
Regia – Destry Allyn Spielberg (2025)
Facciamo partire la settimana con la difesa d’ufficio di un film che sta ricevendo insulti da ogni angolo, credo anche da chi non lo ha visto. Se vi state domandando il motivo degli improperi, basta guardare il nome della regista per avere una risposta. Sì, è la figlia di Spielberg, nata nel 1996 e giunta all’esordio in un lungometraggio dopo aver diretto due corti, nel 2019 e nel 2022.
Soprattutto tra i cinefili online, avere un parente (non importa di che grado) che lavora nel mondo dello spettacolo e voler fare il suo stesso mestiere, è un’onta da lavare col sangue. Li chiamano “nepo-baby” e sono gli arcinemici di tutti quei filmaker o aspiranti tali che magari non riescono a sfondare, non perché non sono capaci, signora mia, ma perché qualche odioso, detestabile, malvagio nepo-baby ruba loro tutte le opportunità. Se Hollywood si liberasse dalla piaga dei nepo-baby, sarebbe la terra dell’abbondanza per ogni giovane regista o attore di talento.
Non è così, a prescindere dai figli di. Ed è vero che con il cognome Spielberg hai più possibilità di lavorare nel cinema, sarei un’idiota ad affermare il contrario, ma non vi ho sentiti protestare vivamente quando è uscito Antiviral, e non solo perché il 2012 era un’epoca più civile, ma perché Brandon è un maschio, e nessuno mai mi leverà questa convinzione dalla testa.
Inoltre, il film di Destry Allyn Spielberg non è andato a Cannes, non è stato distribuito in sala, ma è arrivato dritto su Tubi, che sinceramente non mi pare questo enorme privilegio da ricca e viziata figlia di papà, ma forse sono io.
Please Don’t Feed the Children è in effetti un minuscolo film indipendente che, rispetto ad altri minuscoli film indipendenti della sua risma, può vantare la presenza di un’ottima attrice, MIchelle Dockery, in un ruolo a metà tra Annie WIlkes e la “mamma” di The People Under the Stairs. Ma, a parte questa presenza di peso (e Giancarlo Esposito in due scene di pochi minuti, roba che ha girato mezza giornata) si tratta davvero di un esordio costato una miseria, contenutissimo e con tutta una serie di restrizioni, narrative e di budget, tipiche del cinema poverello.
La storia è quella di una pandemia che ha colpito soltanto gli adulti, lasciando immuni, e spesso portatori sani, i bambini e gli adolescenti; per questo le autorità hanno istituito dei campi di prigionia in cui rinchiudere i minorenni, allo scopo di contenere il virus il più possibile. Ci sono gruppi di ragazzi che sono riusciti a scappare e vivono di espedienti, nascondendosi in case abbandonate, sempre inseguiti dalla polizia, e la nostra protagonista Mary è una di questi ragazzini.
Mentre se la sta dando a gambe da un posto di blocco, viene soccorsa da un suo coetaneo e da lui portata in un gruppo di “randagi” (così li chiamano gli adulti). Per tutta una serie di circostanze, finiscono nella casa di Clara, isolata, in aperta campagna, sperando di potersi riposare qualche ora lì e poi rubarle la macchina, ma la donna li droga e, fatta eccezione di Mary, tenuta come una specie di figlia riluttante, li chiude in soffitta con scopi non specificati.
L’ossatura narrativa del film fa capo, oltre al già citato La Casa Nera, a un altro progetto che Craven avrebbe voluto dirigere, ma che non è mai riuscito a realizzare: I Fiori nell’Attico. Spielberg però inserisce queste suggestioni in un contesto che non è solo apocalittico, ma di aperta guerra generazionale: i bambini non si ammalano, se non in percentuali ridicole, portano la malattia in giro e infettano gli adulti, causandone la trasformazione in creature belluine dedite al cannibalismo, come nella migliore tradizione degli zombie movie. La reazione degli adulti è di odio feroce e indiscriminato nei confronti dei giovani, che per forza di cose li andranno a sostituire anzitempo sulla normale tabella di marcia biologica. Avendo i grandi a disposizione tutti gli strumenti del potere, ci mettono pure poco a isolare e imprigionare i piccoli, a chiudere nei campi i loro stessi figli, a colpevolizzarli pure, per qualcosa su cui non hanno invece alcun controllo.
