
Regia – Zach Cregger (2025)
Il viaggio del cosiddetto “elevated horror”, nei dieci anni o giù di lì da che esiste questa definizione (opinabile, ma utile), è stato tortuoso, pieno di curve a gomito e di svolte inaspettate, ed è giunto in dirittura d’arrivo mutato. Basta vedere i due horror più importanti dell’estate cinematografica, Bring Her Back, il macigno dei Philippou, e appunto Weapons, il rompicapo di Cregger, per rendersi conto del fatto che il genere è in continua evoluzione e si sta rifacendo il trucco proprio davanti ai nostri occhi.
Entrambi i film hanno delle caratteristiche che potrebbero assimilarli a questa nebulosa corrente, ma allo stesso tempo, entrambi la rifiutano, ognuno a suo modo, la trasformano, sono consapevoli del suo passaggio, eppure non ne hanno davvero bisogno. Forse parlare di elevated horror serve molto di più a quella critica che, quando un horror è bello, fa parlare di sé, incassa anche tanto, si affretta subito a dire che no, non si tratta di un semplice horror.
Se Bring Her Back si è rivelato un insuccesso al botteghino, ma era, credo preventivato, Weapons si è comportato molto bene. La sua relazione con l’horror sofisticato è anche più complessa di quella di Bring Her Back, perché i GRANDI TEMI non sono direttamente in mostra, nel film di Cregger, e anzi, trovare un tema centrale, o addirittura un senso preciso al suo film non è immediato, e neanche troppo necessario.
L’operazione dei Philippu, ovvero mettere in primo piano i pilastri dell’elevated horror (lutto e trauma) per poi presentare al pubblico un’opera estrema e spigolosa è più plateale di quella di Cregger, che invece si sottrae volutamente a mettere in scena questi pilastri. O meglio, li mette anche in scena, perché Weapons parla di un’intera cittadina traumatizzata e a lutto, ma li tiene sullo sfondo, come a dire: lo sappiamo, sono quindici anni che l’horror parla di questo, diamolo per scontato. Si concentra, invece sulla struttura e sul linguaggio, consegnandoci un film che somiglia molto a una riflessione meta sull’horror contemporaneo.
Abbiamo un impianto classico da fiaba (Il Pifferaio, lo sapete voi, lo so io), con i bambini scomparsi nel nulla che si addentrano nel bosco correndo in quella maniera strana, buffa (e assolutamente memabile) e parecchio inquietante. Su questa base, che è davvero il punto di partenza di un qualsiasi “c’era una volta”, ribadito anche dalla voce fuori campo nei primi minuti, la sceneggiatura lavora per l’ufficio complicazioni affari semplici. Non lo dico per sottolineare un difetto o una mancanza del film, lo prendo come mero dato di fatto.
Cregger, infatti, moltiplica i punti di vista, costruendo un racconto corale spezzettato (alla maniera di Altman, così non sono costretta a citare Anderson per la centesima volta questa settimana) e dividendo la vicenda in capitoli, ognuno di essi raccontato tramite la prospettiva di uno dei personaggi. Ci capiterà spesso di assistere, quindi, allo stesso momento ma da un’angolazione diversa, a seconda di come la maestra Justine (Julia Garner), l’afflitto padre Archer (Josh Brolin), l’agente di polizia Paul, il tossico James e il dirigente scolastico Marcus lo hanno vissuto.
Questo, non solo permette a Cregger di mantenere più a lungo il segreto su che fine abbiano fatto i bambini, aumentare il fattore mistero e anche movimentare parecchio il suo film, ma dà a noi la possibilità di conoscere un po’ meglio questa cittadina, sia da un punto geografico sia da un punto di vista emotivo.
Entriamo infatti nel film in medias res, i personaggi non ci vengono presentati e tocca a noi sistemarli nelle giuste caselle, sbagliando, il più delle volte. L’horror del XXI secolo è sempre più avaro di spiegazioni e ti offre a malapena gli elementi essenziali. Il resto sta a te.
Questo bizzarro puzzle che ti fa la mappatura del cinema dell’orrore degli anni ’20, non è tuttavia un testo esoterico per iniziati: è un horror molto fruibile, molto divertente, che intrattiene dal primo a centoventesimo minuto di durata, con un montaggio preciso al cronometro e un ritmo che non molla un secondo.
Fa sorridere spessissimo, Weapons, perché racconta soprattutto di uno smarrimento generalizzato, e noi esseri umani siamo molto buffi quando perdiamo il controllo sull’ambiente che pensavamo di conoscere e dominare, quando non siamo padroni di noi stessi e delle circostanze.
Come anche Barbarian prima di lui, ma in maniera più centrata, Weapons è una commedia degli orrori, un sberleffo pieno di jump scare e di attimi spaventosissimi, che tuttavia mantiene sempre un tono tale da non farti del tutto comprendere se fa sul serio o ti sta prendendo in giro.
