Ciclo Zia Tibia 2023: Non Aprite quella Porta: L’inizio

Regia – Jonathan Liebesman (2006)

Come avrete capito, quest’anno Zia Tibia è un po’ fissata con gli horror più fetidi del primo decennio del secolo. Dopo quella prelibatezza rara de Le Colline Hanno gli Occhi 2, ha deciso di rivedersi il prequel di Non Aprite quella Porta, schifato in maniera generalizzata all’epoca della sua uscita e diretto da un’appendice di Michael Bay, che poi ci avrebbe donato le Tartarughe Ninja nel 2014.  
Sono passati 17 anni da quando mi sono ritrovata, in una fredda sera di fine novembre, di fronte a questo puro distillato di estetica anni ’00 in un multisala di Roma. Ora non ricordo bene come reagii al film, con ogni probabilità male, perché quando ero una giovane cinefila dura e pura era proprio quel tipo di linguaggio a irritarmi, e alla fine non ero in grado di vedere niente altro in un film se non le cose che mi davano fastidio. 
Rivisto qualche giorno fa, si è rivelato una discreta sorpresa: è superiore al remake di Nispel in ogni reparto, è più cattivo, più feroce e più compatto perché poco ambizioso. Se il Non Aprite quella Porta del 2003 è un cialtrone che si veste elegante per fare colpo su di te, ma resta comunque un cialtrone, il suo prequel non si vergogna di essere cialtrone e quindi fa simpatia senza troppe pretese. 

Una grossa fetta del merito per la buona riuscita del film va a R. Lee Ermey, che qui è spesso mattatore assoluto della scena e, in alcuni momenti, entra addirittura in modalità Full Metal Jacket e ti scatena dentro un sacro terrore che neppure quel energumeno di Leatherface è in grado di suscitare. Ma non è soltanto la sua presenza a fare di Non Aprite quella Porta: l’Inizio un ottimo rappresentante dell’horror dei primi 2000, perché se così fosse non ci sarebbe troppa differenza con il film di Nispel, di cui comunque è stata qui più volte sottolineata l’importanza.
Il resto del cast fa un ottimo lavoro, sia i carnefici che le vittime, e la sceneggiatura dota i personaggi di una storia un tantino più interessante rispetto ai protagonisti del remake del 2003: c’è di mezzo il Vietnam, ci sono i due fratelli, il maggiore intenzionato a tornare per la seconda volta a combattere, il minore a disertare rifugiandosi in Canada; di conseguenza l’atmosfera generale in cui si svolge il classico viaggio on the road che finisce dritto alla casa degli Hewitt è appesantita da un senso di predestinazione che grava sul gruppetto di morituri. Malgrado ostentino allegria, c’è l’ombra della guerra che li attende (o dovrebbe attenderli, nel caso del fratello più piccolo) a rendere i loro atteggiamenti festaioli forzati e quasi caricaturali. 

Trattandosi di un prequel, ci si aspetta un lungo spiegone sul passato di Leatherface e sulla sua famiglia disfunzionale, ma per precisa scelta di Liebesman, la vicenda, per così dire, umana degli Hewitt è ridotta ai minimi termini: una sequenza che precede i titoli di testa in cui assistiamo alla nascita del piccolo Thomas e futuro Faccia di Cuoio sul pavimento del mattatoio in mezzo al sangue e ai fluidi degli animali uccisi, i titoli di testa che riassumono in maniera sbrigativa la sua infanzia, e il suo burrascoso “licenziamento” dal mattatoio.  Per il resto, questa famiglia di assassini e cannibali resta mostruosa senza alcun tentativo di tramutarla in vittima del sistema. Che uccidano, come ribadisce più volte il personaggio di Ermey, per “non morire di fame” è un mero pretesto: uccidono perché a loro piace e perché sono dei degenerati frutto di accoppiamenti tra consanguinei che non vedi l’ora di veder crepare male. Ora, è logico che Liebesman abbia scelto, se vogliamo fare un discorso politico, la strada più superficiale nel mettere in scena l’ormai celeberrima America profonda e dimenticata dal dio denaro e dal consesso civile, ma da un punto di vista di effetto sullo spettatore, è decisamente tutto più efficace. Gli Hewitt fanno schifo e paura, rientrano alla perfezione nel modo in cui i villain vengono ritratti dall’horror di inizio secolo: sono alieni, sono sudici, sono disgustosi e privi di umana pietà. La differenza tra loro e i mutanti de Le Colline Hanno gli Occhi 2 (o di altri slasher ultraviolenti del periodo) è che gli Hewitt vincono. 

