
Regia – Leigh Whannell (2025)
Semplificando al massimo la pluralità degli strati di varie metafore presenti nei mostri classici, possiamo dire che, dove il vampiro rappresenta il tentativo di raccapezzarsi di vari desideri sessuali illeciti (solitamente femminili e queer), il licantropo è un’incarnazione abbastanza ovvia dell’aggressività maschile. Non a caso, è il più umano e il più tragico della galleria di creature messe in scena dalla Universal a partire dagli anni ’30. Senza nulla togliere al mosaico di cadaveri assemblato dal professor Frankenstein, che tuttavia ha dalla sua un elemento più celebrale rispetto alla forza bruta del lupo mannaro.
L’uomo lupo è, inoltre, l’unico mostro del corpus Universal precedente la seconda guerra mondiale a non avere alle spalle una solida base letteraria. Quando Siodmak ha scritto, nel 1940, la sceneggiatura di quello che sarebbe poi diventano The Wolf Man, ha preso qualche spunto dal folclore dell’Est Europa (Siodmak si era rifugiato negli USA dopo l’avvento del nazismo), ma la mitologia del licantropo giunta fino a noi è inventata di sana pianta: le pallottole d’argento, la luna piena, il contagio tramite morso. Tutta roba frutto della penna di Siodmak.
Se esiste dunque una creatura, considerata classica, dalla natura puramente cinematografica quella è il licantropo.
Lon Chaney Jr., nel film che lo vide protagonista assoluto e che segnò per sempre la sua carriera, interpreta un personaggio segnato dalla sfortuna e con un destino così ingrato che è difficilissimo non sentire il trasporto emotivo nei suoi confronti: è una brava persona che si ritrova, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, a portare addosso il peso di una maledizione dalla quale non esiste alcuna via di fuga.
Rinfresco un po’ la memoria sulla trama di The Wolf Man: Larry Talbot torna nella sua città natale per scoprire che fine ha fatto il fratello scomparso. Lì deve sbrogliare un rapporto molto conflittuale con il padre, ma non ha il tempo di farlo, perché per salvare una ragazza, viene ferito da un lupo, che lupo non è, e finisce per essere contagiato. Se ne va in giro a ululare nelle notti di luna piena e a mietere vittime, finché suo padre non lo uccide col il suo bastone d’argento.
Mi sono dilungata sul vecchio film Universal perché è apprezzabile il modo in cui l’opera di Whannel dialoga con il suo predecessore. Come nel caso de L’Uomo Invisibile, il regista e sceneggiatore non realizza un remake vero e proprio, quanto piuttosto una versione modernizzata di un mito. La cosa interessante è che ne lascia sostanzialmente invariati temi e dinamiche, pur mescolandole come un prestigiatore.
Qui abbiamo un protagonista, Blake (Christopher Abbott), che deve anche lui tornare dove è nato e cresciuto dopo tanti anni di assenza. La scusa per riportarlo nella casa, dove ha vissuto un’infanzia tutt’altro che felice, è la morte di suo padre; nella speranza di ricomporre i cocci di un matrimonio in crisi, Blake si porta dietro la moglie Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger. Durante il tragitto, i nostri vengono aggrediti da una creatura le cui fattezze non sono chiaramente distinguibili, e Blake viene morso.
A quel punto, la famiglia può soltanto rifugiarsi nella casa del padre di Blake e aspettare che passi la nottata, se non fosse che la creatura li ha puntati e farà di tutto per entrare, e lo stesso Blake, da un certo punto in poi, comincia a manifestare degli strani sintomi.
Come vedete, in entrambi i film, quello del 1941 e quello del 2025, è un ritorno a casa a portare i guai; in entrambi i film, i protagonisti sono profondamente segnati da un rapporto molto difficile con la figura paterna; in entrambi i film, si parla di lasciti ed eredità, morali e materiali.
La differenza più eclatante è che Whannell rende Blake padre a sua volta, un uomo disposto a tutto per non ripetere gli stessi comportamenti di suo padre, personaggio che vediamo solo nel prologo, aggressivo, violento e distante. Ciò che Blake eredita da lui è l’ossessione di proteggere Ginger, che tuttavia viene declinata in maniera diametralmente opposta.
La tragedia di Blake è che si tratta di una persona da sempre attentissima a controllare i propri impulsi peggiori; ora che è stato contagiato, non è più in grado di farlo e vederlo lottare fino all’ultimo sprazzo di lucidità prima che il lupo prenda il sopravvento su di lui è una cosa che spezza il cuore in più punti.
