
Regia – James Watkins (2024)
Di rado succede che un film mi faccia incazzare. È ancora più difficile che io arrivi a odiare un film e chiunque vi abbia preso parte. Si tratta di un evento eccezionale, perché di solito ho un enorme rispetto del lavoro altrui, ma quando capita è una cosa viscerale e incontenibile. L’evento si è verificato due anni fa, quando ho visto il film danese Speak no Evil. Intendiamoci, si tratta di un’opera dalla fattura pregevole, ben diretta e ben recitata, ma a volte puoi detestare qualcosa anche se sei consapevole di non trovarti di fronte a un prodotto scadente.
I miei problemi con il film di Christian Tafdrup sono tutti legati al suo terzo atto, che ho trovato insopportabile e anche un po’ truffaldino; ecco, quello che mi porta a odiare un film è spesso la sensazione di essere presa per i fondelli.
Avevo archiviato Speak no Evil tra i brutti ricordi e avevo smesso di pensarci, fino a quando non è stato annunciato il remake Blumhouse.
Sì, è una pratica discutibile quella di rifare, ad appena due anni di distanza, un film non anglofono per il pubblico americano analfabeta, lo sappiamo bene; è anche una pratica che non ha mai condotto a risultati oltre la soglia della decenza.
Ma il film diretto da Watkins (già regista del bellissimo Eden Lake) stacca di diverse lunghezze il prototipo danese e lo fa in ogni singolo reparto.
Vi diranno che manca l’impronta d’autore europea, che il “cupo e tetro pessimismo dell’originale è stato annacquato”; conosciamo il copione a memoria. A volte mi chiedo se la gente non sia stanca di ripetere a pappagallo sempre le stesse cose, se non crolli sotto il peso di tutta questa noia. Evidentemente no.
La versione Blumhouse di Speak no Evil, come quasi tutti i film prodotti da Jason Blum, ha dalla sua innanzitutto la prerogativa di azzeccare l’intero cast e di metterlo poi al servizio di un regista adatto allo scopo. Watkins conosce molto bene i luoghi in cui si svolge il cuore della vicenda. Sì, hanno girato in Croazia (ma anche nel Gloucester), però l’ambientazione narrativa è quella della campagna inglese, la stessa di Eden Lake.
La stessa di Cane di Paglia, ma su Peckinpah ci torniamo dopo.
Watkins sa anche raccontare molto bene lo smarrimento di chi è abituato da sempre a una vita cittadina di fronte alle abitudini rurali. Quel misto di imbarazzo, accondiscendenza, paternalismo e snobismo che caratterizza sin dall’inizio la coppia di protagonisti, i Dalton, americani trapiantati a Londra e in vacanza in Italia, dove conoscono un’altra coppia, quella formata da Paddy (James McAvoy) e Ciara (Aisling Franciosi). Seguirà qualche settimana divertente in reciproca compagnia e il famoso invito a passare un weekend insieme.
Watkins, anche sceneggiatore, segue passo dopo passo gli eventi del film danese, ma li condisce con qualche spunto più interessante e un approfondimento maggiore nella psicologia dei due americani, interpretati da Mackenzie Davis e Scott McNairy. Ne mette a nudo le fragilità, sia individuali che all’interno del loro matrimonio, ci parla della frustrazione di lui che si sente castrato e della rabbia di lei, costretta dalle scelte sbagliate del marito a fare una vita che non le appartiene. Insomma, rende molto più chiaro il motivo per cui saranno le vittime perfette per Paddy e Ciara e per le loro abili manipolazioni; sottolinea anche in maniera molto più marcata le differenze tra le due coppie, nell’atteggiamento, nell’educazione, nel rispettivo capitale sociale. Persino il personaggio della figlia dei due (per non parlare del povero, piccolo Ant) ha un suo carattere e un suo specifico modo di essere, tanto che tutta la faccenda del coniglio di pezza qui diventa all’improvviso credibile.
Per cui sì, stiamo in parte vedendo lo stesso film, e in parte si srotola di fronte a noi un gomitolo completamente diverso. Che poi è il modo migliore di realizzare un remake, soprattutto se a così breve distanza dall’originale.
