
Regia – Neil Marshall (2005)
È un pomeriggio di fine ottobre e ho da poco compiuto ventisette anni; il cinema non è né il mio lavoro né la mia fissazione principale, perché sono ancora certa il mio futuro sarà suonare la batteria.
Con l’horror, che comunque seguo da quando ho memoria, sto attraversando anche una fase di stanca, perché non c’è quasi niente che mi piaccia davvero, e ancora non ho sviluppato la dimestichezza che possiedo oggi per andarmi a scovare le perle nascoste nei meandri del cinema indipendente. Però c’è questo film di cui online si parla tantissimo, un film inglese, con un cast tutto femminile, ambientato nella profondità delle grotte.
Lo vado a vedere da sola, in una sala di Roma che adesso non esiste più, e la persona arriva alla fine dei titoli di cosa ed esce all’aperto, grata di poter vedere il cielo d’autunno al crepuscolo, non è la stessa di prima.
Io non lo so esistono i film che “ti cambiano la vita”, ma esistono quelli che cambiano te. The Descent lo ha fatto. Se sono qui adesso il merito è anche suo.
L’horror è un genere declinabile in tante modalità diverse, di rado si presenta in forma pura, soprattutto negli ultimi anni, è quasi sempre contaminato con altro e, a sua volta, contamina altri generi, come se fosse una scheggia impazzita che colpisce dove meno te lo aspetti. The Descent, tuttavia, è un horror nella sua forma più pura, e lo è a ogni possibile livello interpretativo.
C’è il primo strato, quello della violenza primitiva, dell’orrore quasi animalesco, brutale, quello dei mostri che ti mangiano la faccia e, in una feroce lotta per la sopravvivenza, obbligano le protagoniste a somigliare loro sempre di più, fino a diventare quasi indistinguibili: sporche, ricoperte di sangue e liquami vari, le sei giovani donne, scese nella grotta per ritrovare un’amicizia perduta tempo prima, si riducono all’essenza stessa della vita biologica, corpi in rotta di collisione, creature fatte di solo istinto.
The Descent è un film violentissimo perché è la violenza il linguaggio della natura ed è la violenza che resta, quando le circostanze ti portano a spogliarti dalle vestigia della civilizzazione. Cieco e belluino desiderio di respirare, ancora un’ora, ancora un minuto.
Non è un caso se il personaggio più morigerato, più razionale e più umano, Beth, faccia la fine miserabile che fa.
È questa la purezza del cinema dell’orrore, non il gore (che pure è presente in dosi da cavallo), non gli occhi cavati o i crani fracassati: l’umanità nuda di fronte a se stessa, la ridicola fragilità di tutto ciò che abbiamo costruito, che è soltanto una membrana sottile usata per coprire l’abisso su cui camminiamo. Il cinema horror rompe quella membrana e fa uscire fuori i mostri; quando è particolarmente efficace, come in questo caso, aggiunge pure la consapevolezza che tra noi e l’altro, l’estraneo, l’essere acquattato nell’abisso, non c’è poi questa grossa differenza.
The Descent non è, come lessi all’epoca e leggo ancora oggi, un ritorno all’horror degli anni ’80, o meglio, lo è in maniera molto superficiale, lo è per come si avvale di effetti pratici, per come non nasconde le lacerazioni della carne con stacchi di montaggio, per come sceglie di farti vedere tutto, senza che tu possa distogliere un solo istante lo sguardo. Concettualmente, tuttavia, è figlio dell’horror degli anni ’70, del survival in particolare. In un certo senso, The Descent sta agli anni ’70 come Doomsday sta agli anni ’80, con la differenza che il secondo è un film citazionista, mentre il primo opera un recupero ideologico dagli anni ’70, ma lo fonde con un’estetica e una visione che sono tutte contemporanee.
Per questo Doomsday è un film divertentissimo, che adoro e rivedo almeno una volta l’anno, mentre The Descent è un capolavoro che devo prendere a piccole dosi perché mi ammazza ogni volta.
