10 Anni di Zia Tibia: Cabin Fever

Regia – Eli Roth (2002)

Dopo aver visto Bring Her Back, sabato scorso, sono andata a cena con degli amici e la discussione è caduta su come e quanto è cambiato l’horror nel corso degli ultimi vent’anni o giù di lì. Se oggi il panorama è vastissimo e complesso, e lo spettro di ciò che possiamo definire horror si è allargato a dismisura, c’è stato un tempo in cui la proposta più innovativa e pazzerella a disposizione era rappresentata da Cabin Fever, che credo possa concorrere con pochi rivali per il titolo di horror più stronzo della storia del cinema. Per il significato da attribuire a “film stronzo”, vi rimando a questo vecchio post, così non dobbiamo rifare tutto da capo.
Eppure, in tutta la sua infinita, e pure ostentata, stronzaggine, Cabin Fever possiede una qualità surreale e stralunata che me lo fa apprezzare anche al di là dei suoi reali meriti.
Sappiamo che Eli Roth non è il più raffinato della cucciolata, ma dello splat pack dei primi anni 2000 è quello che ha saputo dare una direzione più interessante alla sua carriera, soprattutto rispetto al collega Rob Zombie, e persino al mio adorato Neil Marshall che, per motivi spesso indipendenti dalla sua volontà, non ne azzecca una da secoli.

Roth scrive la sceneggiatura di Cabin Fever nel 1995, un anno prima di Scream, che è il vero spartiacque tra l’horror del XX e quello del XXI secolo. All’epoca, il futuro regista lavorava nel sottobosco dell’industria hollywoodiana e, nel frattempo, tesseva una tela di relazioni sociali destinate a tornargli molto utili: quella con Tarantino è di sicuro la più famosa, ma in questa sede a noi interessano molto di più quella con David Lynch, con Angelo Badalamenti e con lo staff della KNB EFX di Nicotero e Kurtzman. Tutti questi personaggi avranno infatti un ruolo chiave nella realizzazione di Cabin Fever; sì, Lynch ha firmato come produttore esecutivo del film, anche se non accreditato (magari, non lo so, si è vergognato), Badalamenti ha composto parte della colonna sonora (l’altra metà è a firma di Nathan Barr), e la KNB ha curato i sorprendenti e disgustosi effetti speciali, che restano la cosa meglio invecchiata di Cabin Fever.
Nessuno voleva finanziarlo, a metà anni ’90, periodo noto a chiunque mastichi un minimo di horror come uno tra i più complicati e poveri per il genere. Quando il successo di Scream riporta in auge il cinema dell’orrore, Roth ci mette comunque parecchio tempo per trovare i soldi, e alla fine, riesce ad arrivare alle riprese (24 giorni in North Carolina, nell’autunno del 2001) con un milione e mezzo di dollari pescati un po’ di qua e un po’ di là, senza l’intervento di grosse produzioni. 

Cabin Fever debutta a settembre del 2002 al festival di Toronto, dove lo acquista la Lionsgate, che lo distribuisce in sala esattamente un anno dopo, il 13 settembre del 2003; l’esordio di Roth finisce per incassare la bellezza di 30 milioni di dollari in tutto il mondo, diventando il più grande successo di pubblico per la Lionsgate, che da quel momento si sarebbe specializzata in horror, e lanciando la carriera di Eli Roth: una nuova stella in un firmamento ridottissimo. Oggi possiamo contare su una serie di nomi molto pesanti, che fanno da apripista a una folla di registi horror agguerriti e preparati; ai tempi, con i giganti degli anni ’80 ancora in circolazione, ma stanchi e spesso ostracizzati (escluso Craven), mancava il ricambio generazionale. Roth è stato il primo della sua specie; un regista nato e cresciuto a pane e horror, dopo un lungo periodo di penuria e potenziali grandi nomi bruciati sul nascere (qualcuno ha detto Richard Stanley?).
Evidentemente c’era qualcosa nell’aria: un cambio di paradigma, un’attenzione diversa da parte degli spettatori. Pensate a cosa succede tra il 2002 e il 2004, quando esordiscono, nell’ordine, Rob Zombie, Neil Marshall, Alexandre Aja e James Wan. 

Insomma, continuando ad ammettere che Cabin Fever è un film stronzo, è anche un film con un posto d’onore nella storia del genere, nel suo piccolo, una pietra miliare, non perché abbia reinventato chissà cosa (non c’è motivo di reinventare la ruota, se la ruota funziona), ma perché ha dimostrato che un tipo di horror un po’ più estremo e gore della media poteva fare i soldi, senza per forza autocensurarsi preventivamente, com’era successo per esempio a Scream 3 qualche anno prima. Segna un ritorno a un orrore più fisico, più (perdonatemi) epidermico e più feroce, sia rispetto agli slasher esangui di fine secolo sia rispetto ai primi esperimenti nel found footage alla The Blair Witch Project: tutti film in cui il sangue c’era col contagocce o non c’era proprio. Eli Roth si presenta al mondo con un virus che ti scarnifica lentamente, ti fa cadere la pelle di dosso, ti riduce a una poltiglia spiaccicata sul ciglio della strada, e ci ride pure sopra.