Il registro scelto da Watkins è, invece, del tutto nuovo. Via il lugubre lirismo nordico; al suo posto abbiamo quasi una commedia nera. Ci sono momenti in cui si sorride, altri in cui si ride di gusto, in particolare quando l’imbarazzo della coppia civilizzata è più evidente. Anche qui, la critica preconfezionata e pronta all’uso è la mancanza di non detti e sottigliezze. Io ribatto che Watkins si prende gioco della borghesia per bene e di quanto sia facile mettere in crisi le sue sicurezze, erose dai due campagnoli senza neppure sforzarsi troppo.
Quello che nel film originale era un dramma narrato con toni sepolcrali, qui diventa una satira tutta giocata sul filo del disagio e di quella sensazione che proviamo quando ci vergogniamo per interposta persona.
Proprio perché compare qui una dimensione di divertimento assente nell’originale, Speak no Evil è un film che andrebbe visto in sala con un pubblico più ampio possibile, anche soltanto per il gusto di saggiarne le reazioni.
Fino a questo momento abbiamo scherzato. Ora, se non avete ancora visto il film, non continuate a leggere perché farò spoiler sia su quello del 2022 sia sul remake.
Dicevamo che, a parte un paio di minime deviazioni e qualche aggiunta, Speak no Evil segue fedelmente la struttura del suo predecessore. Lo fa per due terzi e poi sterza violentemente e cambia tutta la parte conclusiva trasformandosi in Cane di Paglia. Mai uno stravolgimento fu più gradito e salutato con tanta gioia dalla vostra affezionatissima.
Nel film danese, se ve lo ricordate, andava a finire che i due poveri protagonisti si lasciavano portare via la figlia e poi lapidare senza provare neppure a reagire. Lo so anche io che era il senso ultimo del film e che senza, signora mia, non esiste più la poesia nichilista e chissà dove andremo a finire orbati di essa; purtroppo Watkins, che in quanto a finali pesanti come macigni non è secondo a nessuno, non la pensa in questo modo e i nostri reagiscono. Ci mettono sempre quella vita e mezza per capire che sta per succedere qualcosa di orribile, e anzi, qualcosa di orribile ad altri è già successo, ma una volta compresa la situazione, non ci stanno a fare gli agnelli sacrificali e iniziano a combattere.
Vi assicuro che funziona meglio: Speak no Evil 2024 è un film più bilanciato, ma non meno severo nei confronti della natura umana; semplicemente, non odia i suoi personaggi e non fa dello spettacolo gratuito della crudeltà il suo punto di forza.
Watkins ha dichiarato che, dopo la mazzata di Eden Lake, voleva realizzare un film con un minimo di riscatto per i suoi protagonisti, ma secondo me la faccenda è più ambigua, più vicina al già citato Cane di Paglia e a Le Colline Hanno gli Occhi (versione Craven, non Aja), quindi non tanto classico survivalismo statunitense, quanto uno specchiarsi nell’altro da noi, in un nemico che, alla fine, ci somiglia molto più di quanto ci piaccia credere.
Se, per forza di cose, un minimo di catarsi c’è alla fine del film (soprattutto nel momento di contrappasso per la triste sorte dell’oca Libby), non dura a lungo ed è comunque soffocata da uno strato di desolazione. Non c’è più nulla di certo nella vita di Louise e Ben, nulla di solido; è sparito il terreno sotto i loro piedi e ciò che li aspetta è un enigma, in particolare per Ben che di Paddy ha subito il fascino perverso.
Ci sono anche tante altre cose interessanti nel film, che vanno per esempio a scavare a fondo nella relazione tra Paddy e Ciara, nel modello maschile espresso da Paddy e da Ben, in quello che significa essere genitori. È, in realtà, un’opera con molte più sfumature e stratificazioni rispetto all’originale, e con un gruppo di attori in grado di esprimerle tutte. Se a spiccare sono McAvoy e Davis, perché la scrittura punta su di loro i riflettori, la recitazione di Franciosi è impressionante proprio perché posta all’ombra del carisma straripante del suo collega.
Non date retta agli scettici e andate in sala a vederlo; andateci anche se avete amato l’originale. Non date retta ai pareri precotti e fatevi il vostro.












