibile “densità”. E anche qui c’è tanto di mio personale che entra in risonanza (al momento giusto della mia vita, tra l’altro). Credo di aver pensato a Midnight Club per una sorta di “calore” che emanava, di “pasta emozionale” (devo affinare le parole) che mi ha rimandato lì. Però è vero quello che dici.🙂

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