Io la trovo una prospettiva abbastanza interessante e anche piuttosto inedita sul cinema apocalittico e pandemico contemporaneo. Abbiamo già visto gruppi di bambini in giro per le lande desolate dopo la fine del mondo, li abbiamo già visti in guerra con gli adulti a partire da Serrador, ma è l’unione di tutti questi elementi in un unico film che lo rende meritevole del vostro tempo.
Magari se Spielberg avesse avuto più soldi e più tempo, avrebbe sviluppato il concetto a livello politico e sociale, ci avrebbe mostrato di più di questo nuovo mondo che ha escluso e recluso i suoi figli, ma siamo sempre nell’ambito dei Tubi Original, sui gradini più bassi della piramide alimentare dell’horror, e quindi ci dobbiamo accontentare di stare chiusi tra quattro pareti per 90 minuti e assistere alla discesa nella follia di Clara, ai sui discutibili metodi educativi, ai tentativi dei giovani protagonisti di liberarsi, alla triste a violenta fine di alcuni di loro.
C’è un pizzico di rammarico per come un’idea che sarebbe perfetta per film a budget medio/alto, sia eseguita con tre lire e mezza e tanta buona volontà, tanto che la spiegazione su quanto sia cambiato il mondo dopo la pandemia ci tocca affidarla a una voce fuori campo nei minuti iniziali. Però sappiamo come funziona in certe circostanze: si lavora con quello che c’è a disposizione e ce lo si fa bastare, e anche se di cognome fai Spielberg, non arriva nessuno sul set con una valigia piena di soldi da rovesciarti addosso.
La buona notizia è che Spielberg è brava, e no, per chi se lo stesse chiedendo, non cerca affatto di imitare il padre: lei è tutta macchina a mano e pedalare, inquadrature claustrofobiche e strettissime nei pertugi e nelle intercapedini della casa, pochi vezzi estetici, quasi zero manipolazione emotiva. Molto grezza, forse pure troppo per i miei gusti, ma efficace per la storia che ha scelto di raccontare.
Non solo da un punto di vista narrativo, ma anche da un punto di vista estetico, Please Don’t Feed the Children deve molto più a Wes Craven (a quello delle origini soprattutto) che a Steven Spielberg.
Perché poi, al di là della metafora generazionale sugli adulti che si divorano i figli, il film è un survival nudo e crudo con un’antagonista che, più la vicenda prosegue, più somiglia a una parente stretta di Pluto de Le Colline Hanno gli Occhi. Anche l’ambientazione è molto simile a quella di un survival anni ’70, in questa villa isolata in mezzo al nulla, dove lo sai che non ci sarà nessuno che verrà in tuo soccorso, dove sei obbligato a cavartela da solo, e non è affatto detto che tu ne esca vivo.
C’è anche spazio per una dignitosissima esplosione di gore sul finale, che proprio non mi aspettavo e, anche se quando la gente inizia a spararsi in faccia il sangue è aggiunto in post-produzione, gli si vuol bene lo stesso.
Poi è sempre un esordio, è acerbo, ha un sacco di problemi e difetti sparsi in giro, soprattutto per quanto riguarda alcuni snodi narrativi troppo forzati, la recitazione (non di Dockery che è straordinaria) non sempre all’altezza, l’età di alcuni attori che è evidente non sia quella dichiarata dal film, e via così: tutte caratteristiche endemiche al cinema indie in generale, e agli originali di Tubi in particolare.
Se dovessi dirvi che è stato un debutto folgorante, mentirei, ma mi sono divertita a vederlo e credo ci siano modi infinitamente peggiori di sprecare 90 minuti secchi.












