Queens of the Dead

Regia – Tina Romero (2025)

C’è una vecchia foto di scena, scattata durante le riprese di Day of the Dead, che mi è sempre piaciuta tantissimo, forse perché mi ricorda la mia infanzia: si vede George Romero che ride insieme a Sherman Howard truccato da Bub. Il regista tiene in braccio una bambina che non avrà neanche un paio d’anni, e le se ne sta lì tutta tranquilla, con questo mostro che le fa le faccette buffe.
La bimba è Tina Romero, cresciuta tra gli zombi, e la foto ha esattamente quarant’anni.
Io non lo so se è un problema mio, che sono una sentimentale di merda, ma quando ho saputo, all’inizio del 2024, che Tina si era messa dietro la macchina da presa per girarlo lei, un film di zombie, ho ripensato a quella foto e mi sono fatta uno dei pianti più lunghi e liberatori della mia vita.
Quindi, comprendetemi e, se volete, compatitemi, ma per me Queens of the Dead non è un film come tutti gli altri; è speciale, è un destino che si compie, è un’eredità che vive nel nostro sangue.
Per mia fortuna, è anche una gran bella horror comedy, e uno dei pochissimi film di zombie recenti a fare qualcosa di interessante con un materiale che, lo sappiamo tutti, è diventato stantio.

Dre (Katy O’Brian) sta cercando di organizzare una serata drag nel suo locale tra mille imprevisti, quando arriva l’imprevisto definitivo: i morti non trovano posto all’inferno e decidono di camminare sulla terra. Insieme a una variegata compagine gruppo di amici, conoscenti e rivali, Dre dovrà passare la notte chiusa nel suo bar, aspettando che sua moglie Lizzy (Riki Lindhome) la raggiunga per lasciare la città insieme.
Come dicevo sopra, il materiale è sempre il solito e ormai puzza un po’ di chiuso: il gruppo di persone assediate in un interno lo abbiamo visto tante di quelle volte che ci è venuto a noia. Ma vale anche il vecchio adagio per cui non è necessario reinventare la ruota, se questa funziona e ti porta sempre da qualche parte. È tuttavia necessario svecchiarla e soprattutto rifarle il trucco.
Romero la ruota la ricopre di lustrini e strass, e la usa per portarci dentro a un universo che, al contrario di quanto fa il cinema mainstream contemporaneo, è interamente popolato da personaggi queer. L’unico etero presente in scena , mè quello strano, quello diverso, obbligato ad adeguarsi a chi gli sta intorno, a imparare un nuovo linguaggio e un nuovo modo di occupare lo spazio con il proprio corpo.

È importante tenere presente che il film di zombie degli ultimi vent’anni è diventato, grazie soprattutto al remake di Snyder di Dawn of the Dead, la sede del più smaccato e involontariamente caricaturale survivalismo machista. Eppure, in nessuna delle opere di Romero esiste questa componente, anzi, il regista si è sempre mosso nella direzione opposta, e basta vedere Day of the Dead che, insisto, è il suo capolavoro, per rendersi conto di quanto il concetto della sopravvivenza del più forte, del più duro, del più cattivo, fosse estraneo a Romero. 
Tina dialoga costantemente con il cinema di suo padre, sia quando lo omaggia (c’è Savini in una particina) sia quando lo tradisce, e il dialogo è più interessante nel secondo caso che nel primo. Già me li vedo tutti a tuonare su Letterboxd e affini che questo non è un film di George Romero. Grazie, Gianfilippo, lo sapevamo, è infatti un film di Tina Romero che rivendica la propria indipendenza, pur nel solco di un discorso iniziato nel 1968. 
Se non esistono personaggi normativi tranne uno, e se anche lui deve deviare dalla norma per integrarsi nel gruppo, la salvezza non è più legata alla forza fisica, alla spietatezza, alla mancanza di legami. Gli zombie non si combattono più a fucilate, ma con balli e canti; gli infetti non si eliminano più al primo morso, ma li si accompagna nel loro processo di trasformazione; non si esclude più, ma si include; il luogo dell’assedio non è l’ultimo rifugio dell’umanità, ma soltanto un punto di passaggio e la soluzione non è chiudere gli zombie all’esterno, è farli entrare.

Una delle scelte più radicali compiute da Romero in questo suo esordio è quella di non inserire antagonisti umani all’interno del racconto: non ci sono persone cattive, non c’è il capitano Rhodes della situazione, non c’è un Henry Cooper. È proprio un tassello mancante, perché l’essere umano spregevole che, prima o poi, manda all’aria tutto e diventa un ennesimo elemento di pericolo per i protagonisti, è uno dei pilastri delle storie apocalittiche, con gli zombie o senza, rappresenta la malvagità intrinseca della natura umana, ti spinge a chiederti chi siano i veri mostri, funge da contrappunto morale per tutti gli altri personaggi e ne determina i limiti.
In Queens of the Dead sospettiamo che il predestinato ad accollarsi questo sgradevole fardello sia Barry, il cognato di Dre, ma poi il suo atteggiamento cambia nel corso del film, e diventa semplicemente parte di questa pittoresca famiglia.
Non è mancanza di coraggio da parte di Tina Romero, è una presa di posizione politica ben precisa: cambia infatti lo spaccato di società che vediamo affrontare la minaccia costituita dagli zombie. 
All’esterno dello Yum, il locale in via di smantellamento di cui Dre è proprietaria e dove si svolge gran parte del film, ci sarà pure tutto il cinismo del mondo, ma noi non lo vediamo, perché i nostri protagonisti sono stati troppo impegnati, ogni secondo della loro vita, a sgomitare per conquistare un piccolo spazio in un mondo che li rifiuta per essere cinici. Usano altre armi, la loro educazione sentimentale è stata diversa, sono estranei alle logiche che formano personaggi come Rhodes. 