Da un lato c’è un senso dell’umorismo che arriva dritto dagli anni ’90, e che sarebbe poi sbarcato nel secolo successivo ancora più incattivito, dall’altro c’è quel tipo specifico di angoscia dei primi anni zero, che non riesce a trovare altri sbocchi se non in una ottusa crudeltà. 
I personaggi di Cabin Fever passano quasi cento minuti a dare il peggio di loro. C’è il virus, certo, pronto ad ammazzarli facendoli soffrire il più possibile, ma i ragazzi in vacanza nella catapecchia che più classica di così non si può, ci mettono del loro nell’accelerare le rispettive dipartite. E non potrebbe essere altrimenti, perché non sono soltanto cinici e privi di senso morale come qualunque ventenne di inizio millennio; sono anche tragicamente stupidi. 
E qui bisogna fare una distinzione molto rilevante, che riguarda non solo Cabin Fever, ma l’intera carriera di Eli Roth: il film non è dalla parte dei suoi protagonisti e non ne avalla il comportamento. Si può dire la stessa cosa di Hostel, di The Green Inferno e del recente Thanksgiving: Cabin Fever è un film che odia i suoi personaggi e non mostra nei loro confronti alcuna forma di pietà o di comprensione. Persino le battute di pessimo gusto non ci servono a ridere con loro, ma a ridere di loro. 
È vero che ci sono dei dialoghi che, oggi, nessun produttore si azzarderebbe a lasciar passare, pena la crocifissione online, ed è anche giusto così; è giusto che cambi la sensibilità con il trascorrere del tempo. Ma era questo il modo di parlare, quasi mezzo secolo fa. Comunicavamo in questo modo, tra l’insulto e la facezia di chi ne ha viste tante, signora mia, e non si sposta di un millimetro neanche se atterra un alieno a un metro di distanza dal suo culo. 

È quindi perfettamente normale che Bert, invece di preoccuparsi per la sorte della sua amica Karen, appena contagiata, la prenda a male parole (non è quantificabile il numero di volte in cui vengono utilizzati termini “slut” e “whore”) e non si curi punto della sua sorte; com’è normale che Jeff abbandoni fidanzata e migliore amico dichiarando, senza un briciolo di pudore, il suo totale disinteresse nei loro confronti. Non c’è rapporto umano che tenga, di fronte all’arrembante solipsismo degli anni 2000. Gli altri sono soltanto dei provvisori compagni di feste, bevute e scopate.
Se la commedia americana di quegli anni (un pezzo del cast di questo film arriva dritto da American Pie), aveva uno sguardo benevolo e, tutto sommato, accondiscendente e assolutorio sulla desolazione morale della gioventù statunitense, l’horror non assolve nessuno e li accoppa tutti: sono troppo stronzi per vivere.

Cabin Fever mi diverte sempre tantissimo, soprattutto per quegli inserti da commedia demenziale che ci infila Roth quando meno te lo aspetti: il poliziotto, i vecchi della stazione di servizio, il bambino che morde tutti, lo stesso Roth che si ritaglia il ruolo di un personaggio fuori dalla grazia di Dio. 
A volte si ha l’impressione che i cinque imbecilli in vacanza al lago abbiano sconfinato in una dimensione altra, che segue delle regole diverse dalla nostra, una bolla dispersa nello spazio sconfinato di bifolcolandia, una Twin Peaks popolata da imbecilli e freaks di ogni risma. 
Credo sia soprattutto questo quadretto di provincia così fuori registro a dare un’identità precisa al film, che senza sarebbe soltanto una tipica mattanza post adolescenziale. Immergendo il gruppetto di protagonisti in un ambiente che non combacia del tutto con la realtà, Cabin Fever assume quasi un’aria psichedelica, da brutto trip. 
Ci si aspetta che uno dei ragazzi si svegli prima dei titoli di coda, quasi fosse tutto un brutto sogno. E invece si muore sul serio, e si muore male. 
Decisamente meglio di entrambi i capitoli di Hostel. 

Un commento

  1. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Esatto, la ruota c’era già: ci voleva qualcuno che la facesse di nuovo girare a dovere e Eli Roth, a prescindere da quanto possa o meno piacere il suo stile, ci s’è messo d’impegno. Il risultato è stato un qualcosa di stronzo, sî, cinico, nichilista e disgustosamente “fisico” nell’organico sfacelo mostrato in bella (si fa per dire) vista. Di certo, ancora più che capace di lasciare il segno pure dopo quasi un quarto di secolo…