Tanti Auguri: 60 anni di The Nanny

Regia – Seth Holt (1965)

Complehorror di novembre nel segno della Hammer e di sua maestà Bette Davis, qui arrivata quasi al termine del suo personale ciclo hagsploitation, iniziato nel 1962 con il capolavoro di Aldrich.
Davis sarebbe apparsa in altri horror, dopo The Nanny, ma con ruoli un po’ diversi da quelli della “vecchietta fuori di testa” che interpreta in Baby Jane, in Chi Giace nella mia Bara e in Piano… Piano, dolce Carlotta e che l’avrebbe resa l’attrice simbolo della stagione dell’hagsploitation anni ’60. Ricordiamo di sfuggita che, ai tempi delle riprese di The Nanny, Davis aveva cinquantasei anni, e lasciamo sedimentare questa informazione per avere il quadro preciso di come le donne sono sempre state trattate nella dorata industria cinematografica.
A differenza della sua collega Crawford, anche lei costretta, dopo il successo di Baby Jane, a fare la megera pazza per l’ultima parte della sua carriera (Crawford aveva qualche anno in più di Davis, ma la sostanza del discorso non cambia), Davis ha avuto la fortuna di incappare in progetti più validi o solo leggermente più prestigiosi rispetto ai lavori di William Castle.
The Nanny è un thriller psicologico di classe, almeno da un punto di vista formale, uno degli ultimi grandi film in bianco e nero della Hammer e antesignano di tanto domestic thriller contemporaneo. 

Alla sceneggiatura troviamo il solito Jimmy Sangster, la vera colonna portante della Hammer, non solo di quella più nota e celebrata dei vari Dracula e Frankenstein, ma anche di quella che oggi tendiamo a ricordare meno, piena di elegantissimi gioielli a basso costo. Uno di essi, Taste of Fear del 1961, segna l’esordio dietro la macchina da presa del montatore e produttore anglo-palestinese Seth Holt, nonché l’inizio della sua collaborazione con la Hammer, in quel periodo al picco del suo splendore e del suo potere al botteghino inglese.
I thriller in bianco e nero della Hammer possiedono delle caratteristiche comuni che prescindono dal regista, come del resto anche i loro film a colori sul corpus di mostri Universal: è il celeberrimo stile Hammer, un marchio, un’atmosfera, un’intenzione capaci di rendere queste opere immediatamente riconoscibili. Se è molto facile individuarli negli horror soprannaturali, la questione è più sottile quando parliamo della filmografia in bianco e nero, in parte perché meno studiata, in parte perché anche meno identitaria. È infatti Terence Fisher che imposta, con La Maschera di Frankenstein, tutti gli elementi destinati a tornare negli altri film, anche quando realizzati senza un suo coinvolgimento diretto.
Non si può dire la stessa cosa per l’altra serie di film, ai tempi definiti “mini-Hitchcock”, ma molto più vicini alle produzioni della RKO o, in ambito europeo, ai noir più feroci di Clouzot, come I Diabolici.

Si tratta quasi sempre di thriller e horror da camera, incentrati su paranoia e manie di persecuzione, personaggi la cui sanità mentale viene costantemente messa in discussione, un certo grado di morbosità nell’affrontare temi scabrosi, e finali a sorpresa che avevano lo scopo di traumatizzare il pubblico pagante. Freddie Francis ha diretto il più interessante del mucchio, ovvero Paranoiac, ma a dare il via alle danze è stato proprio Holt con Taste of Fear.
Ce ne sarebbero stati altri all’inizio degli anni ’70, ma a colori, e fanno parte di quella fase della storia della Hammer in cui la casa di produzione annaspa per tentare di adeguarsi a un mercato in via di trasformazione. Con scarsi risultati.
Il ciclo dei “mini-Hitchcock” si chiude proprio con The Nanny, ai tempi un grande successo di pubblico e critica, esercizio paziente e preciso di costruzione della tensione, grandissima prova d’attrice di Davis, qui molto più contenuta rispetto a come siamo abituati a vederla nella sua fase hagsploitation.
The Nanny può anche vantare la presenza di una giovane, ma già veterana, Pamela Franklin in uno dei ruoli più bizzarri della sua carriera, che di ruoli bizzarri è costellata.
Ecco, bizzarro è un aggettivo che calza a pennello a The Nanny, un film pieno di momenti che sembrano andare in contro tempo, di situazioni stranianti, che si ferma sempre un istante prima di diventare davvero osceno, ma ti fa intuire l’oscenità sotto traccia.

