Regia – Simon Rumley (2016)
Non so da che parte cominciare a introdurvi Simon Rumley. Quelli tra voi che già lo conoscono sanno che il suo metodo preferito nel raccontare storie è l’assalto visivo, ovvero il prenderti a mazzate fino a quando smetti di muoverti. E poi dartene un altro paio giusto per essere certo che non ti alzerai mai più. Lo abbiamo incontrato due o tre volte qui sul blog e ogni volta è stata, a suo modo, memorabile: che si tratti del rape & revenge estremamente anomalo di Red White & Blue o del suo episodio schiacciasassi per l’antologia Little Deaths, da un film di Rumley è difficile uscire indenni. Mi pare, ma non vorrei sbagliare, che ci sia persino The Living and the Dead su Netflix, a meno che non lo abbiano tolto. Se doveste riuscire a trovarlo, dategli un’occhiata, ma maneggiatelo con cura che fa male.
Johnny Frank Garrett’s Last Word però non è un’opera che appartiene del tutto a Rumley, di solito autore anche della sceneggiatura. Qui si è trovato ad avere a che fare con un copione già definito, scritto da un tale il cui vanto maggiore è l’aver messo la firma sul seguito direct to DVD di 30 Giorni di Buio. Ben Ketai, questo il nome dello sceneggiatore, è anche responsabile di quell’esperienza atroce (non atroce nel senso positivo, ovviamente) di The Forest, film che avrò sopportato una ventina di minuti prima di defenestrare.
E insomma, le premesse non erano poi così rassicuranti, anche perché in un’intervista Rumley ha dichiarato di non aver avuto voce in capitolo sullo script.
Ma poi c’è la vicenda alla base del film e il tutto assume un’altra prospettiva e si capisce per quale motivo Rumley si sia prestato a lavorare a un progetto scritto da altri.
Di solito la dicitura “tratto da una storia vera” è respingente di per sé. Non ho nulla contro le storie realmente accadute, intendiamoci, ed esistono tanti ottimi film che prendono spunto da avvenimenti storici o di cronaca. Il problema è quando (e ciò avviene soprattutto nell’horror) sembra che sia sufficiente quella didascalia iniziale per avere il film già pronto, senza fare troppa fatica a scriverlo e a dirigerlo: tanto il pubblico abbocca all’amo della storia vera ed è contento così. Nel caso di questo film di Rumley, che non si metteva dietro la macchina da presa per un lungometraggio dal 2010, i fatti a cui è ispirato, nonché la loro rielaborazione in chiave soprannaturale, sembrano sulla carta molto adatti alla poetica del regista.
Johnny Frank Garrett aveva diciassette anni quando, nel 1981, fu accusato di aver violentato e ucciso una suora che di anni ne aveva 76. Condannato dopo un processo tutt’altro che pulito, il ragazzo, su cui pesavano un passato di violenza e dei problemi mentali piuttosto gravi, venne rinchiuso nel braccio della morte, dove rimase fino al 1992, anno della sua esecuzione. Durante tutto quel tempo, Garrett ha continuato a proclamarsi innocente e in effetti, molte delle prove utilizzate contro di lui erano assolutamente insufficienti. Un misto di accanimento da parte delle autorità locali (Amarillo, Texas), desiderose di dare un colpevole a una comunità molto spaventata e di incompetenza da parte degli avvocati di Garrett portarono a una condanna con parecchi punti oscuri.
Ma, e qui viene il bello, tutta la faccenda ha un risvolto da incubo: prima di morire, Garrett scrisse una lettera in cui malediva i responsabili della sua condanna, promettendo loro che sarebbe andato a prenderli uno a uno (e i loro discendenti) dopo la sua morte. La stramba coincidenza è che molti di quelli coinvolti nel processo a Garrett, tra testimoni dell’accusa, procuratori, giornalisti e giurati, fecero una brutta fine nel giro di pochi anni. Il che, oltre a essere una coincidenza un tantino sinistra, è ottimo materiale di partenza per un film dell’orrore.
La questione è però controversa: si rischia infatti di fare della becera exploitation sulla vita di una persona che, con ogni probabilità era innocente (si sta cercando di riaprire il caso da anni e, all’epoca, intervenne addirittura il papa per fermare l’esecuzione di Garrett), riducendola a uno spettro vendicativo.
