
Grazie al buon Muschietti, Pennywise è tornato sui nostri schermi, questa volta piccoli, a sei anni di distanza da IT: Chapter 2. Tecnicamente, Welcome to Derry (cui è stato aggiunto IT in testa casomai non qualcuno non avesse chiaro di cosa stiamo parlando) è un prequel del dittico arrivato in sala tra il 2017 e il 2019; chi però conosce il romanzo sa che non si tratta soltanto di quello: nel mastodonte kinghiano, infatti, sono presenti dei capitoli, chiamati interludi, che raccontano la storia della cittadina e dei cicli di attività dell’essere chiamato IT precedenti quelli del 1958 e del 1985.
Gli interludi, lungi dall’essere dei meri riempitivi, rappresentano una sezione importantissima del libro, perché illustrano come l’entità si sia innestata nel cuore di Derry, ne sia diventata parte, facendo in modo che prosperasse e pretendendo in cambio diversi tributi di sangue. Ogni ciclo termina infatti con una strage, uno scoppio di violenza, una tragedia collettiva. Poi IT torna a riposo e, ventisette anni dopo, si ricomincia da capo. Se i protagonisti del romanzo sono i nostri Perdenti, la protagonista degli interludi è Derry, ed è fondamentale conoscere Derry per capire IT, e viceversa.
Tradurre tutto questo in un meccanismo seriale non è la cosa più immediata del mondo, quindi i Muschietti (Barbara e Andy), più il terzo showrunner Jason Fuchs, si sono andati a cacciare in un bel ginepraio: la natura degli interludi è chiaramente episodica, sono degli spaccati sociali inseriti in determinati contesti storici e poco più. Intorno a essi, o meglio, intorno alle tragedie che li concludono, va costruita una storia spalmata in diverse puntate da un’oretta l’una, cercando di catturare i lettori del libro, gli spettatori del film, e anche un sacco di gente che ha vagamente sentito parlare di Pennywise.
Aggiungiamo anche che la linea temporale da seguire non è quella letteraria, ma quella cinematografica. Di conseguenza è tutto spostato in avanti di una trentina d’anni.
La prima stagione (ce ne saranno altre due, confermate proprio mentre sto scrivendo) si svolge nel 1962, mentre il suo corrispettivo, nel romanzo, è ambientato negli anni ’30. Per i fedeli lettori, è l’interludio dedicato all’incendio al Punto Nero, e qui mi taccio.
Tra i protagonisti, troviamo Will Hanlon (padre di Mike) bambino e un giovane Dick Halloran. I fedeli lettori di cui sopra, sapranno che Halloran è presente durante l’incendio. Ci sono anche un altro paio di nomi e di cognomi che risuoneranno nella memoria dei kinghiani, ma per il resto abbiamo un cast di facce nuove, sia tra i bambini sia tra gli adulti.
La storia della serie, in breve: il giovane Will Hanlon arriva a Derry con la famiglia perché il padre, pilota dell’aeronautica militare, è stato inviato di stanza nella base della cittadina. Nel frattempo, IT comincia il suo ciclo di omicidi di bambini e si forma un nuovo gruppo di “perdenti” che tenta di mettergli i bastoni tra le ruote. A differenza dei film, qui gli adulti hanno un ruolo molto più prominente e sviluppato, in particolare i soldati, e questo accade perché parliamo di Derry, e Muschietti sa che IT uccide i ragazzini, ma soggioga e strega i grandi affinché le sue azioni continuino indisturbate nell’indifferenza generale o per spingerli a cercare dei facili capri espiatori, di solito appartenenti a minoranze.
Ricordiamo che siamo nel 1962, in una piccola cittadina americana conservatrice, e avremo un quadro molto chiaro della situazione senza fare spoiler.
Più l’atmosfera è tesa, più è forte l’incantesimo che IT esercita sugli abitanti di Derry, più è evidente che soltanto dei bambini, con la mente ancora non del tutto obnubilata dal pregiudizio, siano in grado di affrontare questa minaccia e uscirne tutti interi. Forse.
Però Muschietti inserisce, a mio avviso con grande intelligenza, anche un piccolo gruppo di personaggi adulti che non subiscono l’influenza di IT, vuoi perché vengono da fuori, come i genitori di Will o Dick Halloran, vuoi perché sono loro stessi oggetto di discriminazione, vuoi perché sono i guardiani del faro, come i nativi presenti sul territorio di Derry.
Non voglio e non posso aggiungere altro sulla trama, e cercherò di fare molta attenzione a non rivelare niente, ma se non avete ancora visto la serie, vi consiglio di fermarvi qui.
Welcome to Derry è una serie bizzarra. Non saprei come altro definirla. Ha degli alti e bassi che fanno venire le vertigini, perché quando arrivano gli alti, è una delle cose migliori mai viste su piccolo schermo, quando arrivano i bassi, si sprofonda sul serio; parte malissimo, con due primi episodi dalla qualità altalenante e discutibile, salvati parzialmente dalla regia di Muschietti. Anche qui, vi deve piacere il suo linguaggio, molto tipico e caratteristico, e vi deve piacere come usa gli effetti speciali di post produzione, altrimenti rischiate di spaccare lo schermo delle vostre tv.