Si tratta di salire sulla giostra e godersi il viaggio, anche se alla fine non ti porta davvero da nessuna parte. Creggers racconta storie per il gusto di farlo, pasticcia coi generi e li mescola tra loro. Nel suo esordio aveva fatto un film che cambiava genere in corsa, qui li mette tutti insieme nello spazio di due ore: l’horror soprannaturale di stampo fiabesco, il poliziesco, la commedia, il thriller investigativo, l’home invasion, e pure un pizzichino di fantascienza anni ’50, dagli ultracorpi in poi.
Ci sta dicendo che con l’horror si può fare tutto, che non è materia fissa e rigida, ma plasmabile in una pluralità di forme diverse, e se sei abbastanza bravo, puoi pure provare a usarle tutte.
Ma ci dice anche che le fondamenta di ogni storia dell’orrore risiedono, appunto, nelle fiabe, che possiamo smontare, ricomporre, smembrare e anche distruggere il modo in cui ce le raccontiamo, ma sempre alle fiabe torniamo.
C’è sempre della magia, da qualche parte, c’è sempre una strega, c’è sempre un sistema per farla finire nel suo stesso forno.
Poi sì, se lo si desidera, ci sono anche i GRANDI TEMI: c’è una comunità assuefatta e asservita alla violenza (lo dice il titolo del film, dopotutto), c’è una caccia alle streghe in piena regola, c’è la sfiducia nell’autorità e c’è il ruolo inutile, quando non dannoso, delle istituzioni varie, siano esse scolastiche o di natura legale.
C’è il concetto, estremamente craveniano, che alla fine i bambini i guai se li devono risolvere da soli, perché gli adulti se ne vanno in giro come mosche impazzite a cercare una soluzione complessa a un problema che è, in realtà, semplicissimo, e infatti è il punto di vista di Alex, l’unico bambino della classe di Justine a non essere sparito, a mostrarci come sono andate davvero le cose.
Credo che tuttavia, più di ogni altra cosa, sia la nozione di comunità a uscirne con le ossa rotte. L’idea stessa del far fronte insieme a una minaccia che grava su tutti, un’idea che è stata il cuore di quella fantascienza anni ’50 sopra citata, e vedeva proprio nelle piccole comunità sotto attacco il cardine del discorso: la capacità di mettere da parte le differenze e le divergenze quando si è in pericolo e di diventare un corpo compatto. Tutto questo, nel film Cregger, non esiste. Che poi credo sia la vera ragione narrativa dietro alla struttura così frammentaria: al punto di origine del disastro ci arrivano tutti, ma ci arrivano divisi; al contrario, gli unici due personaggi che ne escono sulle proprie gambe sono proprio i due che ci hanno provato, a collaborare. Ma sono, appunto, soltanto due e, oltre a portare a casa la pelle, non si può dire facciano molto altro.
Weapons, però, si presta poco alle elucubrazioni di qualsiasi tipo; è, appunto, un viaggio sulle montagne russe della paura, pieno di piccoli tocchi bizzarri e di gusto per l’assurdo e il grottesco.
E anche quest’anno, l’horror muore l’anno prossimo. Alle prefiche toccherà attendere.












Su YT ho trovato questo commento, postato in risposta alla critica al film di Ryan Hollinger. È una lettura che trovo interessante e che condivido con te: “The theory I’ve been mulling over is that Weapons is ultimately about how we can no longer keep children safe. That they are expected to preside over a societal decay and rot that traumatizes them and ultimately turns them into ticking time bombs. But, by working together and cooperating, we can begin to make progress towards finding a solution. When Justine and Archer finally put aside their differences they are able to uncover what happened to these kids. I also don’t think it’s a coincidence that Gladys, the antagonist, is both the oldest person in the film and meets her demise being torn limb from limb and devoured by children. The splintered perspective design is important because each character provides a piece of the puzzle that ultimately leads to solving the mystery, but each also exhibits a new societal failing. Justine is a teacher who loves her kids but is prohibited from actually taking action to help them. Archer is the first to point the finger at others but completely incapable of introspection (given that his son is a bully). Paul is less concerned with actually solving crime and more interested in doling out punitive justice. Marcus, an administrator, is tasked with keeping the peace among the parents but is ultimately powerless to stop what goes on behind closed doors. James shows the disenfranchisement that occurs when homelessness and drug addiction are given no remedy in the way of social help programs. And finally, Alex shows us what goes on behind closed doors and lets us see the rot from its very core. I think there’s a lot of different interpretations and all of them are correct because there isn’t one singular explanation for why the world we live in is so broken”.
Sì, mi sembra un’interpretazione ineccepibile di un film che è un puzzle molto complesso. Aggiungo solo che la cooperazione tra Justine e Archer non è sufficiente a fermare il male, perché è troppo poco, e anche troppo tardi. E alla fine tocca ai ragazzini sbrigarsela da soli, perché noi non siamo più in grado di compattarci da un punto di vista sociale, e finiamo per essere permeabili a qualsiasi tipo di minaccia, esterna o interna che sia.
Giusto, sottoscrivo.