Da questo punto di vista, la sceneggiatura di Johnny Frank Garrett’s Last Word rischia grosso ed è sempre in bilico tra B-movie dozzinale e dramma sociale, pendendo più verso il primo che verso il secondo. L’idea di Rumley (che un suo soggetto lo aveva presentato) era quella di girare una tragedia collettiva, al fine di indagare il senso di colpa di un gruppo di persone che, per convenienza personale, quieto vivere, paura o smania di potere, si ritrovano con una macchia gigantesca sulla coscienza. In questo, Rumley voleva essere più fedele al documentario del 2008 su cui il suo film è in parte basato, The Last Word.
Abbiamo quindi due esigenze differenti, quella exploitativa che traspare dalla sceneggiatura e quella più tesa all’analisi sociale di Rumley, i cui film sono sempre stati, più che horror, dei “drammi estremi”, come ama definirli lui stesso.
Anche Johnny Frank Garrett’s Last Word è un dramma estremo, non tanto per quello che racconta, ma per come lo racconta.
Piuttosto banalmente, lo script sceglie di narrare la vicenda dal punto di vista di un giurato che aveva avuto qualche dubbio al momento di emettere il verdetto, unico tra tutti i suoi colleghi e quindi destinato a giocare la parte dell’eroe positivo: quando infatti si rende conto che la maledizione lanciata da Garrett ha effetti reali, comincia a darsi da fare per portare a galla la verità e salvare così se stesso e la sua famiglia, ma anche la memoria di Garrett. Il film è quindi un misto tra thriller processuale e investigativo e horror soprannaturale, con quella componente da extreme drama cui abbiamo già accennato.
Rumley gestisce bene tutte le anime di questo suo lavoro (possiamo dirlo?) su commissione e porta a casa un’opera, tutto considerato, dignitosa. Non al livello cui ci aveva abituati, ma è pur sempre Rumley e possiamo contare su delle sequenze di una ferocia sensoriale inaudita, soprattutto quando si va sull’onirico spinto e le visioni delle vittime di Garrett raggiungono interessanti vette di degradazione fisica. C’è un suicidio che faticherò a dimenticare, mentre l’allucinato climax cui viene sottoposto il protagonista nel suo viaggio alla ricerca della verità basta e avanza per giustificare quell’oretta e mezza spesa a guardare il film.
Johnny Frank Garrett’s Last Word non può contare né su un budget faraonico né su dei nomi di richiamo nel comparto attori. È un piccolo film che si basa molto sulle scelte stilistiche di Rumley, tese a supplire le mancanze di una sceneggiatura da molti punti di vista inadeguata. Ma è molto vivida la descrizione di una cittadina dominata dall’omertà e dalla paura, parte di quell’America profonda che tanto bene Rumley aveva messo in scena in Red White & Blue, di cui questo film potrebbe essere quasi una propaggine: si veda la scena con l’indovina che collabora con la polizia o tutta la parte iniziale, bellissima, dedicata al processo, con la brava gente di Amarillo che, all’esterno del tribunale, si presenta in branco per chiedere la testa di Garrett, brandendo cartelli che gridano “Morte al ritardato” e amenità simili. Come sempre, lo sguardo di Rumley è impietoso e va a toccare corde emotive profonde, anche quando non sente particolarmente il progetto.
Dopo anni di silenzio, stanno per arrivare ben tre film diretti da Rumley: il primo, Fashionista, è stato presentato di recente e credo sarà disponibile a breve. Da poco, sono finite le riprese di Crowhurst, prodotto nientemeno che da Nicolas Roeg, ed è in corso la lavorazione del gangster movie Once Upon a Time in London. Per il momento, accontentiamoci del gradito ritorno e prepariamoci a vederne delle belle.
Risulta anche a te che per il momento si trovi solo con i sub inglesi?
Sì, per il momento non mi pare che ci siano sottotitoli italiani disponibili.
Mi fa piacere che il lavorare a fianco di Ketai (The Forest non è stato in genere accolto benissimo ma, essendoci di mezzo Aokigahara, un’occhiata proverò lo stesso a dargliela anch’io) non sia riuscito a castrarlo, specialmente dopo ben sei anni dal suo ultimo film vero e proprio: certo va detto che, con un tale tragico caso di cronaca (e relative oscure coincidenze) a disposizione, difficilmente il doversi appoggiare ad una sceneggiatura altrui gli avrebbe comunque impedito di tirar fuori il meglio di sé…
Infatti è uno di quei rari casi in cui il “tratto da una storia vera” è andato a vantaggio e non a detrimento del film 😉