
Regia – Fabien Delage (2017)
Il Day 12 era dedicato agli Hotel da Brivido e io sono corsa da Lucio Fulci e dal suo albergo in Louisiana. Il Day 13 invece riguarda tutti quegli horror con un’ambientazione fredda, invernale, possibilmente con la neve e i geloni.
Ho scelto un bizzarro found footage francese, perché non lo avevo mai visto e stava lì a incuriosirmi da anni, e perché è uno dei pochi film della sua specie ad avere un’ambientazione vintage.
Cold Ground si svolge infatti negli anni ’70 ed è la storia di una spedizione sulle Alpi al confine tra Francia e Svizzera che va a finire nel peggiore dei modi possibili.
Girato in un fantastico Super 8, Cold Ground è un found footage puro. I filmati cui assistiamo sono stati infatti ritrovati sulle montagne la bellezza di quarant’anni dopo la loro realizzazione, a opera dei due giovani giornalisti francesi protagonisti, scomparsi nel 1976.
Nel disclaimer iniziale, si legge che le cartucce sono state digitalizzate e assemblate senza alcuna manipolazione a posteriori. Guardiamo, dunque, tutto ciò che è stato girato, comprese le cosiddette parti inutili.
Melissa e Daniel sono due giovani reporter di una tv francese a cui è stato affidato il primo servizio davvero importante: devono indagare su alcune mutilazioni di animali avvenute non lontano da un centro di ricerca. Quando arrivano sul posto, trovano soltanto uno scienziato e un poliziotto americano che si trova lì per delle similitudini con un caso che sta seguendo negli Stati Uniti. Tutti gli altri si trovano in un rifugio a quattro giorni di cammino e hanno dei problemi di comunicazione con il campo base.
Melissa e Daniel decidono quindi di raggiungere il grosso degli scienziati e si mettono in viaggio su un sentiero innevato attraverso le montagne. Insieme a loro, oltre al poliziotto, ci sono una giovane biologa e una guida alpina.
Disseminati lungo il tragitto, ci sono dei resti animali: ossa, carcasse intere parzialmente divorate, e sembra che qualcuno li abbia messi lì apposta perché loro potessero trovarli, come avvertimento o come minaccia.
Essendo dei novellini della montagna e non avendo la minima idea delle condizioni proibitive che dovranno affrontare, Daniel e Melissa procedono a rilento e rallentano anche il resto del gruppo. In ritardo sulla tabella di marcia, stanchi, infreddoliti, si rendono conto di non essere soli.
Cold Ground non è esattamente un gran film: ha una struttura narrativa abbastanza confusa, non è mai del tutto chiaro quale sia il motivo dell’indagine e cosa ci sia davvero in gioco. Tutta la prima parte è di una lentezza esasperante perché vediamo soltanto gente che cammina in mezzo alla neve ripresa di spalle e, per finire, ci sono dei passaggi del tutto arbitrari.
Ciò detto, a me è piaciuto parecchio per altri motivi, innanzitutto quello che lo lega al tema della giornata di oggi: arrivata a circa metà della visione, ho sentito l’esigenza di prendere una copertina, e vi assicuro che le temperature a Roma sono tutt’altro che basse. Cold Ground ha un modo estremamente efficace di raccontare il freddo, quello vero, che una persona nata e cresciuta in una città dal clima temperato non ha mai sperimentato e mai sperimenterà in tutta la sua vita.
Pur senza ricorrere a nulla di particolarmente estremo, tranne una valanga che però arriva quando siamo già tutti mezzi congelati, Cold Ground ti presenta il freddo come una condizione costante, un mostro strisciante e insidioso che si piazza sotto il sacco a pelo nella tenda, che ti entra dentro le ossa, che ti sale sulle spalle e ti resta addosso sempre. Non c’è difesa, non c’è protezione e non smette mai.
Puoi pure avere qualche problema in fase di sviluppo della storia, ma se mi imposti così bene l’ambiente, se riesci a darmi la sensazione precisa di quello che stanno sentendo i protagonisti, l’orrore viene quasi da solo, ed è sempre efficace, qualunque natura esso abbia.
