Solvent

Regia – Johannes Grenzfurthner (2024)

Oggi andiamo sul complicato e affrontiamo un oggetto stranissimo, quasi impossibile da valutare e pure impegnativo da vedere; ogni tanto ci vuole pure qualcosa che ci faccia sentire meno comodi mentre guardiamo un film, che assuma delle sembianze a una prima occhiata familiari, e poi, mentre i minuti scorrono, sempre più aliene, tanto che facciamo fatica a riconoscere i codici ai quali abbiamo fatto l’abitudine in tanti anni di cinema di genere.
Solvent arriva dall’Austria, anche se è girato in larga percentuale in lingua inglese. Vorrei fare quella che ne sa a pacchi e dirvi che io, il suo regista, Grenzfurthner, lo seguo dagli inizi della carriera, ma non è vero: non avevo mai visto niente di suo e ora, dopo l’esperienza di Solvent, non sono neanche sicura di volerlo approfondire più di tanto.
Non è il mio cinema, non è quello che di solito cerco in un film. È, appunto, una scossa alla mia zona di sicurezza di spettatrice, salutare, ma da prendere a piccole dosi.

Sulla carta, Solvent è un found footage: il protagonista (che non vediamo mai in faccia), reduce di guerra ed ex mercenario americano Gunner, possiede una società che si occupa di andare alla ricerca di manufatti, documenti, oggetti di qualche rilevanza storica e considerati perduti. Viene assunto dalla studiosa di storia polacca Krystyna per andare a frugare nella fattoria dell’ex ufficiale nazista Wolfgang Zinggl, situata in una zona remota delle campagne austriache. L’uomo, molto anziano, è scomparso misteriosamente nel 2014, e la casa dove ha vissuto dalla fine della guerra in poi è abbandonata e in rovina.
Gunner riprende ogni cosa con una body-cam, ogni fase della ricerca, ogni faldone spostato, ogni cimelio o reliquia rimasta nella vecchia casa di campagna.
Durante i lavori, però, succede qualcosa: viene scoperta una cantina di cui nessuno, neanche il nipote di ZInggl, era a conoscenza, e si verifica un terribile incidente che mette fine alle ricerche.
Gunner si fa prendere dall’ossessione per Zinggl, la sua casa, il suo passato, la documentazione che potrebbe essere nascosta da qualche parte nella cantina, e prosegue da solo, con risultati nefasti.

Se si escludono i primi venti minuti del film, durante i quali sono presenti altri personaggi, e qualche sporadica apparizione del pittoresco vicino di casa di Zinggl e di suo nipote (interpretato dallo stesso regista), Solvent è una soggettiva perenne del protagonista, da solo in mezzo ai boschi o nella mefitica cantina del vecchio nazista, che si lancia in lunghi e sconnessi monologhi mentre riprende il paesaggio circostante. 
L’inizio di Solvent è quindi un tradizionale found footage neanche così pieno di stranezze, anzi; somiglia a decine di opere analoghe di cui abbiamo qui discusso altre volte: c’è un mistero da svelare, la scomparsa del vecchiaccio, un gruppo di professionisti che si mette a smontarne la casa pezzo dopo pezzo, nella speranza che emerga qualcosa di rilevante dal suo passato, e un fattaccio inspiegabile che costringe tutti quanti a tornare a casa. 
Poi il film cambia pelle, entra nei territori del cinema sperimentale, sconfina nella video-arte, mischia filmati e foto d’archivio con la finzione scenica, ma essendo gran parte del materiale fotografico proveniente dalla famiglia di Grenzfurthner (poi su questa cosa ci torniamo), crea un cortocircuito tra storia, racconto e realtà, che disorienta e destabilizza. Va aggiunto che Solvent tocca dei temi molto delicati con la grazia di un ippopotamo, e facendo uso di un umorismo grottesco e nerissimo che potrebbe seriamente dare fastidio. 

