Alpha

Regia – Julia Ducournau (2025)

Poteva uscirsene, Julietta nostra, con una roba ancora più radicale di Titane?
Certo, e infatti ecco a voi Alpha, che la vostra affezionatissima ha potuto vedere in anteprima a Roma, giovedì scorso.
Lo sto ancora elaborando, probabilmente andrò a vederlo una seconda volta, ma ci tenevo a parlarne qui prima dell’uscita ufficiale (18 settembre) in sala, così magari convinco qualcuno ad andarlo a vedere.
Credo sia necessario soppesare bene i termini che si usano, quando si parla di Alpha. Vale in ogni caso, per carità, ma in questo ancora di più, dato che ho letto in giro, subito dopo la sua apparizione a Cannes, cose tipo “svenimenti in sala”, “il film più estremo della regista”, “insostenibile”, e via così.
Non è vero niente di tutto questo: Alpha è, come ho detto prima, l’opera più radicale di Julia Ducournau, ma non perché sia violenta e rischi di provocare mancamenti e svomitazzate varie: è più semplice sentirsi male mentre si vede Raw, e anche Titane, perché sono molto espliciti; Alpha, nella sua furia e nel suo pretendere tantissimo dallo spettatore, è un film quasi delicato. Di sicuro poco distaccato e molto partecipe, molto dentro alla vicenda narrata e vicino ai protagonisti.

Ambientato in una versione vagamente distopica e distorta degli anni ’80, il film racconta di una tredicenne, Alpha, appunto (Mélissa Boros), che una sera torna a casa con un tatuaggio casalingo sul braccio, realizzato con ago ignoto. Sarebbe una faccenda poco igienica in qualsiasi momento, ma nell’universo narrativo del film è un grosso campanello d’allarme, perché c’è in giro un virus letale che si trasmette tramite sangue e rapporti sessuali e trasforma chi lo contrae in una statua di marmo: progressivamente, il corpo si pietrifica, il sangue diventa polvere rossa e si muore quando non si respira più. Non esiste cura, gli ospedali sono al collasso e la madre di Alpha (Golshifteh Farahani) è una dei pochi medici, insieme a una collega interpretata da Emma Mackey, a non essersela ancora data a gambe. Immaginate la sua costernazione.
Nel mentre, piomba a casa di Alpha il fratello della mamma, lo zio Amin (Tahar Rahim), del quale la ragazza non ha praticamente memoria, ed è un tossicodipendente senza un posto dove stare.
Questa, proprio per sommi capi e in estrema sintesi, la “trama” del film, che è molto più complicato di cose, si svolge su due piani temporali differenti, e distinguibili soltanto per una color più calda e per il taglio di capelli di Farahani.

Alpha è spiazzante, perché gli manca del tutto quello che io definisco il “distacco cronenberghiano” presente in Titane e, in misura minore, anche in Raw; è anche un film privo dell’orrore fisico e anatomico delle due opere precedenti di Ducournau. Sempre di body horror si tratta, in quanto è il corpo, nelle sue varie fasi, che la regista mette al centro del discorso, ma le mutazioni cui assistiamo sono più sottili, meno esplosive. Basti pensare al fatto che la pietrificazione dei corpi delle vittime del virus porta al prosciugamento del loro sangue, tramutato in polvere. Non che non faccia lo stesso impressione, soprattutto in un paio di sequenze particolarmente forti, eppure è un orrore quasi “pulito”, se mi passate il termine.
Chi sanguina, e sanguina ogni volta che si trova in un luogo pubblico, è la povera Alpha: la ferita del tatuaggio che si apre durante la lezione di inglese, il cerotto delle analisi del sangue che salta nel corso di una partita di pallavolo, la testa che le si apre quando va a sbattere contro il bordo della piscina a nuoto, in una scena che passa da Carrie a Lo Squalo in un batter d’occhio.
C’è poi il corpo scheletrico, con le ossa che sembrano voler sfondare la pelle, di Amir, teso allo spasimo, segnato dalla sofferenza, rianimato più volte dalla sorella con un’ostinazione feroce, strappato con violenza a una morte che appare sempre più inevitabile.

