
Regia – Larry Fessenden (2023)
Non potete capire quanto tempo io abbia atteso per vedere questo film. È stata una ricerca paragonabile a quella del Sacro Graal, che mi stava portando quasi alla follia e alla disperazione, fino a quando il mio nipote acquisito e personale eroe Vito non è stato in grado di procurarmelo, dandomi la prima, vera gioia del 2024.
Fessenden, che è considerato alla stregua di una guida spirituale, non dirige un film dal 2017. Ne avevamo parlato, di Depraved, la sua personale versione del mito di Frankenstein. Ora passiamo alla sua personale versione de L’Uomo Lupo. Insomma, questo matto, appena ha due lire, fa un film della Universal.
E proprio di due lire si tratta: il budget di Blackout non è basso, è sotto il livello di guardia. È un film minuscolo, scritto, diretto, prodotto e montato da Fessenden, in compagnia di vecchi amici (Barbara Crampton, Joe Swamberg, James Le Gros) che si prestano a brevi apparizioni per infoltire il cast, effetti speciali artigianali e il solito realismo spicciolo dell’ambientazione.
Charley (Alex Hurt) è un pittore che vive nel solito pasuncolo in culo a Bifolcolandia a di cui ormai noi spettatori horror siamo cittadini onorari; ha appena rotto con la sua fidanzata e ha perso anche il lavoro. Lo conosciamo mentre sta lasciando la cittadina diretto verso una destinazione ignota, ma prima ha bisogno di sistemare alcune questioni lasciate in sospeso, come il conflitto con il padre della sua ex Sharon (la sempre adorabile Addison Timlin), invischiato in loschi affari riguardanti la costruzione di un ecomostro a Talbot Falls (sì, il paesuncolo si chiama proprio così) o la necessità di scagionare il suo amico Miguel, accusato dal nugolo di redneck razzisti, tutti esemplari tipici della fauna di Talbot Falls, dei delitti che invece sono imputabili proprio a Charley.
Come sempre, quando ci si avvicina, dopo tanto tempo, a un film diretto da Fessenden, bisogna abituare lo sguardo al suo modo di fare cinema, non solo indipendente, ma anche terribilmente rilassato, quasi si trovasse sul set per caso e avesse deciso che sì, dai, facciamolo pure questo film, come viene viene. Per i primi venti minuti, la storia di Charley sembra procedere senza una direzione precisa: assistiamo al peregrinare del protagonista lungo le strade di Talbot Falls, alle sue fermate per parlare con qualcuno o litigare con qualcuno o chiedere consigli legali a qualcun altro. Tutte cose che, all’apparenza, hanno poco a che vedere con la licantropia. Se non fosse per il prologo, non saremmo neppure certi di trovarci dentro a un film dell’orrore. Nella migliore tradizione del mumblegore, di cui Fessenden è l’inventore e il padrino, sono i dialoghi un po’ stralunati, sovrapposti, sempre vagamente fuori ritmo e fuori luogo.
Anche le musiche hanno una funzione straniante, in perenne controtendenza rispetto alle immagini.
Insomma, è Fessenden nella sua forma più pura. Se Depraved era tutto sbilanciato sul dramma dal primo minuto, Blackout è una commedia agrodolce, malinconica fino al midollo, che soltanto dopo un bel po’ sfocia nell’horror puro.
La parte horror del film, al netto del gore che è presente in dosi abbondanti, è un sentito e doveroso omaggio all’Uomo Lupo di Lon Chaney Jr., ma non solo, anche alla sua versione spagnola di Paul Naschy e, ovviamente, a quello della Hammer interpretato da Oliver Reed.
Il trucco di Charley è infatti quello dei licantropi fino agli anni ’70 e non oltre, e non perché non ci fossero i soldi per dei lupi mannari più realistici, sempre che il termine realistico abbia senso in questo caso. Certo che non c’erano, lo stiamo dicendo dall’inizio, ma non è così che Fessenden lavora: c’è una precisa scelta estetica dietro all’aspetto di Charley trasformato, come c’è nella messa in scena e nell’illuminazione delle sequenze più horror del film; quando Charley corre di notte nel bosco, quando i fari di un’auto lo illuminano mentre sta sgranocchiando la sua vittima, quando, alla fine della sua parabola esistenziale, si trova da solo di fronte a Sharon, pronto e consapevole dei suoi ultimi istanti di vita. È un tipo di orrore antico, precedente l’avvento degli effetti speciali che ha segnato gli anni ’80 e ha cambiato per sempre il modo in cui i licantropi sarebbero stati rappresentati al cinema. Fessenden torna alle origini del mito, vi sfida a sospendere l’incredulità di fronte a un mostro che è soltanto un tizio con un po’ di peli in faccia e delle lenti a contatto, come nel 2013 vi aveva sfidati a fare altrettanto con un mostro marino di cartapesta.
E ci riesce, ci riesce sempre.
Ci riesce perché Fessenden non si limita a riproporre un’estetica e a congelarla nel tempo. Blackout non ha nulla a che spartire con i rigurgiti nostalgici disneyani di Werewolf by Night, e neanche con recuperi filologici, da lui stesso sponsorizzati, alla Ti West. Lui racconta storie contemporanee alle quali aggiunge queste reliquie del passato, per esprimere un concetto molto semplice, ma anche molto potente: l’orrore è un qualcosa di eterno e imperituro, un agente del caos con le radici affondate nel passato, ma si sposa alla perfezione con un contesto che più moderno non si può: il razzismo degli abitanti di Talbot Falls, l’avidità del capitalista locale, che sfrutta gli operai messicani e, allo stesso tempo, li accusa di omicidio per non pagarli neanche quella miseria che dovrebbe loro; la brutale ignoranza e la tristezza sconfinata di queste città di provincia; la tragedia della fine di una storia d’amore; l’impotenza di una persona davanti all’ineluttabilità del suo destino.
Sono tutte tematiche presenti sin dagli albori del genere e che, ovviamente adeguate ai tempi in cui i singoli film sono arrivati nelle sale, si trovano nei classici Universal (o Hammer o Eurotrash) cui Fessenden si ispira. Oggi ci troviamo a parlare di capitalismo, crisi ecologica e suprematismo bianco, ma i concetti di fondo sono invariati, ed è per questo che non ha alcuna importanza se il licantropo sia un vero e proprio lupo un po’ più grosso del normale o un uomo con problemi di irsutismo. Conta solo la storia, come la si racconta e ciò che questa storia ci lascia alla fine.
Blackout è l’ennesima conferma di un maestro del genere, uno di quelli che dovremmo ringraziare ogni mattina quando ci svegliamo e al quale dovremmo rivolgere una preghiera ogni sera prima di andare a dormire.
È solo un peccato che diriga così pochi film. Ma ogni volta è una festa.












C’è speranza di vederlo al cinema? O lo devo recuperare nei meandri internettiani?
Non credo sia mai uscito un film di Fessenden in sala in Italia. Ma proprio mai.
Nemmeno io ho il benché minimo ricordo di un evento del genere, ragion per cui penso che anche stavolta non si farà eccezione (quindi, meglio provvedere di persona)…