Eppure, Neil Marshall, prima di farci precipitare nella messa in scena dei nostri peggiori incubi, si prende un sacco di tempo: intravediamo i crawlers dopo 47 minuti di film e bisogna arrivare allo scoccare dell’ora perché si manifestino in tutto il loro splendore, in una sequenza che fa il verso al linguaggio del found footage, prima ancora che uscissero Rec o Paranormal Activity. Considerando che The Descent dura 99 minuti, titoli di coda compresi, mostra il suo vero volto di horror puro quando è arrivato oltre la metà.
Cosa ci fa, Marshall, con tutto quel tempo? Costruisce delle solide basi emotive per poi scatenarsi in un’ultima mezz’ora durante la quale non c’è un attimo di pace.
Ci fa conoscere i personaggi (è anche sceneggiatore), fornisce loro delle solide motivazioni per come poi si comporteranno nelle grotte. Fa parlare le tra loro in maniera spontanea, creando una profonda alchimia all’interno del gruppo. Non ci spiega quale sia la relazione tra loro perché è evidente dai dialoghi, dai gesti: ci sono tanti sottintesi, tante cose non dette, e Marshall non le porta mai davvero a galla; la tensione, i rimorsi, i sensi di colpa, è tutto lì, che scorre tra le risate e le battute come una corrente elettrica.
Questo è il secondo strato, indispensabile per la resa di un horror così feroce: entrare in contatto con le protagoniste e, anche se alcune di loro (anzi, quasi tutte) sono respingenti, anche se si resta sbalorditi dal loro modo di agire, le si comprende lo stesso, a un livello di vicinanza epidermica, di connessione con la loro fallimentare normalità, che è anche la nostra.
Per ovvi motivi, quelle che conosceremo meglio sono Sarah (Shauna MacDonald) e Juno (Natalie Mendoza), ma anche le altre sono messe in scena con poche e incisive pennellate capaci di renderle vive e reali, in tutta la loro complessità. E di farci stare da cani quando muoiono.
È importante che siano sei donne, e anzi, prendere sei donne e scaraventarle all’inferno si rivela un colpo di genio, trasformando The Descent in un manifesto generazionale virato al femminile.
Nonostante ciò che piace raccontare a chi di horror non ne sa niente, non è vero che la maggioranza delle vittime, all’interno del genere, sono donne. È vero il contrario, e questo perché il pubblico, alla morte di un personaggio femminile, reagisce in maniera differente rispetto a quella di un personaggio maschile. È un condizionamento di cui siamo a malapena consapevoli, ma che evidentemente Marshall conosce bene, perché ce le ammazza una dietro l’altra senza alcuna pietà.
E poi c’è il discorso relativo a come queste donne si comportano in una situazione estrema, che contraddice tutto ciò che siamo abituati ad associare al concetto di femminile e, andando nel particolare, a quello di final girl. Oltre a essere un rinfrescante ritratto di donne fuori controllo, The Descent ti sorprende a ogni svolta perché va in direzione opposta ai nostri pregiudizi e alle nostre convinzioni.
C’è poi un terzo strato di orrore, più sottile degli altri, e visibile sin dalle prime inquadrature: è una bomba a orologeria che ticchetta nel ventre del film, pronta a esplodere nel terzo atto.
È una vulgata abbastanza diffusa che la prima parte di The Descent, quella senza mostri, funzioni meglio di quella coi mostri. In realtà, sono complementari, una non avrebbe senso senza l’altra, non solo perché una è preparatoria all’altra, ma perché è tra i cunicoli, i precipizi, l’assenza di luce, i graffiti e la allucinante claustrofobia dell’ora iniziale che si consuma la miccia della dinamite posizionata ad arte da Marshall, quella del terrore esistenziale, che agisce alla maniera di un gas, avvolgendo e potenziando l’altra forma di terrore, più primitiva e quasi infantile: paura del buio, paura delle cose che nel buio prosperano, paura di perdersi e non tornare più a casa. Sono tutti timori atavici che il film evoca e sui quali poggia gran parte della sua efficacia, ma il cuore di The Descent risiede altrove.