Siamo sempre nell’ambito del coming of age, anche se estremamente bizzarro e arricchito da una moltitudine di elementi diversi: l’esclusione sociale dovuta alla paura del contagio, che Alpha soffre quando è a scuola o in mezzo ai suoi coetanei, il dolore della perdita di una persona cara, incarnato dalla presenza misteriosa e quasi fantasmagorica di Amir, personaggio a metà tra la vita e la morte, delle cui realtà e concretezza arriveremo spesso a dubitare nel corso del film, il cui ingresso in scena sembra quasi essere evocato dal sospetto che Alpha sia stata infettata dall’ago del tatuaggio.
Amir è uno spettro, un ricordo, un monito? Non ne abbiamo idea, e Ducournau ci tiene parecchio a lasciarci in uno stato confusionale fino alla fine, perché è quello lo stato in cui si trovano a vivere Alpha e sua madre, nonché quello in cui versa il contesto sociale che fa da teatro alla loro storia.
Alpha è un film sospeso tra dimensioni diverse, e tra diverse percezioni della realtà, nessuna del tutto affidabile. Gli sguardi di Alpha e della madre sono filtri che alterano e modificano, per cui ci si trova sempre nei confini dell’incerto, uno spazio in cui memoria, sogno, incubo e presente si mescolano senza soluzione di continuità.

Si capisce quindi perché, in questo suo terzo film, Ducournau abbia optato per un approccio meno freddo e molto emotivo, che ci fa sentire il dolore del trittico di protagonisti a un livello quasi epidermico.
Non si parla di cannibali o di serial killer che partoriscono ibridi di carne e metallo, di conseguenza, anche lo stile e la messa in scena cambiano, per le diverse esigenze del racconto: Alpha fa ampio uso della macchina a mano, primissimi piani, dettagli così stretti da non capire con esattezza quale parte del corpo si sta guardando, lunghi piani sequenza attaccati ai personaggi e, in generale, calore, urgenza, tenerezza e, perché no, furia nel modo in cui i corpi entrano in contatto gli uni con gli altri, che sia per un abbraccio o per un disperato tentativo di massaggio cardiaco. 
È un’esperienza complicata, Alpha, e non perché sia poco comprensibile, astruso o cerebrale, ma perché ti getta letteralmente in faccia tutta una serie di sentimenti estremi e fuori controllo, e lo fa senza temere un solo istante di essere eccessivo, ridondante, traboccante di idee e di cose da dire. 

Ho appena sfiorato la superficie della bellezza racchiusa nei 120 minuti di Alpha, ma si tratta di un film che ancora deve arrivare in sala, e non mi sembra giusto sezionarlo, non so neppure se sarei capace di sezionarlo, data l’infinita gamma si sfaccettature, suggestioni, spunti che Ducournau ci offre nello spazio di due ore.
Posso solo dirvi che, a livello emotivo, è il suo film che mi ha lasciata più sconvolta e interdetta quando hanno iniziato a scorrere i titoli di coda, indecisa se scoppiare fragorosamente in lacrime (non potevo, ero circondata da critici veri) o fissare il vuoto per almeno un paio d’ore.
Se non avessi paura di parlare sulla spinta del momento, e quindi senza un’adeguata riflessione, potrei dire che è il film di Ducournau che ho preferito. Di sicuro è quello più vicino al mio sentire: mentre con gli altri ho dovuto fare uno sforzo intellettuale, qui non è stato necessario e l’ho semplicemente assorbito. 
Ma il cinema di Ducournau non è mai immediato, ti chiede sempre qualcosa, si prende sempre un pezzo di te. L’unica affermazione iperbolica che mi sento di fare è che siamo al cospetto di un genio e ce la dobbiamo tenere stretta. 

Un commento

  1. Avatar di Giuseppe

    Il particolare del sangue polverizzato mi ha fatto tornare in mente Andromeda di Michael Crichton: chissà se Julia Ducournau ha voluto in qualche modo citarlo (molto più probabile sia un’associazione che ci ho visto solo io)…

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