Buongiorno Lucia,purtroppo per me ricordo la mia bruttissima esperienza nel vedere il film danese,l’ho odiai con tutto me stesso,ringrazio che ero da solo mentre lo guardai,perchè quando sono accompagnato la mia buona educazione mi impedisce di fare casino,ma quella volta essendo stato per conto mio,mi lasciai andare al più libero dei turpiloqui,come hai scritto tu,mi sono sentito preso in giro. Quando seppi dell’uscita del remake americano,pur con la consapevolezza che il trattamento blumhouse lo avrebbe reso meno respingente,per me quel film fù così irritante,che non ne volli proprio sapere di andare a vedere il nuovo!. Ps.-Piuttosto,il mio prossimo appuntamente con l’horro in sala,sarà il nuovo film di Alexandre Aja in uscita il 26 di questo mese,tengo le dita incrociate!.
A me invece l’originale era piaciuto proprio per l’ultima parte, la cui violenza esasperata riequilibrava l’incedere lento della sceneggiatura. Non ho letto l’ultima parte di recensione, perchè a quanto ho letto in giro il remake prende una strada diversa rispetto all’opera originale. Sono decisamente incuriosito.
Anch’io sono fortemente contrario a questo genere di operazioni (tant’è che non ho mai visto il remake di Goodnight Mommy, e leggendo qua e là mi sembra di aver fatto bene), però come c’è il tradimento di Nolan per Insomnia (sì, manca, non tanto l’impronta d’autore europea, quella in un certo senso persiste ma – eccomi – il “cupo e tetro pessimismo dell’originale” senza tuttavia offrire dell’altro) così può capitare che da un Lasciami Entrare esca fuori un lavoro altrettanto pregevole e originale (Bloody Story). Ora, a me Speak no Evil era piaciuto molto, anche il terzo atto (anzi, tra i film di nicchia del periodo stava in cima assieme a What Josiah Saw, inspiegabilmente snobbato) ed ero propenso a snobbare anche questo riadattamento, ora invece… mi tocca lasciare a metà questa recensione e andare in sala.
Anche se avevo già intenzione di vederlo, me lo hai venduto al solo accenno di Peckinpah. Anzi, adesso avverto il bisogno di rivederne l’intera filmografia, cosa che non faccio da anni. Non so se avrò mai la forza di rivedere Eden lake, invece. Lo ricordo perfettamente, tanto mi ha fatto stare male per giorni.
“Perchè lo fate?” “Perché c’è lo permettete.” Questa risposta iconica che aveva un suo perché nel film di Tafdrup qui perde tutta la sua prorompente forza ed anzi stona (ma è interessante che Watkins nella sua terza parte che si allontana e stravolge il senso dell’originale scandinavo scelga di mantenerla; difficile liberarsene, proprio per la sua efficacia ma priva di mordente in questa sua trasposizione). Non disdegno la black comedy (anzi) ma, sulla scelta dell’inglese in quali contenuti puntare mi è sembrato volerla vincere facile: insomma, una scelta a favore di pubblico. Si fa (e fai, giustamente) il paragone con Cane di Paglia ma del capolavoro di Peckinpah manca la brutale wilderness che ci mostra nudi davanti allo specchio (mentre qui alla fine molto si riduce a un piano ricatto per estorcere qualche centinaio di sterline). Tra il primo e il secondo Speak no Evil c’è la stessa differenza e distanza che passa tra il primo (immortale) monologo di McGregor di Trainspotting (rivoluzionario e iconoclasta) con il suo infelice epigono in T2 (che è solo un compendio di buoni propositi da fine anno in mezzo a tanta banalità – lì erano gli abiti firmati qui la Tesla!). È vero, i personaggi sono meglio caratterizzati (soprattutto i rapporti di coppia con un interessante ribaltamento di ruoli in quella americana) ma è anche giusto e inevitabile per la scelta, rispettabilissima, fatta da Watkins. Io penso che tra qualche giorno questo remake lo avremo dimenticato come troppo facilmente fa anche la piccola Agnes col suo coniglietto di pezza mentre, per me, l’originale è ancora lì inciso su pietra, quelle stesse pietre che seppellivano umanità speranza e redenzione.