Mi dispiace ma questo modo di vedere le cose (dove il giudizio o pregiudizio è dettato prima di tutto, o molto, dal genere non mi convince); non mi convince perché la possibile frustrazione di colui (colei, anche?) si sente defraudato da chi crede che a scavalcarlo non è il più capace o meritevole bensì il privilegiato (sicuramente un canale privilegiato è innegabile) è dirimente e relega in secondo piano – per me – il tema del genere. E poi perché resta un sensazione dettata da commenti della community che ci colpiscono più di altri e a cui diamo, per sensibilità personale, più peso di quel che probabilmente hanno – certo non valore statistico e scientificamente obiettivo. L’esordio dietro la macchina da presa della Lunch fu criticatissimo (almeno io lo ricordo così, fu la mia sensazione) ma Chained giustamente molto apprezzato. L’esordio di Cronenberg figlio apprezzato perché senza dubbio notevole ma col tempo i giudizi (o meglio, la sensazione che ho dei giudizi sui suoi lavori) fatti più critici per quel suo cerebralismo che sembra inghiottirlo e per l’incapacità di affrancarsi dalla ingombrante figura del padre, mentre della sorella Caitlin mi sembra il contrario: che ne apprezzino quel suo approccio e stile molto più personale e autonomo pur rifacendosi a temi mutuati dal padre. The Watchers è stato sostanzialmente ben accolto (anche questa è una mia sensazione) pur constatandone le imperfezioni di un’opera prima. Questo è il punto di vista di un uomo (lo sottolineo perché sicuramente ha un peso, e ora mi contraddirò con quanto detto in precedenza perché è innegabile che quando parlo di certi – che so – con mia sorella mi accorgo che il mio punto di vista spesso manca della sensibilità che nasce dalla quotidianità di vivere in questo mondo come donna).
Ma guarda, io credo che non sia il giudizio, ma il pregiudizio ciò su cui influisce la percezione del genere di appartenenza.
Una volta visto il film, la situazione si fa più complessa, ma se lo si pre-giudica, basandosi sul nome e il cognome di chi lo ha diretto, ecco che lì influisce molto. Poi io su questo film ho letto del livore molto particolare, soprattutto da parte di persone che non lo hanno visto.
Una decina di anni fa un ricercatore dell’Università di NY (Andrei Ciampian) e una ricercatrice alla Princeton (Sarah-Jane Leslie) partendo da uno studio sugli stereotipi che si hanno sull’idea di genialità provarono a dare una spiegazione sul perché della bassa presenza delle donne (e delle minoranze, siamo negli Stati Uniti dopotutto) nell’accademia; quanto i pregiudizi di genere, già nella primissima età (a scuola ma anche in famiglia) indirizzino bambini e bambine nel percorso scolastico, universitario e di vita: probabilmente molto su quello studio si trova anche in rete (ma è presente anche nel numero 591 de Le Scienze, novembre 2017 intitolato Non è un mondo per donne; numero interessantissimo perché interamente dedicato alle differenze di genere sotto ogni punto di vista, a partire da quello biologico e genetico): vale la pena (ri)scoprirlo. Il pre-giudizio (anche in una accezione neutra) è pero ineliminabile: come facciamo a dare un giudizio senza portare dentro il nostro vissuto e il nostro genere che a sua volta condiziona il nostro giudizio? Fermandomi al cinema mi è impossibile guardare – che so – The Substance e non interrogarmi sul genere sessuale del o della regista (anche non conoscendolo a un certo punto me lo chiederei), lo stesso guardando Promising Young Woman o Swallow (e ti devo dire che il pregiudizio mi spazzò nello scoprire un uomo dietro la scrittura e direzione di quel film, proprio per la sensibilità con cui la storia era stata raccontata più che per la storia stessa); ma qualsiasi opera cinematografica e non, direi. Ad ogni modo stasera spero di vedermi Please don’t feed the children provando a non avere pregiudizi, dimenticando che a dirigerlo sia stata una figlia di papà.