Sta nella mancanza di punti di riferimento, nel non avere via d’uscita, non dalle grotte, ma da una condizione spirituale, umana, stretta intorno alle protagoniste come una gabbia. È qui che il film dimostra la sua appartenenza all’horror di inizio secolo, nella desolazione con cui mette in scena i rapporti umani, nella sfiducia nei confronti dei legami affettivi, nella fallibilità di ogni personaggio, nella tragedia di un gruppo di amiche che si sgretola, scivolando in un individualismo mostruoso destinato a essere la loro condanna.
Per questo motivo, e non perché i lieto fine non siano auspicabili, Sarah non può uscire da quelle grotte, e la versione del film per il mercato statunitense è un insulto all’intelligenza.
Una volta che hai imboccato una certa strada, non ci può essere ritorno, puoi solo fissare il vuoto immaginando un passato ideale, perché il presente è un incubo, e nel futuro c’è solo la morte.












Oddio non sapevo ci fosse una versione per il pubblico statunitense. E perché non mi stupisce per niente?
La versione per i cuccioli speciali
Con “C’era una volta in America” di Leone fecero uno scempio simile
Ah ah ah 😀
Giorno Lucia,beh,hai gia’ detto tutto…..primordiale,un ritorno all’horror primordiale,con la paura atavica del buio e degli spazi stretti,in piu’ ci aggiungiamo pure i mostri…..tanto per fare del bene alle nostre coronarie,film straordinario,di qui ho divorato i contenuti speciali dell’edizione DVD,tanti..tantissimi auguri “The Descent”!😁👍
Sul fantomatico montaggio statunitense del finale del film,ne sono ampiamente a conoscienza,direi che a noi ci ando’ decisamente meglio,se mai,in virtu’ della mia curiosita’ mi sono guardato il sequel derivato da quel finale alternativo,”The Descent:Part 2″,lo hai visto Lucia?
Purtroppo sì, l’ho visto!
Ottimo film, il seguito non è stato male, almeno per me, ma non così necessario
È sempre bello leggere di come un film viene vissuto e dell’importanza che ha nella vita di una persona. Grande!
Film eccezionale e difficile da reggere proprio per quello che racconti tu. Io sono riuscito a vederlo una volta sola e poi basta per paura di starci sotto, mentre, ovviamente, Doomsday l’ho rivisto molte volte. Però mi è rimasto “dentro”, forse anche di più di quest’ultimo.
Riflettendo mentre leggevo pensavo che gli aspetti dell’umano e dell’esistenza che l’horror mette a nudo in modo spietato (ma anche commovente, dipende) nel mio caso sono sempre stati stimoli sia per “accettare” (non so se è proprio il termine giusto, forse anche “comprendere” ci sta) la natura umana (quindi anche la mia), sia per reagire ai sui aspetti più “negativi” (uso un termine ombrello un po’ ampio). Forse è per questo che il “mio” non sono proprio gli horror come questo (che però vanno dritti dove devono andare) ma le storie dove c’è sempre un filo di speranza e che suggeriscono anche la parte più costruttiva, solidale, empatica… degli esseri umani (che io adoro). Ma è una mia reazione ad una forma di consapevolezza che proprio film come questo sanno mostrare.😅
E poi… il Marshall di quel periodo era proprio bello da vedere e cascava a fagiolo: io mi ricordo la soddisfazione dopo Dog Soldiers, questo, Doomsday… Sono film che hanno mantenuto vivo l’immaginario in anni magari non esplosivi per il genere…Non so se è il posto giusto per scriverlo, ma a me pure Hellboy è piaciuto un sacco.😁
Io con l’Hellboy di Marshall mi sono divertita tantissimo e credo sia un ottimo film, molto più in linea con il fumetto rispetto a quelli, bellissimi, di del Toro. Credo che Marshall sia stato davvero intelligente proprio nel volersi distanziare dal collega e nel voler fare una cosa più sua. Ma purtroppo la gente non capisce nulla.
