
Regia – Drew Hancock (2025)
Un po’ come nel caso di Abigail l’anno scorso, non so quanto sia stato furbo rivelare il principale snodo narrativo di Companion addirittura sulla locandina ufficiale del film (che infatti qui non vedete). Se non altro, sono riusciti a tenere segreta la cosa arrivando a ridosso dell’uscita in sala; i primi trailer e poster lasciavano tutto nel mistero, ed era molto meglio così.
Mi facilita tuttavia le cose, perché non sono costretta a fare acrobazie linguistiche per parlarvi del film. Resta comunque il fatto che è consigliabile andarlo a vedere senza saperne nulla. Di conseguenza, fatemi la cortesia, se per caso non vi fosse capitato sotto gli occhi il trailer, di non proseguire nella lettura dopo il primo paragrafo.
Per chi avesse scelto di seguire il mio suggerimento, due parole in croce per spingerlo a precipitarsi in sala: Companion è un film delizioso, una horror comedy scritta con grande intelligenza che riesce a non essere mai prevedibile, neanche una volta svelato il meccanismo che la sostiene.
Sophie Tatcher è una dea e Jack Quaid una magnifica spalla. Mi piace il fatto che, da Scream in poi, si sia abbonato al ruolo di maschio mediocre e lamentoso.
Il film racconta di un weekend tra amici in una lussuosa casa sul lago, con il simpatico e un po’ imbranato Josh che arriva accompagnato dalla sua nuova fidanzata Iris.
Basta così.
L’amore romantico è un trappolone in cui prima o poi siamo cascate tutte. Non c’è molto da fare, perché ci hanno programmate per cascarci, e il cinema ha una bella fetta di colpa in questa programmazione: l’incontro casuale e perfetto, l’attimo di rivelazione quando incontri la persona giusta che dà all’improvviso un senso alla tua intera esistenza, il voler dare a tutti i costi un’accezione positiva al vivere in funzione di qualcuno; questa gigantesca montagna di fuffa propinataci attraverso i secoli dalla cultura popolare (e non) è l’oggetto della satira di Companion, che, utilizzando la metafora fantascientifica del bot autocosciente, ci dice che si tratta, appunto, di programmazione.
Irisi è una versione più evoluta di un sex toy: un robot dotato delle splendide fattezze di Sophie Tatcher impostato proprio sulla base della serie di cliché sopra elencati. Lei non sa di essere una creatura artificiale, è convinta che Josh (Jack Quaid) sia l’amore della sua vita, nel quale si è imbattuta una volta per caso in un supermercato, incontro che è soltanto stato impiantato nella sua memoria, dopo che Josh lo ha selezionato da una serie preimpostata di “incontri perfetti”.
Iris è programmata per esaudire ogni desiderio di Josh, per dargli sempre ragione, per fargli credere di essere speciale; va in giro vestita come una fantasia maschile degli anni ’50, è servizievole, premurosa, non chiede niente, non ha esigenze, la sua personalità è costruita in base a quelle di Josh, tanto che la sua intelligenza è soltanto al 40% delle potenzialità del bot.
Iris è, di fatto, un accessorio che conferisce al suo utente (è a noleggio) l’illusione dell’amore. O di quello che l’utente intende per amore: avere accanto qualcuno il cui obiettivo principale nella vita sia la sua felicità, il suo benessere, la sua soddisfazione; qualcuno che può controllare premendo un paio di pulsanti sullo schermo del telefono, che puoi mettere a dormire quando non ti va più di averci a che fare, qualcuno che se ne sta lì, a eseguire gli ordini.
Uscendo per un istante dalla metafora, è esattamente quello che tutta una massa di maschi mediocri si aspetta da noi, credendo gli sia dovuto. E infatti adesso stanno sbroccando in branco perché sta saltando la programmazione. E ce la stanno facendo pagare cara.