Lungi dall’essere un semplice nazisploitation horror, Solvent vive e prospera sul contrasto tra l’argomento principale del racconto, l’emersione di un passato che agisce sul presente come un’infezione, e il modo in cui questa infezione si propaga e si attacca addosso al protagonista, che è terribilmente triviale, così basso e verrebbe da dire infantile, che non si riesce mai a determinare con certezza assoluta se Grenzfurthner si stia prendendo gioco del suo pubblico.
È interessante il concetto di trattare il nazismo e i suoi discendenti contemporanei sparsi per il mondo alla stregua di escrementi, e infatti credo che la quantità di urina presente in Solvent stabilisca una sorta di record per il numero di inquadrature contenenti piscio usate in un solo film, ma comprendo anche che possa allontanare in preda al disgusto molti spettatori, sopratutto quando la direzione che prende il film è chiaramente quella del body horror, pure abbastanza estremo, se si pensa a quale parte del corpo finisca per subire i danni maggiori.
Eppure, il senso di tutta l’operazione è quello di mettere in scena un decadimento culturale e fisico, un’idea di immortalità parassitaria e che, per essere messa in atto, ha bisogno di contaminare il mondo, attraverso l’elemento che, più di tutti gli altri, si insinua ovunque ed è impossibile da tenere a bada: l’acqua.

Per questo Solvent, al di là dei cazzi mutilati e delle bottiglie piene di pipì di vecchi nazisti, è di un pessimismo che toglie la voglia di campare: la catapecchia dove viveva Zinggl, con le pareti ricoperte di muffa, lo sporco e l’umidità negli angoli, gli oggetti accumulati nel corso degli anni che si sfaldano quando li prendi in mano, il tanfo, le esalazioni di morte , e quella cantina che nasconde orrori cosmici appena sotto il terreno, è soltanto una riproduzione su piccola scala del nostro mondo, che si ostina a non voler confrontarsi col proprio passato e lascia che esso tracimi nel presente, lo inondi, lo possieda e lo trasformi in una sua replica, soltanto più grottesca, più ridicola, una farsa in cui, alla fine, dissolversi in un liquame fetido, resta l’opzione più nobile, quella che richiede meno compromessi con la propria coscienza.
Il problema è che questo impianto ideologico molto coerente (nonché controverso in alcuni punti) viene messo in scena nel modo più ostico e respingente possibile. Solvent non è un film che guardi per passare il tempo, è un esperimento a cui ti sottoponi, non del tutto volontariamente, un incubo in soggettiva dal quale finisci risucchiato e, quando cominciano a scorrere i titoli di coda, non sai bene cosa farci, tanto sei frastornato dal montaggio che procede per accumulo di immagini sempre più rivoltanti, dal sonoro che sembra fatto apposta per farti perdere l’udito. 

Il film è stato girato nella vera casa del nonno del regista, le foto di repertorio che vediamo sono quelle del regista da bambino e di suo nonno, gli oggetti presenti in scena appartenevano davvero alla famiglia di Grenzfurthner. Io credo che sia un dettaglio non trascurabile, perché Solvent è una specie di esorcismo nei confronti del passato di un paese (in questo caso l’Austria) e di un individuo, il regista, che sta cercando di farci i conti, di venirne in qualche modo a patti.
Lo fa con una certa ironia e, quando vedrete l’ultimo cartello dei titoli di coda, forse avrete anche lo stomaco di farvi una risata, ma si tratta lo stesso di materiale incandescente.
Rispetto moltissimo Grenzfurthner per questa sua opera così personale e, allo stesso tempo, capace di evidenziare i tratti comuni di un’intera civiltà, quelli più nascosti e repellenti. 
Certo, non è un film che rivedrò mai e vi consiglio di maneggiarlo con cura e di non andarci a cuor leggero.

5 commenti

  1. Avatar di Giuseppe
    Giuseppe · · Rispondi

    Johannes Grenzfurthner? Mai sentito nominare prima d’ora, in effetti. Qui, in pratica, si tratterebbe di fare la media fra un soggetto interessante e una messa in scena rivoltante (detto in estrema sintesi): un’occhiata gliela posso concedere anche se, probabilmente, rimarrà l’unica pure per il sottoscritto…

  2. Avatar di tommaso

    Oddio, sei riuscita a descrivere un qualcosa che da una parte mi intriga molto e dall’altra non se se vorrei toccare neanche con un bastone…

    1. Avatar di Lucia

      Esattamente la sensazione che ti dà il film!

  3. Avatar di Edo

    La cosa più orrorifica resta la suoneria. )

    1. Avatar di Lucia

      E il volume a cui veniva sparata

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