Altra grande figlia d’arte è Sofia Coppola (soprattutto per l’ incompreso “Marie Antoinette”)… Interessante la citazione di ” Ma come si può uccidere un bambino?” di Serrador, film quasi perfetto, penalizzato però da una introduzione interminabile (o almeno io me la ricordo così)dove si elencano una serie di malefatte degli adulti contro i bambini nel corso della Storia…
Ma Sofia Coppola ha cominciato a dirigere in un’epoca più civile di questa, quindi si è valutato il suo lavoro senza stare lì a fare le pulci al fatto che fosse figlia di.
La trama mi ha ricordato vagamente “Anna” di Ammaniti. Lo guarderò.
Sta su Tubi, che mentre i colossi si fanno le streaming war, è lì a salvare vite tutti i giorni.
Insomma da vedere, a me non è mai fregato molto dei giudizi degli altri, anzi spesso ho notato come i gusti non coincidono, in più facendo il filmmaker ti direi che sono dall’altra parte della barrica di questi haters, cioè sapendo quanto è faticoso arrivare a certi risultati, soprattutto nel low budget, apprezzo ancor di più il lavoro fatto da alcune persone nelle difficoltà produttive. Mi organizzo per vederlo, grazie mille, dai sempre tanti spunti interessanti.
Ma anche io lavoro spesso in ambito indipendente e conosco le difficoltà cui si va sempre incontro.
Poi se una persona è fortunata perché il padre, la madre o lo zio fanno questo mestiere, buon per lei.
L’esordio “pandemico” di Destry sembra davvero interessante! L’unico vero, grande limite a tutta l’operazione lo.vedo proprio in Tubi, non esattamente il canale ideale per far spiccare il volo ad ali promettenti come le sue. A questo punto, io non posso fare a meno di chiedermi quali risultati si sarebbero raggiunti potendo contare, in alternativa, su di un più solido supporto come quello di Shudder (per fare un esempio)…
Non molto tempo fa Julien Colonna parlando del casting del notevole Le Royaume ha raccontato delle difficolta nel trovare il volto della protagonista adolescente, dal momento che la voleva esclusivamente còrsa e, per ragioni sindacali, potuta ricercar solo tra le sedicenni. Non so se in America le regole per scritturare minori siano altrettanto stringenti (a meno che non si voglia girare col freno a mano) ma non so come spiegarmi altrimenti la scelta di far interpretare a dei ventenni (e anche più) ruoli pensati per dei bambini! E comunque il vero limite di Please Don’t Feed the Children non è Destry Allyn Spielberg (per quel poco che ci capisco la regia non mi è sembrata male, si avvertiva la minaccia e nel finale l’esplosione gore era resa bene) bensì Paul Bertino poiché la debolezza del film sta nella scrittura con: premesse disattese buchi mai colmati, rappresentazione di un certo mondo e dinamiche eccessivamente rilegate sullo sfondo e scelte dei piccoli protagonisti che fanno a botte con la sospensione dell’incredulità perché piccoli i protagonisti non sono (per me anche The Watchers, altro debutto alla regia e visivamente accattivante, pagava una scrittura così e così). E il budget qui c’entra poco (dopotutto poi cambiare il finale di Carrie per ragioni di spesa senza che ciò pesi davvero nell’economia del film); peccato perché si partiva da una idea interessante, solo apparentemente in contrasto con il senso comune (gli adulti il cui compito è proteggere i loro piccoli ne sono invero la minaccia) perché l’attualità ci dice altro (oggi le nuove generazioni si sentono l’Ultima e a metterla in pericolo sono sempre le scelte degli adulti). Comunque ben venga chi sceglie e si muove nel territorio dei propri genitori cercando però la propria strada, dunque ben venga Destry Allyn Spielberg; per quanto riguarda Bertino mi consolo che a breve vedremo il lavoro di Bryan.