Whannell è bravissimo a rendere in immagini tutti i piccoli cambiamenti che la percezione di Blake subisce nel corso del film. L’idea di passare spesso a una narrazione in soggettiva, con spazio, suoni e vista alterati dalla mutazione in corso, è tra le migliori mai escogitate in un film di licantropi. Non è di certo la prima volta che vediamo il mondo dal loro punto di vista, ma qui Whannell compie un lavoro molto più sottile e sofisticato, in particolare sul linguaggio e sulla comunicazione, che sono le prime cose perdute da Blake nel momento in cui inizia a trasformarsi.
Le voci di moglie e figlia diventano versi grotteschi e animaleschi, i loro volti si distorcono fino ad assumere sembianze mostruose, le tenebre inondano il campo visivo, in una progressiva degenerazione dei sensi che porta Blake alla disperazione.
È un film molto piccolo e contenuto, Wolf Man, intimo nel suo concentrarsi soltanto su tre personaggi, nel suo non voler narrare scorribande assassine sotto la luna piena, ma preferire un racconto il più minimalista possibile. Sotto i riflettori ci sono le relazioni familiari che vanno in pezzi e si ricompongono in forme differenti nello spazio di una sola notte; la dimensione del film è quindi inedita rispetto ad altre storie di lupi mannari che abbiamo visto al cinema, o meglio, Wolf Man è allo stesso tempo un compendio della filmografia sui licantropi dal ’41 a oggi e una nuova prospettiva sul concetto stesso licantropia, mantenendo inalterata l’anima di sfiga cosmica che questa creatura si porta dietro da quando Siodmak ha avvisato la Universal che lui avrebbe scritto un film tutto dalla parte del mostro.
È un film d’assedio come Dog Soldiers e Howl, ed è un film in cui la minaccia non è soltanto esterna, ma arriva dall’interno del nucleo familiare; un film dove antagonista e protagonista finiscono per coincidere (come in Un Lupo Mannaro Americano a Londra) e in cui il personaggio principale parte per un viaggio che dovrebbe risanare emotivamente se stesso e le persone che ama, ma accade proprio il contrario, come L’Ululato.
C’è poi un ulteriore livello di lettura, dichiarato da Whannell stesso in diverse interviste, che è quello della malattia. Anche qui, il collegamento tra creatura mostruosa e malattia esiste da quando ci siamo inventati le creature mostruose, in particolare quando si tratta di mostri scaturiti da una qualche forma di contagio, vampiri e licantropi in prima fila (gli zombie arrivano in un secondo momento); la malattia è alla base della mostruosità e la mostruosità è un modo per gestire una cosa enorme come la malattia, nel bene e nel male.
Wolf Man è, lo abbiamo detto, narrato da una doppia prospettiva che si alterna nel corso del film, quella di Blake e quella di Charlotte. Di conseguenza abbiamo la possibilità di vestire i panni di chi si sta ammalando e di chi è costretto a vedere una persona a cui tiene cambiare prima, e scivolare inesorabilmente verso la morte poi.
È in questa doppia cifra che Wolf Man trova la propria originale identità, nonché la sua forza emotiva, grazie alle scelte già menzionate di Whannell e a due attori bravissimi, che si donano completamente ai rispettivi personaggi.
Lo stanno trattando molto male Wolf Man, credo perché alla fine il pubblico continua a chiedere sempre le stesse cose, o forse perché ci si aspettava una rielaborazione del materiale più simile a The Invisibile Man. Io penso si tratti di un ottimo film e che lo riscopriremo tra qualche anno. Mettetevi sin da subito dalla parte giusta, così da poter dire: “Ve l’avevo detto”.












