
Regia – Colin Eggleston (1978)
Abbiamo saltato il post del lunedì perché nel fine settimana sono stata a Orvieto per la prima live di Nuovi Incubi e non ho avuto il tempo di scrivere alcunché; stesso discorso vale per The Monkey: lo andrò a vedere sabato, se tutto va bene, e quindi per ora non mi dite niente, grazie.
Come se tutto ciò non bastasse, è quel periodo dell’anno in cui non si trova un buon horror nuovo neanche a piratarlo, ma per fortuna ci viene in soccorso la challenge su Letterboxd di cui vi ho parlato qualche tempo fa.
Siamo alla tredicesima settimana dell’anno, che è dedicata alla gloriosa Ozploitation, ovvero l’exploitation australiana che tanta gioia ci ha dato nel corso degli anni. Sono quindi andata a ripescare questo antico esemplare di eco-horror, uscito nel momento d’oro del filone, la seconda metà degli anni ’70.
Di eco-horror o eco-vengeance ne abbiamo discusso qui fino allo sfinimento, dato che è una nota fissazione della vostra affezionatissima. Nonostante ci siano dei nobili capostipiti (Il Mostro della Laguna Nera, Godzilla, Gli Uccelli), è un genere che nasce e si sviluppa a partire dai primi anni ’70. Possiamo indicare come capostipite ufficiale Silent Running del 1972, uscito da noi come 2002: La Seconda Odissea, perché siamo dei ragazzi speciali.
L’Australia è la patria d’elezione dell’eco-horror, proprio perché può contare su uno dei pochi paesaggi naturali non ancora addomesticati e sempre e comunque ostili. Long Weekend fa parte di quel ristretto gruppo di film, tra cui annoveriamo i primi lavori di Peter Weir, che restituisce tutta la misteriosa potenza del territorio australiano, senza tuttavia specificare in alcun modo di che tipo sia la minaccia che si abbatte sui personaggi. Come ne L’Ultima Onda, anche in Long Weekend c’è un qualcosa di seriamente intenzionato a farci la pelle, eppure non sappiamo esattamente cosa. L’unica certezza è che è tutta colpa nostra.
Peter e Marcia sono una coppia in crisi che, come tantissime coppie in crisi e non del cinema horror, decide di andare a passare qualche giorno in campeggio. Entrambi sono dei cittadini fatti e finiti, privi di esperienza di vita a contatto con la natura; Marcia ne è consapevole, Peter no; lui è convinto di poter dominare l’ambiente che lo circonda grazie a una fiocina, un fucile, un’attrezzatura da campeggio costosissima e una cassa di bottiglie di birra, che getta con noncuranza nell’erba o nell’oceano quando ha finito di bere.
I due sono detestabili, anche se non alla stessa maniera, e si detestano cordialmente tra loro. Il matrimonio è agli sgoccioli, e questo è un tentativo disperato di ricomporne i cocci. O almeno così appare, anche se è molto forte il sospetto che Marcia sia lì perché si sente in colpa, mentre Peter è lì per fargliela pagare.
A prescindere da quali siano le ragioni che li hanno spinti su una spiaggia isolata nel bel mezzo dell’outback australiano, Peter e Marcia non dimostrano di avere alcun rispetto nei confronti della natura in cui si trovano immersi. Al contrario, si comportano come se fossero a casa loro. Anzi, se fossero a casa loro starebbero di sicuro più attenti.
Se Marcia è, se non altro, un briciolo intimidita dalla sconfinata distesa d’acqua e sabbia circondata da boschi che la sovrasta, Peter è di un’arroganza fuori misura. Se ne va in giro spavaldo con il suo fucile a sparare per aria, abbatte gli alberi a colpi di accetta senza una ragione precisa, tormenta un opossum e, ancora durante il viaggio, investe un canguro con una noncuranza inquietante. Dal canto suo, Marcia è spaventata e rabbiosa, e sfoga la sua rabbia sulle prime cose che le capitano a tiro: le formiche che riempie di pesticida e un uovo di aquila che lancia a schiantarsi contro il tronco di un albero.