Un invidiabile record con gli adattamenti su schermo di Hellboy,tutti e 4 i film li ho amati,tutti molto diversi tra loro,senza prendere prestiti dai film precedenti,immagina la mia gioia nel sapere che il nuovo film del diavolaccio col sigaro diretto da Brian Taylor,e che ho gia’ visto in lingua originale e adorato,arriva ad agosto….nelle SALE😍.
La Sarah Carter,protagonista di questo film , è un elemento destabilizzante in più nel gruppo, incapace di superare un grave trauma(l’incidente stradale che ha portato la morte del marito e della figlioletta), che poco a poco la porterà alla follia e al delirio (forse se ne ricorderà Aster nel tratteggiare la Dani Ardor del suo, straordinario,”Midsommar”). Per il resto,eccellente recensione, di uno dei cinque migliori film horror del primo decennio di questo secolo, con un gruppo di attrici dirette magnificamente.
che dire?Capolavoro assoluto che spezza e annichilisce…mi hai fatto venire voglia di rivederlo (peccato la fine che ha fatto Marshall)…
Purtroppo la faccenda di Hellboy gli ha rovinato la carriera, che peccato.
In quell’ottobre di vent’anni fa non solo sei entrata nelle grotte ma, a differenza delle protagoniste (e del rimontaggio americano, aggiungo), sei pure riuscita a uscirne e con una nuova strada da percorrere, quella che ti ha portato a incontrarci tutti qui 😉 Quindi, e a maggior ragione, tanti auguri a “The Descent” (il cui personale parere a riguardo penso sia noto da tempo su questi lidi) per i suoi venti anni portati egregiamente… Peccato che il nostro Neil, oggi come oggi, praticamente si possa dare per disperso (Il suo Hellboy non era affatto male, e pure The Lair aveva un suo perché) 😟
Ottimo post.
All’epoca dell’uscita avevo già 30 anni e la mia illuminazione sulla via di damasco, in ambito Horror, datava circa un quindicennio prima (con Allucinazione perversa), ma sono comunque uscito dalla sala come se mi avesse investito un tram.
Ti posto quanto ho scritto dopo averlo rivisto qualche anno fa:
La pellicola che ha fatto conoscere al mondo il talento di Neil Marshall è un incubo claustrofobico al femminile che non lascia un attimo di respiro.Chi ha avuto la fortuna (?) di vederlo al cinema all’epoca conserva ancora vivo il ricordo dello stato di tensione costante, anche perchè Marshall in pratica inventa di sana pianta il jump-scare moderno e, ancor prima di mettere in scena le schifosissime creature, ci immerge in un modo sotterraneo ove le comodità della civiltà sembrano un lontano ricordo e la (bellissima) brutalità della natura si palesa senza filtri.Girare e illuminare cunicoli è stato sicuramente una sfida tecnica non indifferente per la troupe, e va dato merito a Marshall & Co. di averci fatto assaporare l’amaro gusto della brulla terra e della paura; forse qualche scena è eccessivamente concitata, ed è pur vero che risulta difficile distinguere i personaggi femminili che non siano Sarah e Juno, però i mostri sono bellissimi sin dalla loro prima (terrificante) apparizione e l’idea di dover sfuggir loro nei minuscoli cunicoli mi appare snervante persino adesso che sto digitando la recensione.Un ottimo b-movie di genere che non aspira a metaforizzare chissàcosa ma che mantiene la promessa di regalarci un’ora e mezza di angoscia.
Film stupendo e devo rivedermelo. Post altrettanto stupendo.
ma solo io trovo la parte più angosciante proprio loro che strisciano e si rompono le ossa tra i cunicoli?
la consapevolezza che non moriranno di stenti al buio ma macellati da mostri umanoidi la trovo quasi più confortante: è di sicuro più veloce
Nel caso in cui il 21 ottobre tu dovessi passare da Torino:
https://www.tohorrorfilmfest.it/the-descent-4k-marshall/