Trattandosi di prequel, è abbastanza ovvio in partenza, ma il film è costruito in maniera tale da dare al personaggio interpretato da Jordana Brewster tutte le caratteristiche tipiche della final girl, e di farle anche percorrere le stesse tappe di Sally nell’originale del ’74 o anche di Erin nel film del 2003, ma più di Sally, con la quale condivide il volo fuori dalla finestra spaccando i vetri, per esempio. È quindi assolutamente lecito che gli spettatori si aspettino che Brewster esca viva dal massacro, anche se è un prequel e anche se sappiamo benissimo che nessuno era a conoscenza delle discutibili abitudini alimentari degli Hewitt prima di qualche anno dopo. Lo stesso, quando alla fine del film ci rendiamo conto che no, non è sopravvissuto nessuno, un po’ di peso sullo stomaco rimane. È difficile che un horror abbia il coraggio di far fuori tutti i suoi protagonisti positivi, di non lasciare in piedi nessuno, di far trionfare con questa protervia il male. Lo aveva fatto anche Rob Zombie nel suo esordio, ma ne abbiamo già parlato: lì c’era l’inversione di ruoli tra antagonisti e protagonisti; qui è molto chiara sin dall’inizio la distinzione, e non c’è un solo momento in tutto il film in cui venga adottata la prospettiva degli Hewitt.

Ricapitolando: sono sudici, sono disgustosi, sono malvagi, sono il risultato di generazioni e generazioni di incesti, eppure alla fine sono i vincitori, e questi bellissimi ragazzi, tra i quali c’è un patriota pronto a tornarsene a combattere e probabilmente a crepare nella giungla, non sono altro che carne da macello: i loro corpi verranno sottoposti a una trasformazione oscena, perderanno gambe, gli verranno estratti tutti i denti, a uno di loro verrà strappata via la faccia per mostrarci il momento in cui Leatherface si è meritato il suo nomignolo; la sega elettrica li squarcerà, li dividerà in due, le loro interiora finiranno a decorare i rivoltanti pavimenti di casa Hewitt, la loro carne finirà nei piatti degli Hewitt, e di loro non resterà più niente. Nessuno li troverà mai e, con ogni probabilità, la loro scomparsa verrà derubricata a diserzione. 

Non possiamo sapere se queste conclusioni così disperate fossero nelle intenzioni di Liebesman e dello sceneggiatore Sheldon Turner (lo stesso del remake di Amityville Horror, ma anche di X-Men: First Class) o se siano semplicemente frutto della natura stessa del film, quella di essere un prequel, ma non credo sia poi così importante: è il risultato finale che conta, e da Non Aprite quella Porta: l’Inizio, si esce abbastanza frastornati e con una dose di angoscia che dura un paio di giorni. O almeno, è quello che è successo a me e alla povera Zia Tibia che voleva solo guardarsi un po’ di squartamenti e budella ed è rimasta sotto shock. È vero che gli horror del periodo non possono essere definiti in alcun modo “leggeri”, perché sempre troppo contaminati con il torture porn; e tuttavia qui si ha l’impressione che tutti facciano tremendamente sul serio. Senza la patina da videoclip dello stile di Nispel, senza la vena di black humor di House of Wax, senza le esagerazioni anti realistiche di un qualsiasi sequel di Saw, The Beginning è davvero un film cupo, rabbioso e diretto come un cazzotto in faccia. Per essere, come dicevamo in testa al post, così privo di ambizioni o di pretese, racconta molto meglio di altri quel rapporto problematico e confuso che l’horror degli anni ’00 aveva con gli anni ’70 e con i resti in putrefazione del sogno americano. 
Una gioia inaspettata. 

8 commenti

  1. Jason13 · ·

    Ricordo che mi piacque già in sala. Tra l’altro ne fui molto soddisfatto perché, a differenza del film di Niespel, qui viene recuperata la scena della cena, centrale nel capolavoro di Hooper (e la cui assenza mi aveva deluso il TCM 2003).
    Contento che, in sede di rivalutazione, sia piaciuto anche a te.

    1. e la fa anche molto bene la scena della cena. infatti la presunta final girl somiglia molto più a Sally che alla protagonista di TCM 2003

  2. Fabrizio · ·

    Tra l’altro, a differenza del film di Nispel che fa la voce grossa ma conclude poco, in The Beginning si sente davvero la puzza di sangue e vomito, è realmente crudo e macabro. Si respira degrado e degenerazione. Nettamente superiore , senza dubbio.

    1. Sì, è molto più marcio, ma non dà l’impressione di artefatto e posticcio che invece ti dà il film di Nispel.

  3. Un pò per culo,un pò per discrete abilità,pare che tale Liebesman abbia delle capacità,anni dopo dirigerà un altro film successivo ad un pessimo remake,stavolta di un classico del genere fantasy a tema mostroni mitologici,facendone un secondo film tutto sommato divertente da vedere.

    1. Evidentemente gli gira bene con i sequel e con i prequel.

      1. Giuseppe · ·

        Nemmeno Darkness Falls era male (come, del resto, l’intera parte della sua carriera precedente a World Invasion)…

  4. Hai già detto tutto te, confermo parola per parola.