Credo che Delage sapesse benissimo di avere tra le mani un film pieno di punti deboli e se ne sia anche giustamente fregato, puntando tutto sull’atmosfera, sul passaggio graduale di Melissa e Daniel da uno stato di stupore quasi divertito (è la loro prima esperienza professionale rilevante, stanno insieme, sono giovani), a uno di vaga preoccupazione, fino ad arrivare all’assoluta prostrazione fisica, al terrore e, infine a una sorta di rassegnata calma davanti all’ineluttabile.
Non credo esista niente di peggio che smarrirsi in un luogo sconosciuto e ostile, dove la morte non è soltanto un’eventualità remota, ma un pericolo reale, concreto, che si avvicina ogni ora di più. È già orribile così. Aggiungerci un elemento soprannaturale è soltanto condimento. Era così ai tempi di The Blair Witch Project, lo è a maggior ragione quando ci si perde sulle Alpi senza avere gli strumenti per sopravvivere.
C’è poi tutto il lato d’epoca del film che su di me esercita un fascino particolare. È difficile trovare un found footage che non si svolga in un’epoca contemporanea alla sua uscita, e il motivo è molto semplice: il genere nasce quando nascono le telecamere portatili e amatoriali. Già in The Blair Witch Project c’era un’ibridazione tra i supporti digitali e quelli analogici, dato che i ragazzi se ne andavano nel bosco con diversi tipi di camere, tra cui una 16mm. Ma comunque il grosso di ciò che vediamo è video. Con gli anni ’70 questa roba non è ancora possibile da mettere in pratica. Daniel, che è l’operatore di macchina, porta con sé una delle prime macchine da presa capaci di registrare anche il suono oltre che soltanto il video, e già questo semplifica di parecchio la realizzazione del film. Resta tuttavia un’attrezzatura complicata, che necessita la presenza di qualcuno che abbia le capacità per usarla. Se il found footage, soprattutto a metà degli anni ’10 di questo secolo, è amatoriale, Cold Ground è obbligato all’utilizzo di un paio di figure professionali. Il risultato è che, fino a quando i nostri sono ancora in uno stato di relativa tranquillità, le immagini sono bellissime e catturano il silenzio e la vastità di un luogo dove la nostra presenza non è necessaria.
Ultima cosa, ma non meno importante, da un certo punto in poi, Cold Ground fa paura; la scelta di non mostrare mai a tutto campo le creature che vivono sulle montagne, se non per una manciata di fotogrammi, sgranati, fuori fuoco e pure in movimento, accresce il senso di mistero legato a questi predatori sconosciuti all’uomo e veri padroni di quella zona al confine franco-svizzero.
Come nei più intelligenti eco-horror (cui Cold Ground appartiene, anche se non del tutto), il film è la storia dell’invasione, per quanto inconsapevole, di un territorio.
Non viene data una precisa caratterizzazione di queste creature, e online c’è una certa quantità di interpretazioni, ma una cosa è certa: quel posto appartiene a loro, mentre Melissa, Daniel e gli altri sventurati, ci sono soltanto finiti dentro.
I continui riferimenti allo scioglimento dei ghiacciai e al riscaldamento globale tuttavia, fanno anche intuire che i bestioni stiano scendendo sempre di più a valle per carenza di cibo.
Quindi sì, quello di Cold Ground è un orrore naturale ed ecologico che lo pone a qualche metro di distanza dal semplice creature feature.
In ogni caso, è un piccolo esperimento da riscoprire.












Giorno Lucia,per la challenge di ieri,mi sono rivolto al sempreverde “1408”,mentre per quanto riguarda la challenge di oggi,mi sono riguardato con gusto il sottovalutato “Wind Chill”.
Cold Ground non l’ho mai visto, quindi me lo recupero… La mia gelida e nevosa scelta per oggi ricade su The Dyatlov Pass Incident di Renny Harlin.
Mi è venuto freddo solo a leggere…🥶
Day 12: “Doctor Sleep”
Day 13: “Hold The Dark”