Una volta eliminata quella logica, che si basa sulla prevaricazione e sull’istinto predatorio, è normale che non si ragioni più secondo l’adagio “mors tua, vita mea”, che questa dinamica venga definitivamente oltrepassata. Ci sono voluti quarant’anni e centinaia di film sugli zombie, ma ci siamo arrivati, e trovo poetico che ad arrivarci sia proprio la figlia di George Romero, in una commedia horror che, a partire dal titolo, fa il verso alle opere del padre.
Il risultato è un horror che non mi procura alcun imbarazzo definire incantevole. Lo so da me che è una parola fuori luogo per un film in cui i morti camminano, ma è quello che ha voluto fare Romero, e forse questo ribaltamento del punto di vista e del tono è l’unica opzione che abbiamo per dire qualcosa di nuovo sui nostri cari estinti con tendenze cannibalistiche. 
È un po’ come se esistesse una versione queer di Shaun of the Dead, il vero punto di riferimento di Queens of the Dead, Romero padre escluso, ovviamente. A partire dall’idea di trovarsi chiusi dentro a un bar che rappresenta il posto più familiare per ogni personaggio, fino a una rappresentazione dell’amicizia molto simile a quella di Wright, ma togliendo la corrosiva ironia britannica e sostituendola con tanto calore. E l’illuminazione rosa e viola. E i costumi di scena delle drag queen, uno più bello dell’altro. 

Non so se sia un film la cui comprensione profonda è relegata a un piccolo gruppo di iniziati, in grado di comprendere una serie di codici, linguistici, comportamentali, persino cromatici, che sono specifici della cultura queer. Probabilmente questo è il limite maggiore di un film tuttavia ben conscio di rivolgersi a una fetta di pubblico circoscritta, ma capace di toccare il cuore anche degli altri, come Dre e il suo gruppo di amici toccano quello di suo cognato.
C’è una galleria di personaggi indimenticabili e raccontati con grande tenerezza da parte di Romero, che non risparmia delle morti dolorose, perché siamo sempre nel bel mezzo della fine del mondo, e qualche sacrificio va fatto.
Anche la figura stessa dello zombie subisce un aggiornamento all’epoca contemporanea, molto in linea con quanto aveva fatto Romero in Dawn of the Dead, con i morti che ripetono i loro gesti quotidiani e tendono a tornare nei posti che conoscono, ma in salsa anni ’20 del XXI secolo.
Se proprio gli devo trovare un difetto, è che mi sarei aspettata un minimo di gore in più, ma comprendo che il budget è quello che è, e quindi evito di lamentarmi.
I morti viventi glitterati sono il mio nuovo impero romano.
Papà è tanto orgoglioso di te, Tina.

14 commenti

  1. Avatar di Frank La Strega

    Grande!😀

    Non me lo perdo neanche… morto!🧟‍♀️

    1. Avatar di Lucia

      più zombie glitterati per tutti!

      1. Avatar di Frank La Strega

        DRAG me to Hell!😁

        “Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti glitterati sfileranno sulla Terra!”🧟‍♀️🪩

  2. Avatar di Giuseppe

    Gianfilippo si tenga la sua opinione, che io Tina Romero voglio vederla all’opera! 😉👍

    1. Avatar di Lucia

      E non ti pentirai della tua scelta!

  3. Avatar di Blissard

    Grande recensione, corro al recupero

    1. Avatar di Lucia

      Grazie! Poi fammi sapere!

  4. Avatar di Austin Dove

    euforico ti sia piaciuto, per me è stato uno dei migliori film del roff 2025 – ok, ne ho visti pochi ma l’ho amato!
    so che a un sacco di gente non è piaciuto, ma io l’ho trovato ilare, con un ottimo art design e una bella satira con molti inside jokes e problems interni alla comunità queer

    1. Avatar di Lucia

      La battuta: “I’m pregnant”
      “On purpose?” mi ha uccisa

      1. Avatar di Austin Dove

        Io ho adorato il filtro gay applicato a tutta la vicenda. E il primo omicidio mi ha steso.
        Secondo te, il contagio era nella pillola o nei rapporti sessuali? Per me nella pillola, dal finale

        1. Avatar di Lucia

          Nella pillola, assolutamente. Lo dice all’inizio la ragazza all’ospedale che deve avvisare lo spacciatore perché c’è una partita di pasticche cattiva. È quella.

          1. Avatar di Austin Dove

            Ah me l’ero perso

  5. Avatar di gmxter

    bella recensione. Mi ha incuriosito.. l’autrice, tanto quanto il film.

    Da cui queste due righe, a volte fa bene dire quando qualcosa è fatto bene.

    1. Avatar di Lucia

      E io ti ringrazio tantissimo!

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