Racconta di una facoltosa famiglia che ha da poco subito la perdita della loro figlia minore, la piccola Susy, annegata nella vasca da bagno. La responsabilità della morte è stata attribuita a Joey, il figlio più grande, subito spedito in una “scuola speciale” per un paio d’anni. La storia comincia proprio il giorno del ritorno a casa di Joey, accolto con enorme ansia dalla madre, con indifferente durezza dal padre e con amore e comprensione dalla vecchia tata, la Nanny del titolo, che non ha neanche un nome, tanto è identificata con la sua mansione.
Il problema è che Joey detesta Nanny: non vuole che gli sistemi la camera, non vuole mangiare nulla che sia preparato da lei, non vuole che gli vada vicino. È anzi certo che l’obiettivo di Nanny sia ucciderlo, come ha ucciso la sua sorellina Susy. Nessuno gli crede: d’altronde Joey è un bambino problematico e aggressivo, mentre Nanny è un pilastro della famiglia.
Trovandoci all’interno di un classico dell’hagsploitation, sarebbe naturale credere il film indirizzi subito le nostre simpatie nei confronti di Joey e le nostre inquietudini nei confronti di Nanny; invece, Sangster e Holt sono bravissimi a confondere e dirottare i sentimenti dello spettatore: Nanny è sinistra, è sempre troppo calma, e dietro l’amabilità e la gentilezza riservata di ogni suo gesto, si cela qualcosa di sbagliato. Tuttavia Joey è un piccolo mostro e un insopportabile marmocchio.

Il giovanissimo William Dix (nove anni all’epoca delle riprese) dà un’interpretazione controllatissima e sottilmente malvagia, impressionante considerando la sua età e la scarsa esperienza: eccezionale nel farsi odiare sin dalla prima scena, nel non ispirare mai un solo momento di tenerezza o di vicinanza, il suo Joey fa parte della nutrita galleria di bambini mostruosi del cinema horror, e di conseguenza, diventa molto complicato dargli ragione o schierarsi dalla sua parte nella guerra psicologica intrapresa con Nanny. Davis, dal canto suo, mostra di avere una pazienza quasi ultraterrena, e non solo nei confronti del demoniaco ragazzino, ma anche nei confronti di sua madre coi nervi a pezzi e di una delle peggiori figure paterne mai apparse in un film Hammer, mai stata avara di padri, a voler usare un eufemismo, discutibili.
The Nanny impiega molto tempo ad arrivare al dunque e allo svelare il mistero su cosa abbia causato la morte di Susy, ma si tratta di tempo molto ben impiegato in un meticoloso sviluppo della psicologia del personaggi: è un crescendo continuo di paranoia e di anime sconvolte da traumi passati, che tuttavia non ci vengono mai chiariti del tutto. Ogni cosa resta avvolta in una coltre di non detto, non risolto, non affrontato, e per questo fa una quantità inimmaginabile di danni.

Dati i due temi principali dell’intero film, ovvero l’aborto clandestino e l’abbandono di minori, è anche normale che fosse così la bellezza di sessant’anni fa, ma è proprio questa reticenza a dare a The Nanny un tono ambiguo e incerto che, alla fine, diventa la chiave della sua riuscita, perché non si riesce mai ad anticipare quello che sta per accadere, e lo stile di Holt, tutto ombre e tagli che lasciano sempre qualcosa ai margini dell’inquadratura, aumenta ancora di più questa sensazione di instabilità, di star seduti sopra a dei candelotti di dinamite pronti a esplodere.
Purtroppo, il film soffre di un finale frettoloso e normalizzante: com’era consuetudine di molto cinema della Hammer, a un certo punto prende e finisce. In compenso, gli ultimi venti minuti hanno un climax da incubo, con almeno due sequenze, il malore della zia di Joey e il doppio flashback sulla morte di Susy, che non avrebbero sfigurato in Repulsion o L’Inquilino del Terzo Piano.
Sessant’anni dopo, ci si rende conto di quanti debiti abbia una grossa fetta di thriller contemporanei con i vecchi “mini-Hitchcock” della Hammer, un intero filone di cinema di genere da riscoprire e da studiare.

3 commenti

  1. Avatar di Giuseppe

    The Nanny devo decidermi a recuperarlo una volta per tutte (tra l’altro credevo di averlo già fatto, ma col passare degli anni la memoria comincia a fare scherzi poco cinefili), e i suoi sessant’anni rappresentano l’occasione giusta…

  2. Avatar di Blissard

    Ironia della sorte, a ottobre mi sono sparato un bel po’ di film “minori” della Hammer, e anche quelli meno interessanti hanno comunque un’atmosfera rimarchevole. Nanny non fa parte dei minori, è un signor film, e Bette è meravigliosa

  3. Avatar di tommaso

    Film che vidi per caso da bambino (quindi ahimé più di 40 anni fa) all’inizio pensando fosse una commedia simil disneyana. La scena del bagnetto della bambina uno dei grandi cine-traumi della mia infanzia.

    Bellissimo anche il citato Taste of Fear, sempre di Holt.

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