Ma si sa, la natura non è mai passiva. Può essere silenziosa, indifferente, e può darci l’illusione di essere alla nostra mercé, nuda e indifesa davanti ai manufatti umani che la sfregiano e la violano. Però passiva mai. La tracotanza nei suoi confronti sarà sempre punita.
La forza del film sta tutta nel come questa punizione viene condotta a termine.
Ovvero, in maniera implacabile e spietata, ma senza che ai due protagonisti (che in realtà sono gli antagonisti) venga data la possibilità di identificare l’agente della vendetta.
Long Weekend non è un film canonicamente spaventoso: di fatto, succede molto poco fino all’ultimo quarto d’ora, e anche lì, il compimento del destino di Marcia e Peter si verifica per mano umana. Non arriva il serpente velenoso a morderli o lo squalo bianco a divorarli. Non ci sono ragni giganti o cinghiali inferociti. Quasi tutte le bestie che i due incontrano sono innocue o comunque compiono danni limitati: l’opossum morde Peter e l’aquila lo attacca perché vorrebbe indietro il suo uovo; il povero dugongo non fa altro che nuotargli accanto, e lui per tutta risposta gli spara, uccidendolo.
Eppure, dal primo momento in cui i due sprovveduti (ma malvagi) mettono piede sulla spiaggia, sono spacciati. Non è il singolo animale ad aggredirli, è tutto l’ambiente che congiura contro di loro. Un’entità giudicante e inflessibile che li osserva macchiarsi di una serie di delitti e decide di condannarli.
Quindi no, Long Weekend non si può, a ragion veduta, definire spaventoso. Al contrario, è sfibrante, ti logora minuto dopo minuto, e tu non capisci neanche bene perché ti senti ridotto a pezzi da un film privo di eventi eclatanti.
Non c’è niente che non va nel posto in cui Marcia e Peter decidono di passare il weekend lungo del titolo. C’è tutto che non va. Eppure è un luogo magnifico, una cartolina calda e assolata, immersa nel verde, col cielo sempre azzurro, un mare che è un invito a farsi una bella nuotata. Un idillio estivo dove qualsiasi coppia pagherebbe per trascorrere qualche giorno.
Invece no, perché Eggleston inquadra questo “angolo di paradiso” come se fosse abitato da una divinità capricciosa e piena di odio. O meglio ancora, è questa stessa divinità capricciosa a imbracciare la macchina da presa e a riprendere i nostri due personaggi come se fossero insetti sotto al microscopio. Si diverte a vederli sempre più terrorizzati, sempre più cattivi l’una nei confronti dell’altro, ogni istante che passa, sempre più gonfi di odio e risentimento reciproco e sempre più paralizzati da un terrore inspiegabile.
È un tormento, Long Weekend, perché ci dice ciò che non vogliamo sentirci dire: non siamo i benvenuti, ovunque andiamo. Possiamo pensare di essere i dominatori, ma non siamo i benvenuti. Che, se ci pensate, per gli australiani è un monito che corre su un doppio binario. Allargando il discorso, per i bianchi è un monito che corre su un doppio binario, ma l’Australia, proprio grazie al suo particolarissimo ed estremamente caratterizzato eco-horror, è stata in grado di gestire e di confrontarsi con questa tematica prima e meglio degli altri.
Senza tirarla troppo per le lunghe, Long Weekend è un capolavoro, e ha lasciato tracce profondissime in tutto il cinema, horror e non, che è venuto dopo. Tanto per fare un esempio molto recente, quando guardate un episodio di Yellowjackets, è qui che dovete andare a cercare le sue radici.
Vedetelo, e vi assicuro che la prossima volta che getterete senza pensarci troppo un mozzicone di sigaretta a terra, qualcosa dentro di voi vi spingerà a raccoglierlo immediatamente.











Visto entrambe le versioni,sia l’originale che il remake,sempre di produzione australiana con protagonista Jim Caviezel,strana storia davvero😳!.
Il remake non è affatto male!
Questo mi manca, recupererò.
P.S. Un altro titolo a trattare queste tematiche era Frogs, del ’72 se non ricordo male (quindi nell’anno ufficiale d’inizio del genere)…