Temo che debba includere anche me tra i delusi di questo film,non mi e’ proprio piaciuto🤕,il mio problema e’ che queste ultime riletture low budget in chiave moderna dei classici Universal cominciano a starmi indigeste,non ho problemi nell’ammettere di preferire enormemente un approccio piu’ “tradizionale” e con qualche spicciolo in piu’.Covo ogni volta le speranze di poter ammirare un gran bel lupo mannaro in scena,speranze annientate da questo film,ho visto uno zombi appestato a 4 zampe,non un licantropo!. Mi spiace Lucia,ma per questa volta non saro’ dal tuo lato della barricata,puo’ capitare.👋😁
Pur condividendo diverse considerazioni, su alcuni punti salienti mi sento molto distante. Il vampiro ha sempre rappresentato -prima di tutto -la forza prorompente della Natura sulla società e l’uomo tant’è che, paradossalmente, sia l’illuminismo che la Chiesa lo avversarono: il primo perché lo considerava una figura che sintetizzava superstizioni e credenze popolari, la seconda perché lo rappresentava come rovescio demoniaco della fede; l’aspetto erotico ovvero la sessualità extragenitale (il morso) era una delle sue tante critiche, quella delle pratiche sessuali illecite di cui la figura della donna che si vuole non più costretta nel suo ruolo è, a sua volta, una delle sue ulteriori sottodeclinazioni (l’ha ripresa Eggers nell’ultimo Nosferatu che infatti possiamo considerare un recupero del tema principale del suo The Witch, oltre che un omaggio a Murnau ma che di questi temi il suo capolavoro era praticamente assente; la vedo così perché la scelta di partire il nucleo centrale e forte di un tema su di un aspetto particolare è molto figlio del tempo e della sensibilità: gli anni Ottanta hanno visto il vampiro rappresentazione della malattia e del contagio ovvero quando nel periodo di piena emergenza Aids e droga). Lo stesso vale per la licantropia, il suo tema centrale è l’ineluttabilità del destino (la ferina mascolinità è solo una delle tante declinazioni e lettura, molto attuale in periodo di critica del sedicente patriarcato): nel film di Waggner sia la frase pronunciata in chiusura dalla zingara che quella ancora più iconica sull’aconito rimarcano rimarcano il suo contenuto centrale che è quasi da tragedia greca. Tra l’altro in questo Wolfman il rapporto padre e figlio è davvero conflittuale, conflittualità che nel precedente del 1941 è assente se non presente sottotraccia, può sembrare un appunto pignolo ma è importante perché la tragedia di Whannell è più moderna (shakespeariana), anzi attuale e i rapporti personali (e il conflitto interiore) hanno la precedenza; e in questo essere così attuale c’è una grande continuità con il suo Uomo invisibile (lì l’attualità è data dal tema femminista). Una piccola nota, da grande amante di The Monster di Bertino non ho potuto non notare come anche qui sia un mostro a ricomporre un rapporto famigliare madre-figlia nel suo binario più naturale.
Ottimo post e concordo sulle troppe critiche negative al film. Film essenziale, si svolge in un arco di tempo ristretto ma nonostante questo riesce a trasmettere un senso di sconfitta credibile. E sì, il modo in cui viene reso il punto di vista del licantropo è davvero fico.
Rispetto al remake del 2010 mi sembra un bel passo avanti (pure se, a dire il vero, le riletture attualizzate come quella di Whannell rendono comunque assai difficile fare paragoni diretti con dei remake di stampo “classico”, riusciti o meno che siano)…
Ho letto ora il post (e come sempre non so assolutamente nulla di cosa di dica “in giro” del film).
Mi ha commosso, spaventato e… rattristato (anche troppo, per me). Anch’io ho pensato al parallelo con la malattia (qualcosa di ineluttabile e degenerativo) e pure il modo in cui una specie di eredità (tragica) passa da padre a figlio senza trovare una soluzione positiva mi ha steso. Forse questo piccolo film è anche troppo “grande”…
Besos!
Saremmo anche stufi di questi horror reinterpretati in chiave psicologica e fatti con du spiccioli… ma poi quale lupo mannaro? Pare un ratto…
L’ultimo lupo mannaro decente che si è visto al cinema risale al 2004. Con Van Helsing. Il che è tutto dire.
dove il vampiro rappresenta il tentativo di raccapezzarsi di vari desideri sessuali illeciti (solitamente femminili e queer)
Questa è l’interpretazione che quel pervertito di Coppola ha reso famosa con la sua abominevole versione di Dracula… che ha generato il mito del vampiro bel tenebroso… il vampiro originale rappresenta il diavolo, un demone succhiasangue nemico giurato dell’umanità. Non c’è niente di sessuale nella figura mostruosa e tra lui e Mina non c’era certo passione, tantomeno la storia della reincarnazione della moglie…
E il lupo mannaro rappresenta semmai l’incarnazione della natura selvaggia dell’uomo che altri non è che un animale civilizzato
Film favoloso e sono d’accordo su tutto quello che dici. Unica pecca di questo film sono purtroppo le interpretazioni di lei e della bimba. Per il resto un opera che attua una rivoluzione, invisibile ai più, ma di una potenza unica.