Esiste un momento storico in cui la nostra percezione della frustrazione, delle tristezze e delle lotte quotidiane si sublima in una certa coltre di nubi dai colori saturi e pesanti. A livello di “meraviglioso singolo” puoi percepire il dolore fisico, senti la testa compressa e il respiro è sempre più corto e affannoso. Ecco perchè quando vivi la realtà che ti circonda secondo questa sensibilità trovi il primo speak no evil un tuo amico, un agente della catarsi. Il secondo lo vedi quasi come quel conoscente che ti dice che per soffrire d’ansia cronica basta non pensarci e che l’adagio capitalista del “volere e potere” è la via da seguire.
Questo Speak no evil 2024 non mi è piaciuto per questo motivo: certe volte è necessario creare un paradigma della sofferenza e confrontarsi con esso e nessuna versione motivazionale può sortire il medesimo effetto.
Ho trovato qualitativamente omogenei i due film, con il remake che guadagna in ritmo, solidità e tensione quanto perde in atmosfera e originalità. Non posso dire che nessuno dei due mi abbia fatto impazzire. Devo confessarti però che ho rivisto qualche tempo fa Eden Lake e non mi ha fatto impazzire neanche quello
Allora, io Eden Lake non lo rivedo da parecchio tempo e ho intenzione di rivederlo per la Spooky Season, quindi le faremo sapere 😂
Per il sottoscritto Eden Lake è un film che ha retto bene al passare del tempo, e quindi (a maggior ragione) son curioso di sapere come la pensi oggi a riguardo 😉
Uno schifo inenarrabile. Ci vuole coraggio davvero a promuoverlo…
Visto qualche sera fa. Ben fatto, piacevole. Ma l’originale aveva la sua forza nel finale. Qui è stato tutto addolcito in favore del finale medio standard dell’horror degli ultimi dieci anni. Uno spreco…
Ma io su questa cosa, davvero, faccio fatica a capire. Dove sarebbe un finale addolcito? Quelli sicuramente appena mettono piede a casa divorziano, il ragazzino è praticamente un serial killer in erba e la bambina ha un trauma che si porterà dietro per tutta la vita. Il finale di Cane di paglia non era un finale medio standard, e questo è davvero molto simile. Non viene ripristinato alcuno status quo, non c’è il trionfo della famiglia felice, la moglie deve fare tutto da sola perché il marito è un inetto e un disgraziato. Non è che esiste solo la morte per lapidazione a fare un buon film.
Per carità, è un horror, e che nessuno ne esca in gran forma lo do per scontato. Ma siamo passati da SPOILER una famiglia che viene lapidata a morte, consapevole che la loro figlia verrà mutilata, torturata e cresciuta da due psicopatici finchè non ne saranno stanchi e decideranno di sostituirla con un altro bambino a “cattivoni uccisi, e coppia in forte crisi con bambini traumatizzati, tutti salvi”. Definirlo addolcito mi sembra un eufemismo. Il punto per me non è tanto la sorte riservata ai protagonisti, quanto la mancanza di un climax altrettanto forte, a concludere un film costruito su quello.
Qui dopo un film quasi identico, viene troncata la parte per cui la tensione era stata costruita.
La “famiglia braccata in casa” dal demone/psicopatico/serial killer di turno è una cosa vista e rivista, è il finale classico di gran parte degli horror mainstream dell’ultimo decennio. Nulla di male di per se, è girato anche più che decentemente, ma in questo caso è inevitabile il confronto. E mentre l’originale era un buon film con un finale che ti lasciava un buco dentro, questo è solo un buon film.
IN realtà non è identico, ma fa un lavoro molto sottile di modifiche sostanziali ai rapporti di forza tra personaggi.
Poi, davvero, qui è un fatto di cosa si cerca in un film. Io l’originale l’ho detestato proprio per il terzo atto, quindi se lo avessero fatto in maniera simile, avrei detestato anche questo. A me quel tipo di nichilismo edgy, neanche fossimo ancora nel 2005, non racconta più niente, se mai lo ha raccontato. Forse Funny Games è l’unica eccezione, ma perché quel film ha un impianto teorico molto interessante e vive di quello.