Muschietti concepisce (e lo abbiamo visto sin dagli esordi con Mama) l’horror come un enorme spettacolo circense: tutto deve essere enorme, gridato, il più possibile distante da qualsiasi forma di realismo. Non usa la CGI per risparmiare, la usa perché vuole dare proprio quell’effetto lì, quasi da cartone animato che interagisce con attori reali. Con il tempo che è passato dai due capitoli di IT, possiamo anche averlo dimenticato, e per questo ci mettiamo un po’ ad abituarci all’eccesso, ma una volta capiti meccanismo e motivazioni, ci rendiamo anche conto che è coerente e voluto. Coerente perché IT è una creatura mutaforma che si serve delle paure infantili per presentarsi al mondo, e l’immaginazione di un bambino è sovradimensionata e ipertrofica; voluto perché certe scelte non sono frutto del caso, piacciano o no.
Al di là dell’estetica, c’è proprio qualcosa che non torna nelle prime due puntate: la struttura è confusa, parcellizzata in mille frammenti che non sembrano connettersi tra di loro. Troppi personaggi, troppe situazioni tutte insieme, tutta una linea, quella dei militari, che procede per conto suo.
Poi Muschietti scopre le carte e Welcome to Derry decolla.
Tornando per un istante a IT, il romanzo, è fondamentale sottolineare che King non divide la narrazione in due parti, come hanno fatto entrambi gli adattamenti (sia la miniserie del ’90 che i film di Muschietti, con parziale eccezione del secondo): presente e passato sono un unico flusso in montaggio alternato e i ricordi dei Perdenti prendono vita e corpo mentre tornano a Derry ormai quarantenni e con la memoria della loro infanzia cancellata.
È il difetto principale che ricorre in ogni tentativo di portare IT sullo schermo, questa netta separazione in due tronconi che non comunicano tra loro. Con una serie, avendo più tempo e spazio, lo scorrere di presente e passato in simultanea riesce più facile, e Muschietti fa esattamente questo. La partenza lenta e un po’ convoluta è un pedaggio che tocca pagare per poi potersi godere la fluidità con cui Welcome to Derry mischia i piani temporali e costruisce un flusso continuo, in cui ricordi, ricostruzione storica, presente e persino futuro convivono in armonia.
Continua ad avere dei problemi, dovuti soprattutto a una compressione eccessiva dei tempi e dei personaggi per incastrarli in otto episodi, ma è affascinante da seguire e, ancora una volta, profondamente bizzarra. Non ogni pezzo del rompicapo alla fine trova la propria collocazione, e ci sono elementi che funzionano peggio di altri, come i loschi piani dei militari che rappresentano il punto debole dell’intera impalcatura, ma il risultato è soddisfacente e credo che Welcome to Derry sia il lavoro più interessante, complesso e stratificato di Muschietti.
Il regista conosce IT parola per parola, e dimostra di averne carpito l’essenza, ovvero il racconto di quel delicatissimo passaggio in cui le circostanze della vita determinano il tipo di persone che diventeremo a partire dalle figure plasmabili che siamo nel corso della nostra infanzia: IT ha sempre parlato di scegliere da che parte stare e Welcome to Derry riesce a rendere in maniera chiara, dolorosa, anche commovente il peso di queste scelte e quanto ci costano, quanto male fanno, quale tributo di perdite strazianti richiedono.
Non ha poi molta importanza se qua e là ci sono dei momenti che fanno roteare gli occhi o se la CGI è posticcia o, ancora, se la fretta e l’ansia di creare un enorme baraccone dell’orrore, di stare dietro alle pressioni e alle richieste esose della HBO, di non scontentare nessuno, portano a una serie di vicoli ciechi narrativi, quando hai chiaro il nucleo emotivo della tua storia.
È nei due episodi finali che Muschietti fa deflagrare questo nucleo e ti colpisce con una forza che, persino io, non pensavo possedesse.
Per il resto, il cast di giovani attori è ottimo, con una menzione speciale per Matilda Lawler e Arian S. Cartaya che mi hanno rubato l’anima, e Bill Skarsgård è un Pennywise magnifico, in ogni sua incarnazione.
Sarà interessante vedere come costruiranno le altre due stagioni, considerando che si andrà a ritroso nel tempo, ma è proprio il tempo, anzi, la sua percezione, il punto cardine di questi primi otto episodi, e io confido in Muschietti, e lo ringrazio per continuare a dare vita al mio romanzo preferito e a non deludermi mai.












Ho amato talmente il romanzo, finale a parte , che non riesco ancora ad avvicinarmi ai nuovi film / serie TV
Grazie per il prezioso incentivo !