Prima che mi saltiate al collo, non è una faccenda appannaggio solo dei maschi e solo delle coppie eterosessuali. Ho avuto a che fare di recente con una persona che avrebbe voluto un bot e che, quando si è accorta che ero un essere umano in carne e ossa, mi ha scaricata, quindi no, le dinamiche di controllo e manipolazione psicologica possono essere implementate da chiunque. Sta di fatto che, nella maggior parte dei casi, le donne sono programmate per pensare che dedicarsi al mediocre maschio di turno sia la loro missione nella vita; e i maschi mediocri di turno sono programmati per avere la convinzione che sia un loro diritto di nascita avere una donna che si martirizzi per i loro bisogni.
Nell’universo narrativo di Companion, il mediocrissimo e patetico Josh ovvia al problema prendendosi un bot, ma è talmente mediocre e talmente patetico, da finire per essere schifato persino da Iris.
Non perché Iris abbia un bug o un qualche malfunzionamento, ma perché è lui a combinare un disastro. E qui esce fuori l’altro tema principale del film, che è il nostro rapporto con la tecnologia: facciamo largo uso di oggetti il cui funzionamento ci è ignoto; nella nostra infinita presunzione (che è di solito altra caratteristica imprescindibile di ogni maschio mediocre) pensiamo di poter dominare dei dispositivi senza conoscerne le caratteristiche e, quando la nostra ignoranza ci si ritorce contro, frigniamo, sbattiamo i piedi per terra e, come da copione, distruggiamo e ci autodistruggiamo.
Iris è un oggetto docile e mansueto, fino a quando Josh non decide di modificarla, senza sapere ciò che una modifica del genere potrebbe comportare. Una volta acquisita la consapevolezza, l’autocoscienza e aver compreso di essere stata usata, manipolata e tradita, Iris si trasforma in un’esplosiva miscela di rabbia femminile e determinazione robotica.
I giorni in cui mi controllavi sono finiti, Josh.
Companion gioca in un campionato molto frequentato, quello della ribellione delle macchine nei confronti dei loro creatori, che ha una lunghissima tradizione in ogni ambito della narrativa, e che di recente ci ha regalato diversi gioiellini come Ex Machina e il meno noto, ma altrettanto interessante, Automata, giusto per fare due titoli a caso. Hancock lo sa e non si presenta al pubblico come se stesse inventando la ruota, perché ci sono precedenti di un certo peso anche nel più circoscritto ambito dei robot di compagnia o a uso sessuale. Companion è un film conscio dei suoi riferimenti, e questa è una fonte di gran divertimento cinefilo, a partire dai continui rimandi a The Stepford Wives, che è la vera mamma putativa di Iris.
Questo per dire che il concetto di applicare le fantasie di controllo maschili a oggetti artificiali che assumono sembianze di donne che, in altro modo, non si potrebbero tenere sotto controllo, non è affatto nuovo, prende solo forme diverse a seconda dell’epoca.
Se le mogli di Stepford erano una grande cospirazione di maschi facoltosi e incapaci di raccapezzarsi con il femminismo dei primi anni ’70, i bot di Companion sono una cosa socialmente accettata e anche d’uso comune. Josh non è ricco e non è neanche un genio che si progetta da solo il suo giocattolo sessuale: il film ci fa capire che di utenti come lui ce ne sono a bizzeffe: dall’eccezionalità segreta di Stepford al corriere che ti consegna il tuo robot davanti alla porta di casa. Mezzo secolo di meravigliose sorti e progressive.












L’aver visto il trailer per me è stato un di più, semplice conferma di quanto avevo intuito già dal titolo che, al di là delle illustri “progenitrici” cibernetiche da te citate, era quasi omonimo del The Companion di Gary Fiedler (annata 1994): in una sorta di versione ribaltata (perlomeno sotto alcuni aspetti) del lavoro di Hancock, qui era l’androide interpretato da Bruce Greenwood a venir riprogrammato per sviluppare una propria autocoscienza, con degli esiti MOLTO pericolosi per la compagna umana Kathryn Harrold…