The Shrouds

Regia – David Cronenberg (2024)

Si dice che, con il passare del tempo, si perda la presa sulla realtà che ci circonda. È una faccenda abbastanza scontata: il mondo intorno a noi cambia alla velocità della luce, si trasforma, evolve in qualcosa che riusciamo a stento a riconoscere; al contrario, noi ci limitiamo a invecchiare, a non capire, e quindi a ripiegarci su un passato velato di nostalgia che magari neanche è davvero esistito. Succede più o meno a tutti, in forme più o meno gravi e permanenti.
E poi c’è David Cronenberg. Lui fa storia a sé. La lucidità con cui riesce sempre ad afferrare il momento contemporaneo ha del miracoloso, anche quando realizza un film a ottant’anni suonati, sulla morte, sul lutto e sul decadimento fisico. The Shrouds è personale, lo sapete: è cosa nota che Cronenberg lo abbia scritto pensando alla recente scomparsa della moglie, ma questo non significa che sia un film sentimentale, anzi. Come sempre, il regista canadese è spietato e chirurgico nell’analizzare la realtà, e continua a prenderci da mezzo secolo a questa parte. 

The Shrouds è una riflessione sulla nostra incapacità di accettare la morte, nostra e di chi ci sta vicino, mascherata da techo-thriller complottista. È importante che Cronenberg abbia proprio scelto questo genere specifico per dare corpo alle sue elucubrazioni, dato che la tecnologia, nel film come in questo sempre più distopico XXI secolo, serve a riempire vuoti e tappare buchi, a zittire un continuo rumore di fondo che è disagio esistenziale, a mettere a tacere il dolore, camuffarlo, cercare di dargli una forma differente, a prolungarlo anche, perché la fine del dolore è anche l’arrivo dell’oblio.
È esattamente ciò che ci si aspetta da Cronenberg: un’opera che racconta la (mancata) elaborazione di un lutto in maniera gelida e rigidissima. Sembra che sia lo stesso film ad avere il rigor mortis.
Sì, è lento, sì, è lunghissimo, sì è molto, molto parlato. I personaggi cianciano sul niente per interminabili minuti, sempre per la necessità di riempire i già menzionati vuoti e, non appena c’è un momento di silenzio, intervengono gli strumenti tecnologici a spezzarlo.

Il protagonista Karsh (Vincent Cassel), in seguito alla morte della moglie, ha creato un sudario speciale che permette, tramite degli schermi posizionati sulla lapide dei defunti, di assistere alle varie fasi di decomposizione del corpo. Oltre a trarne conforto, ne ha fatto anche un importante giro d’affari, istituendo la Technograve, con cimiteri speciali sparsi in varie parti del mondo e una app che permette di collegarsi alle tombe e godersi così il progressivo deterioramento dei cadaveri dei nostri cari. 
Un episodio di vandalismo nel cimitero di Toronto, unito alla scoperta di strane escrescenze sulle ossa della moglie, conduce Karsh in una spirale di paranoia, fantapolitica, terrori di sorveglianza globale a opera di corporazioni sempre più potenti e, forse, addirittura alla scoperta di un intrigo internazionale. 
Non sapremo mai cosa è successo davvero o perché. Il film ci fornisce qualche ipotesi, ma nessuna verità che dia un senso allo svolgersi degli eventi. Non ha importanza, non ci sono spiegazioni univoche a quanto accade ai personaggi nel corso del film. Come dicevamo prima, l’impianto da thriller complottista è soltanto un travestimento utile a Cronenberg per tornare ad affrontare i classici temi del suo cinema.

Se Cronenberg si mette a riflettere sulla morte, lo farà sempre e comunque da una prospettiva materialista. Non c’è nulla di anche lontanamente spirituale in The Shrouds: al centro del discorso c’è sempre il corpo, tutto ciò che possediamo, tutto ciò che siamo. Ogni film di Cronenberg, dagli esordi a oggi, ha parlato del corpo umano, sottoposto sempre a qualche sorta di mutazione, fosse essa dovuta ad agenti interni, virus, parassiti, modifiche autoindotte, o esterni, e quindi la contaminazione con la macchina, il media, in generale, con la tecnologia che si poteva immaginare al momento in cui il film veniva realizzato.
In The Shroud il processo di cambiamento avviene anche post mortem, non sappiamo se biologico, indotto da qualche agente che arriva da fuori, o addirittura soltanto virtuale, un’immagine illusoria che simula la crescita delle escrescenze ossee notate con sgomento da Karsh sul corpo della defunta moglie.
Non ci sarà data una risposta: Karsh non riesumerà la sua amata Becca; può osservarla attraverso uno schermo, ricreata in 3D ad altissima definizione dal suo sudario speciale, ma non si azzarda neppure a guardarla da vicino. La distanza non può essere colmata, e quello fornito dalla Technograve è soltanto un simulacro. 

Anche la mancanza di Becca è avvertita a un livello puramente fisico, materiale, appunto: ciò che ci manca è il corpo, è il corpo che Karsh sogna, un corpo fatto progressivamente a pezzi dalle cure ricevute dalla moglie nell’ultima fase della sua vita; ricordiamoci che Cronenberg è quello che si è fregato il suo stesso cadavere dal set di Slasher e ci ha fatto un cortometraggio, in cui se lo abbracciava e sbaciucchiava. 
Se qualcosa dopo la morte c’è, è un ulteriore processo di trasformazione che modifica il nostro corpo e, alla fine, lo dissolve. Noi possiamo provare a distrarci da questo abisso in decine di modi possibili, possiamo osservarlo col distacco che uno schermo e una app ci offrono, possiamo inventarci complotti, trame ordite da eco-terroristi (che preferiscono la cremazione in quanto più sostenibile) o da criminalità organizzata, possiamo pensare che ci siano dei governi intenzionati a utilizzare la rete di dati dei cimiteri per estorcere informazioni; ma è tutto un divergere l’attenzione dall’ineluttabile disfacimento della materia che ci compone. Polvere alla polvere, anche se ad accompagnarci verso l’inevitabile divenire concime per i fiori c’è un’assistente virtuale.

Come al solito, una valanga di risate. Eppure c’è, a differenza di lavori precedenti del regista (quando era più giovane e più cattivo) una tenerezza dolente nei confronti di questi personaggi che si affannano nel tentativo di tappare i buchi di un’esistenza in cui siamo gettati allo sbaraglio; c’era già in Crimes of the Future, ma quel film era, secondo me, un po’ meno centrato rispetto a The Shrouds, forse un po’ arrugginito, un ritorno a un cinema con cui non si confrontava dal secolo scorso. Qui, il maestro canadese è davvero tornato a casa, e non fatevi ingannare dall’impianto all’apparenza realistico di The Shrouds: siamo ai margini nel cinema fantastico, sempre e comunque, solo che (e anche questa è un’intuizione dettata dalla lungimiranza di Cronenberg) tra il nostro presente e la distopia ormai è quasi impossibile notare le differenze.
Se potete, andate in sala: era dai tempi di eXistenZ che non vedevo un Cronenberg così lucido e in forma.

2 commenti

  1. Avatar di Daniele Segalina
    Daniele Segalina · ·

    E qui ti faccio un applauso.

  2. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · ·

    Crimes of the Future era per forza di cose più acerbo (compreso l’atteggiamento verso i suoi personaggi), mentre qui siamo in una fase di piena maturità, direi…